Per gli uomini che son morti sono pronte cose che essi non sperano né immaginano.
Il frammento di Eraclito, da alcuni interpreti ritenuto oscuro, a me pare invece sia leggibile come una critica radicale al modo tradizionale di intendere la morte – soprattutto alla modalità mitico-religiosa, e non illuminata dal logos, l’unico piano che ci rende comprensibile (se non accettabile) la morte: gli uomini, allora, non potranno aspettarsi premi, castighi o vite immaginarie oltre la morte. Non c’è niente oltre la morte – c’è solo qualcosa oltre la vita, questa vita, non un’altra.
L’unica prospettiva possibile (prefigurabile ma non descrivibile con chiarezza) è quella della metamorfosi e della ricongiunzione con la physis, la natura. La soglia della morte porta dunque a una dissoluzione che, forse, allude ad una ricomposizione – ad un un vero e proprio mutare dialettico di forme: questo sembra il punto di vista di Eraclito, al di là dell’oscurità del suo dire.
Fatta questa premessa, il problema della morte – dell’angoscia che genera e della sua accettazione – è senz’altro uno dei temi-cardine della filosofia, fin dalle origini, in continuità, ma anche in difformità, con il discorso religioso: ovvero, se la religione (ma più in generale tutto l’apparato spirituale, mitico, culturale, rituale) appare come un grande dispositivo per gestire il fenomeno della morte, la filosofia lo fa attraverso l’unico strumento di cui dispone, ovvero il logos, la ragione.
Ma così, inevitabilmente, la morte diventa astratta, come se riguardasse un altro (o altro): la filosofia non può non trattare l’oggetto su cui riflette come qualcosa di estraneo, di lontano, ciò da cui prendere le distanze. Ecco perché, soprattutto su temi esistenziali come questo, essa ci lascia del tutto insoddisfatti.
Affronteremo il tema della morte da tre angolazioni diverse: il primo, appunto, con un taglio strettamente filosofico-concettuale, servendoci soprattutto di Spinoza; il secondo – che sarà anche il cuore del nostro discorso – utilizzando il progetto del Libro contro la morte di Elias Canetti, un vero e proprio corpo a corpo esistenziale con la morte; chiuderemo infine con un approccio più sociologico e legato alla contemporaneità, con il saggio La morte si fa social del tanatologo Davide Sisto.
1.
Già Epicuro, nella sua Lettera a Meneceo, aveva tentato di “farmacologizzare” la paura della morte, e più in generale le paure degli umani (degli dèi, dell’ignoto, ecc.), riducendone la portata, naturalizzandole o confinandole in territori marginali – rimuovendo così la morte dal centro della scena: morte che, a rigore, non esiste, o comunque non può essere sperimentata. Essa è infatti come il sole, che non può essere percepito – Le soleil ni la mort se peuvent regarder fixement, come scriverà La Rochefoucauld. Noi siamo vivi, dunque la morte non è presente – noi saremo morti, dunque non avremo più coscienza di nulla, tantomeno della morte: una concezione puramente sensibile non può che tagliar fuori la morte dal nostro orizzonte, come fenomeno non percepibile (io sono vivo, la morte non c’è / io sono morto, non sono in grado di percepirla – ed anzi, a rigore l’espressione “io sono morto” è un ossimoro, è un’impossibilità). È solo l’angoscia che essa genera ad esistere, ed Epicuro, con la sua teoria minimalista dei desideri e dei bisogni, pensa di poterci guarire da questa angoscia.
Ma è Spinoza ad essere ancor più radicale: “L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte: e la sua saggezza è una meditazione della vita, non della morte” – così scrive nella quarta parte dell’Etica, verso il termine della sua analisi delle passioni, comprese le cosiddette passioni tristi che, se non possono essere eliminate possono senz’altro essere gestite, soprattutto trasformate da passive in attive – ciò che apparirà chiaro nell’ultima parte dell’Etica: “Un affetto, che è una passione, cessa di essere passione non appena ce ne formiamo un’idea chiara e distinta”. La conoscenza di sé – “per quanto è possibile” – ci aiuta a non essere dominati dalle passioni, e ad averle piuttosto in nostro potere. Il capolavoro logico di Spinoza sta nel trasformare addirittura la tristezza in un sentimento di cui rallegrarsi: in quanto noi comprendiamo le cause della tristezza (la sua necessità naturale) ne vinciamo gli effetti perversi, e finiamo per considerarla qualcosa di lieto.
