Polvere di stelle

(la traccia del mio intervento introduttivo ad una conferenza di astrofisica sull’Universo in espansione, ultimo di un ciclo di 3 incontri sulle visioni dell’universo nella storia umana)

Avevamo visto come già nella visione di Dante (tolemaica e geocentrica) l’uomo non fosse in realtà al centro, quanto piuttosto in fondo all’universo, nella zona più bassa e più infima. Egli è però chiamato ad innalzarsi ai cieli della divinità, all’empireo – tramite la fede e la ragione.
In epoca moderna il cosmo aristotelico-tolemaico si frantuma per allargarsi all’infinito: Giordano Bruno annuncia gli infiniti mondi nei quali noi siamo sperduti e nei quali non può esserci alcun centro (altrimenti che infinito sarebbe?).
L’infinito, però, deraglia nella visione kantiana: la mente umana si aggroviglia nelle sue contraddizioni (le cosiddette antinomie), per fermarsi ad una sola apparente (soggettiva) certezza: spazio e tempo (lo spazio e il tempo della scienza newtoniana e della geometria euclidea) sono le condizioni imprescindibili della nostra conoscenza della natura. Ogni cosa si muove all’interno di un tempo uniforme che scorre e di uno spazio fisso che ci contiene.
La scienza contemporanea, con la teoria della relatività di Einstein e la teoria del big-bang (fino ad arrivare al principio di indeterminazione di Heisenberg) mette in discussione l’assolutezza di quelle categorie: lo spaziotempo, in realtà, non è una condizione data una volta per tutte, assoluta, ma è piuttosto una dimensione contingente e variabile, generata da un principio cosmologico che non ha nulla di divino. Dunque noi non riusciamo a concepire quel che al di fuori di questo universo siano lo spazio e il tempo: anzi, essi prima dell’origine di questo universo (l’unico che noi conosciamo) non avrebbero alcun senso.
Tutto questo fa venire le vertigini.

Freud ritiene a ragione che la scienza moderna è un susseguirsi di mortificazioni per gli umani: da Copernico in poi, passando per Darwin ed arrivando alla relatività di Einstein, la specie umana viene sempre più rimossa dal centro della natura, per confondersi con le altre specie e forme di vita: noi non siamo poi così importanti, avremmo potuto non esserci, e addirittura l’universo – il sistema che ci ha generato – avrebbe potuto non esistere. Il divenire, la storicità, la contingenza e il caso entrano prepotentemente in scena, minando l’ordine cosmologico antico e medievale.
Si va cioè profilando un’immagine del mondo che non ci contempla affatto in maniera necessaria: noi siamo inessenziali e transeunti, proprio perché lo sono la vita e l’universo stesso. Cresce la sensazione che non ci sia alcun ordine o disegno, che siamo qui per caso e che, altrettanto per caso, da qui ce ne andremo.
Questo profondo turbamento (un senso crescente di marginalità) non sembra però avere per nulla mortificato l’intraprendenza umana, anzi: più la scienza ha assestato colpi all’antropocentrismo, più gli umani hanno reagito mettendosi ancor più al centro della natura, tentando di possederla, controllarla, gestirla  – proprio sulla base delle conoscenze scientifiche – per i propri scopi di potenza (e qui è determinante la ricaduta tecnica del sapere scientifico).
Chissà, magari è una sorta di compensazione psichica per quella serie di mortificazioni…
Esemplifico questo atteggiamento ambivalente – di umiliazione e di autoesaltazione – con un filosofo, un poeta e uno storico, che hanno scritto pagine interessanti in proposito, sottolinenando l’aspetto nobile della conoscenza, ben più del suo lato oscuro.

Pascal osservava in uno dei suoi celebri Pensieri:
«L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo; ma quand’anche l’universo intero lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che l’uccide, perché egli sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui; l’universo invece non ne sa nulla».
E in un altro passo: «Non devo chiedere la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero. Non otterrei nulla di più col possesso delle terre; mediante lo spazio, l’universo mi circonda e mi inghiottisce come un punto; mediante il pensiero, io lo comprendo».
Credo che tali parole non abbiano bisogno di alcun commento.

Leopardi scrisse a 15 anni un trattato di storia dell’astronomia. Nella sua poesia c’è l’eco di questo interesse scientifico per quella che considerava “la più sublime, la più nobile tra le scienze”. Egli mostra nei suoi versi, a più riprese, questa sensazione di smarrimento di fronte all’immensità dei cieli e all’infinito (la sua poesia forse più celebre, non a caso).
Ma è nel Canto notturno del pastore errante dell’Asia che il sentimento di piccolezza dell’uomo di fronte alll’immensità del cosmo si manifesta con immagini nitidissime:

E quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?

Nella Ginestra appare tutta la sproporzione tra l’uomo, il globo terrestre, la via Lattea e le nebulose osservate dall’astronomo William Herschel, sproporzione scientifica tradotta in linguaggio poetico: “remoti nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia” – noi siamo nulla, e nulla sa di noi l’universo, ma altrettanto succede in qualunque altro punto dell’universo.
Ora, questo smarrimento, spaesamento e straniamento (insieme al tedio, all’affanno, al fastidio che sempre lo insidia), potrebbe atterrire e annichilire l’animo umano, invece Leopardi, come già Pascal, ce ne mostra l’aspetto nobile e magnificente: «immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».

Infine lo storico Aldo Schiavone, all’inizio del suo saggio Storia e destino riflette proprio sulla stupefacente esperienza di essere “spettatori dell’inizio”: guardare le riproduzioni, le mappe dell’universo appena nato (alla tenera età di 380mila anni) è un’esperienza da brividi. La recente scoperta della “radiazione cosmica di fondo” ci mette di fronte all’arché (quel che i filosofi greci avevano cercato e teorizzato per secoli), anche se è un arché relativo a questo cosmo e a questo universo:
«Da una parte, la drastica limitazione delle nostre vite e dei nostri sensi; dall’altra, l’immensità assoluta dell’evento che pure siamo riusciti materialmente a far entrare nei nostri occhi, a portare nel raggio delle nostre percezioni. Chiusi in una disperante finitezza, siamo stati tuttavia in grado di guardare fin dove si è aperto l’abisso dello spazio e del tempo».
E dunque, la scienza che ci aveva mortificato, minimizzato, marginalizzato, polverizzato, ora ci rimette al centro, o, per lo meno, pur dai margini del cosmo, ci consente di contemplare il suo inizio e di approssimarci all’assoluto. Ovunque guardiamo, stiamo guardando la nostra origine – la stoffa stellare da cui siamo stati tagliati!

Tale esperienza ambivalente ci è ormai connaturata, e alligna nel modo di relazionarsi alla natura (e al cielo stellato) fin da bambini: ne è testimonianza l’affermazione di Ahmad (che ha 10 anni) circa il senso della nostra esistenza [ne ho parlato nel precedente post]: noi siamo qui per conoscere l’universo (che rimarrebbe muto senza la nostra voce); ma, ancora di più, senza di noi ci sarebbe un incredibile spreco di bellezza.
L’antropocentrismo è insieme una malattia e uno sguardo colmo di meraviglia – il medesimo sguardo che può distruggere o preservare, annichilire o custodire la bellezza.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

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