Premessa: non ho ancora letto nessuna recensione, nessun articolo o post, nessun commento – tranne qualche lamentela social, le solite (abbastanza inutili) sull’effetto-saturazione, che non fanno altro che moltiplicare quell’effetto.
Però ho visto il film due volte, la prima in modo immediato, facendomene soprattutto attraversare ed impressionare, la seconda con un occhio laterale, un po’ più riflessivo e attento.
Dunque, partiamo da un’ovvietà: Joker non è un saggio di antropologia filosofica o di psicologia o di sociologia – Joker è un film, e la prima valutazione non può che essere di tipo estetico.
Non so se si tratti di un “capolavoro” (etichetta inutile, anche perché i capolavori, di qualunque genere o tipologia artistica, richiedono processi lunghi di gestazione, metabolizzazione e sedimentazione nell’immaginario collettivo), però è senz’altro un ottimo film che si regge essenzialmente su due colonne: la prima, l’attore-protagonista, perennemente presente in scena, col suo corpo, il suo volto, la sua bocca, la sua maschera, che si contraggono, si contorcono, si deformano in un flusso continuo di esposizione fisico-emotiva; la seconda, una colonna sonora potentissima, che ricorda l’intensità di alcune scelte estetiche di Nolan.
I due pilastri del film, quello attoriale e quello sonoro, ci mostrano in estensione e in profondità il disagio di una mente – la sua lotta fallimentare per il riconoscimento – attraverso l’espressione corporea, massimamente della bocca e di quell’espressione ondeggiante e indefinita, nervosa fino al parossisimo, di un risopianto la cui smorfia e il cui suono si fanno sempre più insopportabili (per il soggetto come per lo spettatore).
Da questo punto di vista Phoenix raggiunge dei vertici interpretativi indiscutibili, rimuovendo del tutto l’atmosfera da super-eroe (o da anti-eroe) e facendo sì che il personaggio Joker si “limiti” ad essere la rappresentazione plastica del disagio radicale (il freudiano “disagio della civiltà”) nella società contemporanea, società dello spettacolo, dell’apparenza e del nulla: Joker diventa così semplicemente un uomo disconosciuto e stritolato da quello stesso schermo e palcoscenico e contenitore di plastica nel quale vorrebbe esistere e consistere.
Veniamo ora, brevemente, agli aspetti tematici (inevitabilmente filosofici, antropologici, esistenziali, psicologici, ecc.).
1. Lotta per il riconoscimento, dicevamo: la creatura misconosciuta alla sua stessa nascita, ingannata lungo tutto il corso della sua vita, senza padre né madre né comunità d’appartenenza, se non fittizi ed immaginari, precipita infine nell’ultimo gorgo della lotta per la vita e per la morte: uccidendo prima la pseudomadre, poi lo spettacolo (e il mito incarnato in De Niro) che non ne riconosce l’esistenza, uccide se stesso – oppure si dà, in extremis, la possibilità di fuoriuscire dal sistema-gabbia per un possibile riscatto?
2. Dell’indistinzione tragedia-commedia (con quell’indistinzione fisica della risata che si fa lamento e che torna risata e che si contorce in se stessa): la vita non è né tragica né comica, perché se così fosse avrebbe almeno dei contorni, dei tratti caratteristici, una delimitazione, una forma. Mentre la vita è piuttosto caos, indeterminatezza, assurdità: così Joker, “nato per portare gioia”, deve accettare (o subire) alla fine il destino dell’antieroe grottesco, anarchico, nichilista, che in ogni spiraglio o crepa che si apre nel muro della finzione vede irrompere l’assurdo – come può essere una pistola che cade nel bel mezzo di una sessione di clownterapia in un reparto pediatrico.
3. La rivolta. Joker non si riconosce nemmeno nella ribellione-jacquerie che ha involontariamente suscitato (una rivolta di maschere, peraltro): nessuno sbocco politico, nessuna progettualità, solo l’irruzione del caos, a smontare un mondo falso e ingiusto, per non ricostruirne nessun altro.
Ma fra gli Wayne e Joker (se tertium non datur) la scelta è inevitabile, e cade sul ribelle folle. Il quale tenta di fagocitare il suo futuro e inconsapevole antagonista, il bambino smarrito dietro le sbarre della lussuosa proprietà, provando a deformargli la bocca, assimilandola alla sua (una delle scene più belle del film): il vendicatore e giustizialista alato, nemesi di Joker, sarà invece la reazione del sistema ingiusto, che si inventerà un eroe per coprire la propria marcescenza. (Anche se tutto questo noi, a rigore, non lo sappiamo; si tratta in effetti di un’anticipazione indebita: Batman, e tutto il mondo dei super-eroi, rimangono radicalmente fuori scena).
4. La conclusione: qualcuno potrebbe anche pensare che tutto è avvenuto nella mente di Joker (la mente frugata dalle assistenti sociali – non a caso di colore, e del tutto impotenti), e che non ci si sia mai spostati da lì. Del resto, anche la sua breve storia d’amore è stata del tutto immaginaria. Ma la sua bocca sanguina (altra scena apicale, quando la piega della bocca viene rimodellata dal sangue), i suoi passi nel manicomio lasciano impronte di sangue, e il sapore del sangue versato non è poi stato così male: uccidere, dopo tutto, lo fa sentire vivo, ed è una forma di riconoscimento, anche se tardiva.
Il folle recluso alla fine si dissolve in una rocambolesca quanto inutile fuga: Joker simbolizza così la fuga da un ordine assurdo verso un disordine ed un caos che non potrà mai essere riordinato e riorganizzato. E del resto, tra la follia senza sbocco di Joker, e la follia distruttiva del capitale e dello star system, quale altra scelta ci è data?