Neuroriduzionismo

Siamo liberi o siamo macchine? Siamo macchine che si credono libere, o esseri così liberi da poter decidere di diventare macchine, negando la nostra stessa libertà?
(Il fatto che me lo stia chiedendo non dimostra automaticamente che io sia libero – al più, che sono “libero” di chiedermelo).
Non sono certo nuovi gli argomenti volti a smontare la nostra pretesa costituzione ontologica quali esseri razionali, coscienti, liberi di scegliere o di determinarsi.
Gli stoici erano piuttosto fatalisti in proposito, mentre Epicuro ipotizzò una sorta di torta tripartita (anche se non ci è dato sapere in quali proporzioni): mi prendo la libertà di stabilire nella misura di un terzo la necessità naturale, un altro terzo la fortuna, e l’ultimo terzo il destino deciso da noi stessi. Linee che vanno in una sola direzione, linee che si muovono a caso, linee che deviano (klinàmen).
Spinoza (e, in continuità con lui, Schopenhauer) pensava che il libero arbitrio fosse frutto di immaginazione: gli esseri umani sono determinati dalla loro stessa costituzione naturale ed emotiva, sono per lo più superagiti dalle passioni (affetti o affezioni), dalla volizione, dal desiderio, dalla forza propulsiva del conatus. Essere liberi nel mondo di Spinoza significa solo accettare di essere cosiffatti – estremizzando: accettare di essere delle macchine naturali. Leibniz distingueva tra macchine organiche (le cui parti sono macchine all’infinito) e macchine artificiali, che una volta smontate non sono nulla: e comunque la coscienza viene garantita da quel crescente fenomeno percettivo che attraversa la materia fino a farle aprire gli occhi, e che nel sistema leibniziano ha nome monade.
(Nietzsche, diversamente da uno Schopenhauer antivitalista e rinunciatario, avrebbe poi spinto in direzione della fantomatica volontà di potenza: tanto vale, insomma, cavalcare i nostri istinti vitali e far galoppare il corpo in una danza ebbra, per quanto insensata).
Ma sono il biologismo, il vitalismo, lo psicologismo – e ora il neuroscientismo – novecenteschi a spingere sempre più in direzione di una negazione secca dei fenomeni coscienti, o a ridurli a puro meccanismo: sotto la lente della scienza (o, meglio, dell’ideologia scientista), il nostro antico essere liberi, coscienti, responsabili, capaci di scegliere, ecc. diventa solo un intreccio di forze meccaniche delle quali siamo in balia.
L’io appare sempre più una finzione narrativa (anch’esso spinozianamente un’illusione ottica), quel che ci diciamo per tenere insieme i nostri pezzi, sia biologici che sociali e culturali. Le scienze (in verità non solo quelle naturali, ma ormai anche quelle “umane”) sembrano procedere tutte all’unisono nella direzione di una decostruzione radicale e definitiva dei miti dell’umanesimo: io, individuo, libertà, anima, spirito, coscienza – tutti infilati dentro all’imbuto neuroriduzionista.

Proviamo ora a riassumere in 6 punti gli argomenti a sfavore della libertà umana (necessariamente all’ingrosso):

1. Siamo predeterminati da forze naturali che non possiamo controllare: su tutte la spinta evolutiva e genomica (aveva a suo tempo fatto scalpore il celebre “gene egoista” che ci usa per i suoi scopi sotterranei, e che tanto ricorda, pur in ambito affatto diverso, la cieca volontà schopenhaueriana).

2. Veniamo sospinti qua e là dalla nostra stessa costituzione bioemotiva: il corpo, e le sue regole omeostatiche, decidono che cosa è meglio per noi e che cosa dobbiamo fare (da questo punto di vista, la morale spinozista è molto più aderente alla natura umana della morale kantiana).

3. Ci illudiamo di scegliere ciò che vogliamo o desideriamo – mentre è evidente che lo scegliamo proprio perché lo vogliamo: sono i desideri che, a monte, hanno già scelto per noi. La volontà vuole sempre ciò che vuole, in maniera stupidamente tautologica indipendentemente dalle nostre presunte libere scelte.

4. La ragione, il linguaggio, il pensiero logico i concetti non sono affatto dirimenti. Anzi: appare sempre più chiaro, nell’ottica dell’intelligenza artificiale, che a) le macchine possono facilmente diventare più intelligenti di noi (non solo più efficienti) e b) si è ormai prodotta una netta divaricazione tra intelligenza e coscienza, ma mentre sappiamo bene cosa sia la prima ci sfugge il significato della seconda.

5. La società crea, forgia, inventa gli individui – e non viceversa. I miti della società liberale fanno credere agli individui di essere davvero tali e di essere liberi. Ciò vale a maggior ragione per la struttura economica e per il denaro: si è liberi di consumare solo ciò che i produttori hanno già deciso che dev’essere desiderato e consumato. Non c’è macchina più illiberale del sistema liberale della produzione, dell’astrazione del denaro e dell’iperconsumo. Megamacchina è un nome più che appropriato.

6. La tecnoscienza creerà, forgerà, inventerà sempre di più gli individui, sottraendoli al capriccio naturale. I miti della scienza (il superamento di ogni ostacolo o limite, il progresso illimitato, la perenne trasformazione di sé e del mondo) faranno credere agli individui di essere liberi da ogni predeterminazione proprio mentre vengono inchiodati ad una nuova forma di necessità post-naturale (paradossalmente di stampo naturalistico). Saremo costretti ad essere liberi, ovvero a diventare macchine efficienti  governate da un apparato di macchine superintelligenti.