Qui Spinoza si riferisce al rapporto che la nostra mente (e le nostre affezioni) hanno con Dio: più noi siamo in grado di vedere il nostro lato eterno (radicalmente diverso dall’immortalità), più noi prosciughiamo l’angoscia per la nostra mortalità – ma si tratta di un’operazione soprattutto conoscitiva, e di un livello di conoscenza altamente intuitivo (più che razionale ed argomentativo), una forma di amore intellettuale, che ci dà la capacità di accedere dall’interno al Dio-sostanza-mondo.
Più noi conosciamo, più la mente si libera degli affetti negativi e tanto meno avremo timore della morte. Qui Spinoza identifica l’azione della mente (un agire che volge il patire in conoscenza di sé) con un processo di approssimazione a Dio (ovvero alla totalità) e alla perfezione: solo così il saggio può raggiungere la beatitudine e la serenità dell’animo.
2.
Spinoza non sembra però darci la benché minima consolazione: Elias Canetti, ad esempio, ne sarebbe del tutto insoddisfatto – e di fatti non ha quasi mai parole indulgenti nei confronti dei filosofi, che per lo più detesta. Ma altro la filosofia non può fare: la filosofia argomenta, dice, prova a penetrare l’ignoto, a fare chiarezza, non è suo compito consolare (quello è semmai compito della religione).
Canetti scrive durante tutta la sua vita una serie di aforismi (la sua scrittura tipica, peraltro), di brevi frasi, di riflessioni sparse sulla morte – col progetto, mai realizzato, di pubblicare un Libro contro la morte (un libro che ora esiste, pubblicato postumo, tradotto in Italia da Adelphi).
Si tratta di una scrittura tagliente, spesso irata, talvolta paradossale, grottesca, ispirata, tutta volta a distruggere il “mito della morte” che ha intossicato la mentalità umana. Canetti, diversamente da Spinoza, pensa però che questa tossicità vada espulsa evocando e meditando di continuo la morte – addirittura sfidandola! Potremmo dire che Il libro contro la morte è il suo corpo a corpo con la morte durante un’intera vita.
L’apertura è fulminante – esattamente come lo era stato l’incipit di Massa e potere: Tutto comincia con la conta dei morti. Contare i morti è una delle pratiche più terrificanti e ricorrenti nella vita e nella storia umane: dalle guerre ai disastri, dalle malattie alle morti sul lavoro… tanto più nelle società di massa. Qui Canetti pone subito una questione che attraverserà tutta la sua riflessione: la morte non è astratta, la morte non è la morte in generale o la morte di un numero x, la morte è la mia morte, ma, soprattutto, la morte di ciascuno. Ogni essere vivente, ogni umano, ogni animale rientra in questo aberrante conteggio – e dunque, da questo punto di vista, non può essere contato: un morto e un altro morto non sono due morti.
Individuiamo qui uno dei punti fermi di tutta l’antropologia canettiana: ogni singolo vale di per sé, ogni vita individuale è sacra – dunque mai la morte può essere astratta. Potremmo partire proprio da qui, dall’idea che Canetti ha della vita del singolo, del senso del suo essere comparso sulla terra, concezione che è ben espressa in quello che può essere considerato un vero e proprio manifesto filosofico-antropologico:
«Vivere almeno quanto basta per conoscere tutti i costumi e le vicende degli uomini; recuperare tutta la vita trascorsa, perché quella ulteriore è vietata; raccogliere se stessi prima di dissolversi; meritare la propria nascita; riflettere sui sacrifici che ogni respiro costa agli altri; non glorificare il dolore, sebbene si viva di esso; tenere per sé soltanto ciò che non si può trasmettere, finché non sia maturo per gli altri e non si trasmetta da sé; odiare la morte di chiunque come la propria, far pace una buona volta con tutto, mai con la morte». [Il libro contro la morte, p. 30]
Ma vediamo alcuni temi che ricorrono negli appunti, lungo oltre mezzo secolo, dal 1942 al 1994:
-gli animali: ciascuno di noi è un nazista nei loro riguardi. Canetti ritiene orribile che ci si debba nutrire di altri viventi, la lotta contro la morte è anche la lotta contro l’eterotrofia (l’uomo che non mangia è il più alto esperimento morale pensabile!): è orribile il gesto stesso di afferrare ed incorporare qualcuno, persino del portare alla bocca. L’espressione mors tua vita mea non può non fare orrore – così come “morire al momento giusto”. Egli scardina tutti i luoghi comuni, li destruttura, mostrandone l’assurdità dietro l’apparente necessità.
