Sarà questa la metafora che ci guiderà in questa nuova tappa del nostro viaggio nella coscienza umana, una metafora coniata dall’antropologo-filosofo Clifford Geertz, per criticare gli assertori anti-relativisti di teorie forti della Natura umana o della Mente – ovvero di essenze permanenti ed immutabili volte a definire Homo sapiens una volta per tutte. La torta è la biologia, mentre la glassa è la cultura; la biologia è la sostanza, la cultura solo una vernice superficiale: ciò vuol dire che per quanto ci eleviamo ai cieli della metafisica, non potremo mai liberarci dal “guinzaglio genetico” che ci stringe il collo.
La prima parte del nostro incontro sarà dedicata a mettere in dubbio il senso di questa metafora, perché la sociobiologia, la psicologia evolutiva (e anche il biologismo dello zoologo Desmond Morris, che negli anni ’60 ha scritto il celebre saggio divulgativo La scimmia nuda) non convincono per nulla: non c’è dubbio che è dalla natura e dalla biologia che veniamo, al pari degli altri animali, ma sono proprio alcune delle sue caratteristiche biologiche (specie-specifiche) ad aver consentito ad homo sapiens di compiere dei salti evolutivi, e di imprimere alla sua storia un’accelerazione assente in altre specie. Con questo non stiamo dicendo che l’essere umano sia extra-naturale, ma che occorre definire meglio il concetto di natura e in quale misura essa si va innestando (e modificando) nel corso dell’evoluzione culturale.
I concetti-chiave di questa nostra disamina sulla “natura umana” sono carenza e potenza.
Un altro celebre filosofo-antropologo del ‘900, il tedesco Arnold Gehlen, sottolinea proprio gli elementi deboli della nostra costituzione biologica: noi saremmo una specie affetta da sprovvedutezza biologica, carenza istintiva, indeterminazione ambientale. Una specie che, secondo le prospettive evolutive stabilite da Darwin, dovrebbe avere poche chances di sopravvivenza.
Su questa linea di discorso, Paolo Virno ha sottolineato come l’invariante biologico della natura umana (la “torta”) sia in realtà ben poco invariante, dato che noi siamo caratterizzati da una serie di facoltà che aprono al mutamento, alla variazione, a profonde modifiche del nostro modo di essere. Egli ne individua 4 di fondamentale importanza:
-la facoltà di linguaggio, caratterizzata da infinità discreta – dalla capacità, cioè, di produrre un numero infinito di espressioni a partire da un numero finito di elementi
-la carenza istintuale – che viene surrogata dagli strumenti e dalla tecnica
-la neotenia (quel fenomeno evolutivo per cui negli individui adulti di una specie permangono caratteristiche morfologiche e fisiologiche tipiche delle forme giovanili)
-la mancanza di un ambiente univoco: homo sapiens è la specie che non è legata ad un solo ambiente naturale, ma che è in grado di adattarsi a una pluralità di ambienti – fino a creare un proprio ambiente, ciò che alcuni filosofi hanno definito “mondo”, distinguendolo dall’ambiente delle altre specie animali.
Tali caratteristiche biologiche fortemente “carenti”, hanno fatto sì che la nostra specie sviluppasse delle strategie di sopravvivenza diverse dagli altri animali, mettendo in primo piano la spinta potenziale, costruttiva e culturale (resa possibile dall’encefalizzazione, dalle complesse e sempre più lunghe strategie di allevamento e dalla socializzazione).
L’esempio chiaro ce lo dà proprio Desmond Morris a proposito del cambiamento repentino dello “scimmione nudo” da primate frugivoro, dedito alla raccolta e al consumo prevalente di frutta, a cacciatore, che dunque deve utilizzare strumenti e strategie collettive sconosciute agli altri grandi predatori (soprattutto i felini) e lontanissimi dagli stili di vita delle scimmie antropomorfe.
Ma ancor più illuminante è la riflessione che ne trae Roberto Calasso nel saggio Il cacciatore celeste: la caccia diventa negazione (di sé) e apre un processo insieme di dissociazione e di imitazione. L’inclinazione alla metamorfosi non è finalizzata ad eludere un predatore, ma a diventarlo. La sostituzione e lo stare-per diventano così l’atto fondativo e segreto di homo sapiens.
Diventa quindi cruciale per gli umani il concetto di potenza (da intendersi come possibilità, poter essere, o meglio: poter divenire altro da sé, dynamis): cosa può un corpo, data la sua forte carenza biologica?
Ma, ancora di più e alla luce dell’elemento comunitario che contraddistingue questo passaggio evolutivo: cosa può un corpo sociale?
È infatti la mente – la sfera della coscienza – a rendere possibile tale potenziamento indefinito: e la mente (così come il linguaggio) sono facoltà fortemente sociali.
La coscienza (le facoltà simboliche e di linguaggio) retroagisce sul corpo potenziandolo a dismisura (tramite la tecnica). Potenza che è insieme individuale e collettiva.