***

Ed è qui che emerge in tutta la sua chiarezza il paradosso della libertà: ciò  che più spinge verso la liberazione da ogni condizionamento naturale – la coscienza, la conoscenza, la scienza, i vari saperi (tendenti ormai a confluire nell’apparato tecnoscientifico globale) – fa riprecipitare il soggetto cosciente in una nuova forma di sovradeterminazione. Interpretare se stessi come macchine richiede preventivamente un surplus di coscienza, la creazione preliminare di una sfera metafisica pressoché illimitata.
Se io mi concepisco come macchina, entro in una dimensione paradossale: sono libero di essere una macchina, cioè sono libero di negare la mia stessa libertà. D’altro canto, potrei anche essere una macchina che immagina di essere libera, che crede di esserlo, ma che, per quanto si agiti e si dibatta, dipende perennemente dal meccanismo di cui è il prodotto.
Ad ogni modo, la sensazione che tutti gli irretimenti biosociali (i 6 punti di cui sopra) ci assorbano integralmente è molto forte. Pressioni e condizionamenti sono la dimensione bio-onto-sociale nella quale ci troviamo a vivere e si infiltrano in ogni più remoto interstizio della nostra psiche, oltre a plasmare il corpo. Platone, da ingegnere sociale qual era, immaginò la sua Repubblica come una vera e propria tessitura sociale, nella quale non erano previsti fili liberi e pencolanti al di fuori dell’intreccio psicosociale.
Basti pensare agli slogan “sii te stesso” (antico retaggio socratico, peraltro), “sii libero”, o alle espressioni così tipiche della società della prestazione (o, come sottolineato da Han, dell’autoprestazione): desidera, scegli, decidi, segui i tuoi desideri, ascolta il tuo cuore o ciò che senti, realizzati, ecc. – ciò che sembra una parata impressionante di pressioni (oppressioni), più che la creazione di reali spazi di autodeterminazione. Emerge qui un altro paradosso della libertà: l’unica vera condizione affinché si realizzi sarebbe uno spazio vuoto e indeterminato – ma che ne sarebbe, se così fosse, delle traiettorie dell’io? Non rimarrebbe forse paralizzato da questa assurda ed insensata gesticolazione nel vuoto?
Ed eccola qui, un’altra questione che si annoda alle precedenti: si tende a dire (a far credere, ad instillare metodicamente) che siamo noi a dare il senso alle cose, innanzitutto a noi stessi. Di fronte alla caduta libera di religioni, ideologie, dèi e valori forti – rimane solo questa religione dell’io che dà senso a quel che fa. Anche questo è frutto delle pressioni psicosociali di cui sopra. Ma se fosse libero di istituire un nuovo senso alle cose, quello stesso io dovrebbe innanzitutto mettere in discussione il sistema che lo produce – e che lo induce a desiderare (per lo più merci). E la mercificazione del mondo (insieme alla sua desacralizzazione e integrale tecnicizzazione) è la forma più potente di pressione: il mondo mi appare sempre più disponibile, mentre è il mondo a disporre sempre più di me (del me stesso ridotto a dati, per lo più: quanto di più meccanico vi sia).
Ma, di nuovo, se gli togliessimo tutti questi contenuti disponibili (questi dati sensibili), che ne sarebbe dell’io e della sua sedicente libertà?

Chiudo con un punto (il numero 7) che potrebbe mettere sotto una luce diversa i 6 elencati sopra:

7. Fino a prova contraria (che però non può costitutivamente esserci) tutto ciò che è stato finora detto e argomentato è comunque una produzione del soggetto – ovvero di quell’istanza (essenzialmente sociale) che si crede sia tanto libera che necessitata, cosciente e meccanica, insieme mente e corpo, fisica e metafisica, sia oppressa che cosciente della sua oppressione, e così via. Le pareti del soggetto sono comunque costitutive di ogni teoria, senso ed interpretazione.

Schopenhauer avrebbe replicato – così come ha scritto nel Mondo, parte II – che noi non siamo teste d’angelo alate, che siamo in primo luogo corpi, e che il corpo è l’istanza determinante.
Pur tuttavia siamo sempre noi a dire “corpo” e a crederci altro dal corpo. Questa dissociazione così tipicamente umana – per quanto immaginaria e causa di tutti i nostri beni e mali, fonte di ogni parola che è stata pronunciata, concetto pensato, riga scritta – è alle radici della nostra umanità, ne costituisce un fondamento ineludibile. Questa dissociazione o lacerazione (e che è ciò che può essere anche chiamata col nome di coscienza o di libertà) è la ferita ontologica originaria che non può essere ricucita. Ed è anche la possibilità di ridiventare le macchine che forse siamo sempre stati. Organismi meccanici, finiti e precari in natura, che sognano di diventare macchine perfette ed immortali.
La libertà è la sua stessa incapacità di definirsi e di raggrumarsi in qualcosa.
Ciò che ci fa oscillare nella credenza che la riguarda.
Oscillazione che non sappiamo se sia a sua volta libera o no.
Ecco: la libertà è questo senso di vertigine.
I neuroscienziati sono convinti di averla catturata e fissata in un preciso flusso chimico e sinaptico, e irridono sempre più apertamente chi parla di “coscienza”. Il loro progetto è chiaramente neuroriduzionista e meccanicistico.
Nel loro arco i filosofi, gli antagonisti catastrofisti (e gli ultimi spiritualisti) hanno poche frecce, per lo più spuntate. L’intelligenza e l’onnipotenza tecnica hanno molto più fascino della voce interiore della coscienza (antipatica come il grillo parlante di Pinocchio).
Forse siamo destinati a diventare obsoleti ed antiquati, come preannunciato da Günter Anders.

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

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