Cominciamo dalle parole di Aristotele (che in verità non è il primo filosofo ad avvicinare la meraviglia alla filosofia, già lo aveva fatto Platone nel Teeteto : “Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo”).
All’inizio della Metafisica, dopo aver ricordato (nelle prime righe) che tutti gli uomini sono per natura portati alla conoscenza, e che anzi essi amano conoscere, a partire dall’esperienza estetica, sensibile – Aristotele riprende l’espressione platonica e afferma che “gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare”.
Il termine thauma (verbo: thaumazo) si riferisce sia all’oggetto meraviglioso – il portento, il prodigio, il miracolo, anche in senso mostruoso – sia al sentimento che si prova di fronte a quell’oggetto: la meraviglia, l’ammirazione, lo stupore, la sorpresa.
Aristotele lega qui la meraviglia tanto all’incertezza, quanto all’ignoranza (il non sapere ancora) sia anche al mito (che è fatto di cose meravigliose); ma se il thauma è la levatrice della filosofia, vi è anche un altro elemento che qui viene ricordato, altrettanto fondamentale: l’autonomia della conoscenza filosofica, il suo essersi liberata dall’utilità e dal bisogno. Il sapere filosofico (l’episteme, la scienza) è libero così come libero è l’uomo che vive per sé e non per un altro.
Mi pare così di poter avvicinare la meraviglia (in senso sorgivo: uno stupore che però non deve paralizzare, ma spingere alla ricerca) alla contemplazione: il termine greco per contemplazione è theorìa, e non può sfuggire l’assonanza proprio con thauma: la radice the è conoscenza volontaria, e si ritrova in tutte le parole che hanno a che fare con lo spettacolo/contemplazione: theatron, theorema, theoria…
Anche se Berti, ad esempio, ci mette in guardia dal soffermarci troppo sul significato “ammirativo-contemplativo” (quello del latino miror, ammirare, guardare con ammirazione, oltre che stupirsi), invitandoci a dare maggior peso all’aspetto teoretico della meraviglia: ma, appunto, per Aristotele conoscere è, insieme, meravigliarsi, teorizzare e contemplare.
Il meravigliarsi è così qualcosa di interno, interiore: non è la contemplazione o l’ammirazione estetica (il sublime, il bello), ciò che accade essenzialmente fuori di noi, e non è nemmeno la conoscenza di tipo pratico, finalizzato (conoscenza dei fenomeni per modificarne il corso a nostro vantaggio): la meraviglia è la fonte – la premessa – del sapere puro, del desiderio e del piacere di conoscere in quanto tale. La meraviglia è l’atto primo della conoscenza filosofica – che ha a che fare anche con lo straniarsi e l’immergersi in sé.
Ci sono altri aspetti che vorrei far emergere, che vanno anche al di là dei limiti posti da Aristotele: la meraviglia ha a che fare con l’ignoto, con l’avventurarsi in un territorio inesplorato, incerto, radicalmente contingente, di cui non sappiamo ancora definire la mappa – la meraviglia è anche legata all’inizio, alla nascita, all’origine.
Basti pensare all’origine di un amore (e del resto filo-sofia non è forse un atto d’amore nei confronti della sapienza, oggetto del desiderio di chi si mette a cercare?): non sono meravigliosi proprio l’incertezza, l’ignoto, il non sapere quel che accadrà?
La domanda che possiamo ora farci è se la meraviglia sia solo preliminare (lo “spunto”, l’innesco) al processo conoscitivo oppure accompagnarlo: sembra che per Aristotele sia solo il primo passo, dopo di che è la ragione, il logos, il theorein ad occupare la scena.
Egli dice infatti che è indispensabile sollevarsi ad un punto di vista opposto a quello iniziale della meraviglia; e qui sono tre gli esempi che ci vengono fatti: le marionette, i solstizi, l’incommensurabilità della diagonale. Osservare questi fenomeni senza conoscerne la causa ci stupisce, ma quando ci si eleva al nuovo punto di vista ciò che sembrava un prodigio non lo è più, e la meraviglia iniziale si è dissolta: il punto di vista finale è il migliore e da lì si notano le cose sotto un’ottica rovesciata, da lì ci si meraviglierebbe del contrario (cioè se diagonale e lato del quadrato fossero commensurabili, questo sì che sarebbe strano e prodigioso).
D’altra parte sono convinto che la meraviglia – o un certo altro tipo di meraviglia – possa (o debba) accompagnare l’intero procedimento conoscitivo: quando uno scienziato teorizza, attraverso procedimenti matematici, può ben stupirsi della perfezione di quei calcoli, di quei rapporti che va via via scoprendo nella sua ricerca: anche nel momento in cui giungerà al termine dell’indagine e chiuderà il cerchio della teoria, non potrà sottrarsi ad un sentimento di meraviglia. A quel punto non sarà più una meraviglia dovuta alla mancanza ma alla pienezza, sarà una meraviglia contemplativa. L’esempio che mi viene in mente è quello della conclusione della Origine delle specie di Darwin:
«Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha continuato a ruotare secondo l’immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi».