Ciò vuol dire che se cerchiamo una natura umana, un’essenza, questa è propriamente quella di non averne: l’essere umano è la specie che tenta di superare i propri vincoli biologici ed ambientali, di condizionarli e di modificarli. Tenta di spezzare il guinzaglio e di costruire una glassa così speciale da far dimenticare la prosaicità della torta (un banalissimo pan di Spagna).
La cultura – la “seconda natura” – diventa così il modo umano di essere: non più vincolato a ferree leggi biologiche, ma prodotto di nuove regole. E le regole, proprio perché sono istituite dagli umani, possono essere violate e modificate: è lo spazio aperto dalla regola – ci fa notare Cimatti – a fondare la libertà, non viceversa.
Siamo dunque davvero così liberi di autodeterminarci, proprio perché non schiacciati sulla ripetitività (o sui tempi lunghissimi) della biologia? La nostra stessa costituzione biologica ci consente di metterla in discussione dalle fondamenta e di ripensarci e riprogettarci secondo linee evolutive nuove e diverse da quelle naturali? Siamo più cultura che natura? Più mente che corpo?
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Schopenhauer, tanto per fare un nome di peso, non la pensa esattamente così. E spariglia i giochi.
Nella sua tesi sul nostro duplice modo di essere (e di accedere al mondo) – ovvero, coscienza e volontà, rappresentazione e corporeità – la sua maggiore attenzione va alla volontà, alla forza biologica fondamentale.
È vero che noi innanzitutto siamo il mondo che ci rappresentiamo (che è un mondo ordinato secondo le categorie di spazio, tempo, causa) – ma ciò non toglie che non siamo teste d’angelo alate, e che il corpo costituisce la nostra zavorra: sotto la glassa c’è la torta, dietro il velo di Maya di un mondo apparentemente ordinato c’è la nuda realtà. Il mondo – l’essere nella sua costituzione più vera e profonda – è prima di tutto volontà.
Il corpo che noi innanzitutto siamo, più che potere (e poter scegliere), vuole: è predeterminato e condizionato dalle passioni, dagli istinti, dai desideri – dalla vita che è volontà. E la vita è dolore e sofferenza; essa usa gli individui per affermare se stessa, è guerra (tra individui e tra specie), forza cieca ed irrazionale, priva di scopo.
Schopenhauer ritiene che la stessa coscienza altro non è che uno stratagemma della volontà per espandersi indefinitamente. La conoscenza è mechané: macchina, dispositivo, mezzo, espediente, artificio – ma anche raggiro, macchinazione, astuzia: come se la biologia stesse usando un suo prodotto (che si crede libero) per affermare le proprie forze primordiali.
La macchina (biologica) produce la coscienza che però, a sua volta, produce altre macchine – una contiguità sorprendente oltre che paradossale (ma lo vedremo meglio nel prossimo incontro).
Per Schopenhauer non sono né la tecnica, né la cultura, né la conoscenza a liberarci (anzi, esse stringono ancor più le catene): gli unici modi per liberarsi dall’orrore del mondo è non voler vivere: contemplare la natura con l’occhio puro e disinteressato dell’arte, oppure – in modo più radicale – abbandonare il mondo con l’ascesi mistica e il nirvana della tradizione buddista. Eliminare l’eros, il desiderio, la bruciante volontà di vivere in favore dell’agàpe, della compassione e di una esistenza rinunciataria.
Ma quale contemplazione sarà mai possibile in un mondo totalmente messo al lavoro, tecnicizzato e denaturalizzato?
Il mondo umano dopo Schopenhauer ha decisamente imboccato la via della volontà di potenza – quella potenza come possibilità di cui abbiamo parlato prima, che diventa autoaffermazione e autocreazione: l’evoluzione culturale ha portato homo sapiens a credersi homo deus – secondo la felice formula di Harari. L’uomo non crede più a un Dio che lo ha creato (o, in alternativa, a una Natura naturans, come nell’ottica di Spinoza): egli è creatore di se stesso, in grado di forzare i propri limiti biologici e naturali. Non solo è in grado di trasformare e dominare la natura fuori di lui – ma anche, e sempre più in profondità, la sua stessa natura.
Dunque qual è il destino di questa specie che si crede onnipotente?
Articolo molto interessante. Su questi argomenti ho letto qualche anno fa un libro illuminante di Lewis Mumford. http://www.anobii.com/books/Il_mito_della_macchina/
grazie per la segnalazione, ne terrò senz’altro conto, anche perché nel prossimo incontro affronteremo il tema della tecnica e delle macchine
Probabilmente l’uomo continuerà a credersi onnipotente.
Da sempre aspira ad esserlo.
Adamo ci provò, Promèteo pure, l’uomo comune anche.
I soli progressi umani oggettivamente verificabili sono di tipo tecnico-tecnologico ma, nonostante la glassa, la torta è destinata a scadenza, magari prossima oppure più lontana, comunque inesorabilmente programmata.
Però ci sono categorie etico-spirituali- mistiche per le quali i progressi sono di tipo privato ed individuale e non dimostrabili a terzi.
Quindi, se così si può dire, l’uomo mi sembra destinato a permanere entro i suoi delimitati confini naturali, compiendo step di avanzamento tecnologico, mantenendo sempre aperte le lontane frontiere dello spirito.
Un caro saluto.