Sulla mia pelle

Il film sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi è importante, non solo per la ricostruzione verosimile di quella che è stata una tragedia (evitabile) frutto di un’ingiustizia assurda, di un’anomalia o del malfunzionamento della macchina statale e giudiziaria, che anziché proteggere un suo cittadino fragile lo stritola e lo getta via come un oggetto inutile – ma perché ci dice qualcosa di essenziale, ben oltre la pelle o la superficie, sia del potere sia della china pericolosa che il clima sociale va prendendo in questo paese.
Il dramma di Cucchi preannuncia, cioè, con alcuni anni di anticipo la precipitazione cui la paranoia securitaria può portare un’intera società in assenza di conflitto e di diffuse istanze libertarie e di emancipazione (del resto lo si era già visto a Napoli e a Genova nel 2001, e che qui si sia trattato di un fatto “privato” e non politico non cambia di una virgola la sostanza dei processi in corso).
Stefano Cucchi appare cioè come una figura sociale scomoda e marginale, del tutto sacrificabile sull’altare dell’ordine borghese da ristabilire – insieme a tutta la consimile feccia sociale, siano essi drogati, vagabondi, rom, poveri, immigrati, profughi e sbandati vari. Chi è al governo oggi, e non parlo solo della Lega ma anche dell’anima più forcaiola dei suoi alleati pentastellati, si è nutrito di questo risentimento sociale, del livore e del fastidio per i diversi.
In questo contesto viene anche legittimata la figura di uno Stato che diventa padrone della vita dei suoi sudditi, al di là del discorso formale sui diritti. Ma attenzione, non necessariamente lo fa in maniera repressiva o violenta (qui la violenza c’era stata, perché a Stefano gli sbirri spezzarono la schiena e le reni – le reni! – mentre “gli cercavano l’anima a forza di botte”). Ma la violenza più terribile avviene dopo (ed è questa la cosa che i cittadini liberi per davvero devono più temere): quando l’anonimia delle strutture, i meccanismi della burocrazia statale, i vari organi dello stato stritolano  il corpo martoriato di Stefano, lasciandolo solo e morente sul letto di un ospedale carcerario. È lì che cova la vera violenza, nell’avere trasformato quel corpo vivo e sofferente in un oggetto sacrificabile, in una cosa, in un rifiuto ingombrante, in una procedura, in un numero – ed infine in un foglio di carta notificata: trovo infatti che una delle scene più violente e significative del film sia quella in cui la sorella Ilaria legge all’avvocato per telefono la lettera con cui si notificano le disposizioni per l’autopsia. Ecco: il corpo di Stefano è diventato una diagnosi autoptica, perché la procedura non si deve inceppare, deve terminare il suo corso, e ristabilire l’ordine.
(Era stato solo l’urlo disperato di Ilaria a costringere i medici a mostrare il cadavere di Stefano, sottratto alla pietà della famiglia dalle assurde istanze della burocrazia statale).
Tutto poteva finire lì. Nell’archiviazione di un caso sfortunato, in cui un tossico e pure spacciatore, per una serie di contingenze, ed anche per sua pervicace volontà, che qualcuno dovette scambiare per inerzia, finisce male, era destino che finisse male.
Ma sappiamo com’è poi andata a finire davvero – anzi, come ancora non sia chiusa, né deve chiudersi, perché la ferita inferta deve rimanere aperta, così come i nostri occhi, bocche e menti di fronte ad ogni prevaricazione – sia essa di uno stato cieco e fintamente neutrale, sia, soprattutto, di masse che chiedono sicurezza per sé (e per la propria roba), al prezzo della libertà di tutti.
Il corpo di Stefano, la sua pelle martoriata, la sua anima annichilita, devono essere l’urlo pietrificato che si scaglia contro ogni potere ed ogni prevaricazione.

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

1 commento su “Sulla mia pelle”

  1. Grazie per questo ravvivare il fuoco su Stefano, su questo martire. L ‘analisi della Nostra situazione Politica e Sociale attraverso questa vita spezzata così brutalmente mi riguarda e tiene vigile la mia attenzione. Anche chi non ha tempo per pensare agli altri, deve trovarne per questa riflessione, perché può capitare a tutti. Tortora, Giuliani, Moro, Falcone, Borsellino, Cucchi, sono esempi della stessa procedura di Sicurezza….di una Governance, di una lobby di Poteri forti.., che compra, manipola, strumentalizza e stritola qualsiasi vita. Lo si comprende dal silenzio imposto ai fatti. Lo si comprende dalla rabbia disperata delle persone care che devono sopravvivere, e testimoniare una violenza senza senso.
    Con riconoscenza.

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