Non ci si meraviglia più per l’ignoto che ci fa mettere in marcia, ma per le leggi che reggono quell’ignoto, le cause che all’inizio erano nascoste dalla prossimità (ciò che Aristotele definisce “a portata di mano”), e da cui ci si deve muovere/sollevare: il punto di vista finale è senz’altro contemplativo, proprio perché ci siamo portati nella posizione opposta – ma si tratta anche in quel caso di meraviglia, una meraviglia consapevole. A tal proposito, è interessante osservare come proprio il diverso atteggiamento nei confronti delle cose che sono “a portata di mano” ci consente di iniziare a conoscere: solo se ciò che è solito diviene insolito siamo portati a cercare causa ed origine di quella sua stranezza – come sostiene Rafael Ferber, “ciò di cui il filosofo si meraviglia non è lo straordinario, bensì l’abituale”.
Enrico Berti, nel suo saggio In principio era la meraviglia, fa derivare da quel sentimento una serie di domande che i greci si sono posti (e che continuano a porre a noi, aprendo vasti campi di indagine filosofica). Alcune di queste vie le abbiamo già percorse anche qui, nel nostro gruppo, e abbiamo provato a dare delle risposte: penso all’origine, alla religione, all’antropologia (che cos’è l’uomo?), al linguaggio, alle passioni, alla felicità, alla morte…
Ma c’è un punto su cui vorrei soffermarmi, prima di scegliere una di queste vie e di percorrerne qualche passo. Berti ci raccomanda di intendere il significato profondo del valore della conoscenza e della ricerca per i greci: non si tratta, cioè, di domande o di ricerche fini a se stesse. Certo, occorre domandare, ricercare, indagare, mettersi in marcia, ma le domande esigono una risposta, e le ricerche un punto d’arrivo.
Noi oggi abbiamo una visione meno propensa a racchiudere il problema della verità (soprattutto delle verità ultime, relative al significato del mondo o della vita) nei termini della filosofia greca, siamo piuttosto aperturisti e inconcludenti. Trovo però che l’atteggiamento corretto possa essere quello di riportarci alla meraviglia originaria: il fatto che abbia concluso una ricerca e risposto a una domanda non comporta l’esaurimento dello stupore, anzi! sembra esserci in tal senso un territorio inesauribile.
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Ma veniamo alla via, delle 8 che ci propone Berti, che ho scelto per un breve approfondimento: la poesia. L’ho scelta proprio per la sua straordinaria vicinanza ai due termini di cui oggi abbiamo parlato: poesia è parente di meraviglia come di conoscenza.
Il rapporto con la meraviglia è abbastanza intuitivo, (ed è ciò che preoccupa Platone, che vuole cacciare i poeti dalla città, perché agitano troppo le emozioni dei suoi cittadini, in particolare la pietà e il timore, oltre che allontanarli dalla verità delle idee); quel che magari ci sfugge è il valore conoscitivo della poesia (o, viceversa, il valore poetico delle teorie): è Aristotele – di nuovo – a suggerircelo. E lo fa nella Poetica, dove avvicina la poesia alla filosofia.
In questo celebre testo incompiuto, il cuore dell’analisi poetica riguarda la tragedia, e ciò che suscita nello spettatore (che vede rappresentata la sua stessa natura), ovvero la catarsi. Ma catarsi – purificazione, liberazione dalle passioni – non è da intendersi in senso morale o fisico, ma in senso strettamente teoretico.
Scrive Aristotele: «È chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza e necessità. Lo storico e il poeta si distinguono in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari».
Allora la catarsi – l’identificazione e il coinvolgimento dello spettatore con i fatti universali che avvengono sulla scena – permette di passare da una visione dolorosa, che coinvolge e suscita passioni tristi (anche la pietà per Aristotele è negativa, non solo il timore), ad una contemplazione distaccata (theorein) e, quindi, a una forma superiore di conoscenza.
Ciò che preoccupava Platone, viene qui totalmente rovesciato: esattamente come per la meraviglia contemplativa, ci poniamo qui in una posizione opposta, superiore, che ci permette di comprendere le cause profonde e universali di ciò che accade alla natura umana, elevandoci alla contemplazione della sua grandezza ed, insieme, fragilità. Una consapevolezza che non può che renderci migliori. Le passioni tristi vengono “scaricate” grazie al piacere generato dalla mimesis, che però non ha una valenza solo estetica, ma soprattutto teoretica, conoscitiva tra le più alte: la conoscenza di me stesso. Soffrendo conosco me stesso, ma qui ho il vantaggio di farlo tramite la distanza della rappresentazione – la messa in scena – della sofferenza.
Anche in questa conoscenza di sé la meraviglia ha un ruolo fondamentale: meravigliarmi di quel che accade in me, ricercarne le cause, guardare da lontano – da una lontananza meravigliata – quel che sono, quel che tutti gli umani sono.