-connesso a questo c’è tutto il discorso sul potere – il potere mortifero che innerva la storia umana, e che fa del potente colui che è seduto su una montagna di cadaveri: il sopravvissuto, l’uomo che si circonda di gente destinata a morire prima di lui, ad immolarsi per lui;
-inevitabile riferirsi al suo antimilitarismo: i quaderni si aprono nel 1942, in piena guerra mondiale, e si chiudono con le guerre degli anni ‘90 (Irak, Balcani): che gli uomini non solo accettino, ma si procurino a vicenda la morte è qualcosa di intollerabile agli occhi di Canetti;
-vi è poi, fortissimo, il tema del sopravvivere, della memoria e del rapporto con i morti – noi siamo fatti di tutti questi morti, la nostra patria non è la terra dei nati, ma la terra dei morti (p.172)
-nel 1972 c’è però un evento che sembra scombinare i giochi, qualcosa di ignoto che sopraggiunge: è la nascita della figlia Johanna (Canetti è quasi settantenne). La possibilità di generare tiene occupati gli uomini, li seduce al punto da non potersi più ribellare alla morte: anche Canetti sembra essere travolto dall’esperienza del “fiorire di una nuova vita accanto alla propria che appassisce” (168).
Il problema di tutto lo scritto è l’apparente inutilità: ribellarsi alla morte appare una lotta destinata allo scacco e alla sconfitta, soprattutto se si pensa all’avvicendarsi degli anni e all’avvicinarsi progressivo dell’ultimo, quel fatidico 1994 che noi conosciamo a posteriori mentre leggiamo quel che Canetti va scrivendo negli anni precedenti, e che non può non causare una crescente angoscia (o anche una reazione opposta: ma chi scrive dove vuole andare a parare?).
Poco importa, poiché Canetti ha messo in atto la sua strategia di vittoria (per quanto parziale) sulla morte, ovvero la scrittura. È solo la scrittura (come la conoscenza in Spinoza) a renderci eterni, per quanto ci sia possibile esserlo. A tal proposito sembra quasi che Canetti auspichi una sorta di biografizzazione di tutte le vite – a partire da quello struggente auspicio di raccolta delle parole poetiche dei morenti… Ma ecco alcuni frammenti significativi in proposito:
La mano che traccia un’unica lettera dell’alfabeto è più grande della mano che uccide (110)
Scrivi finché qualcosa non sarà cavato dalle imponenti montagne della tua vita (112)
La mia macchina più sicura [al cui interno saremmo protetti da qualsiasi pericolo] sono le mie matite (123)
Io non esisto più, io sono mille matite (130)
Che cosa ne sarà di tutto quanto tu hai accumulato e che è dentro di te… la sproporzione di questo accumulo, e tutto per niente? (195)
Al momento di morire starà scrivendo… giusto tra una frase e l’altra (266)
Le ultime parole dei moribondi sono da considerarsi tutte poesie postume (274)
Se non scrivo mi dissolvo (330)
[Oggi si parla molto di queste forme di narrazione e scrittura di sé: dalla memoria di Ferraris all’autobiografia di Duccio Demetrio alla filosofia-biografia come stile di vita di Romano Madera]
3.
L’ultimo aspetto che vorrei trattare riguarda la trasformazione della percezione della morte con l’avvento dell’epoca digitale e dei social – un’epoca quantomai spettrale.
Il saggio di Davide Sisto La morte si fa social offre molti spunti interessanti in proposito:
-occorre prima di tutto partire dalla rimozione della morte nella società contemporanea. Con l’avvento della società industriale, della medicalizzazione di massa, dell’ospedalizzazione, anche la morte si è “meccanizzata”: il volto dei morenti ci è sottratto dalla vista, della morte è meglio non parlare, il linguaggio stesso edulcora o anestetizza tutte le espressioni che si riferiscono alla morte (scomparire, andarsene, venire a mancare, ecc.);
-Facebook e i social network (più in generale la società digitale) stanno ulteriormente modificando la nostra esperienza e percezione della morte: così come si modificano e riplasmano le identità, le vite di ciascuno, anche la morte cambia. Assistiamo così a nuove espressioni sociali di memorie digitali, di condivisione del lutto, compresa una problematica esposizione pubblica di sé e del dolore (fino agli eccessi della pornografia emotiva), per non parlare del nuovo mito-frontiera dell’immortalità digitale o del transumanesimo. Del resto non è più possibile separare le nostre vite on-line da quelle off-line: siamo ormai una mescolanza ibrida di questi due mondi, sia in vita che in morte. Facebook, tra l’altro, è già oggi il più grande cimitero vivente;
-in tutto questo Sisto non vede fenomeni da esaltare o da condannare a priori, quanto piuttosto l’occasione preziosa – al di là della morbosità e dei pericoli di saturazione o di spettacolarizzazione – di un ritorno della morte al centro della riflessione pubblica. Non solo, una risocializzazione non alienata può perfino comportare nuove pratiche di condivisione del lutto e la crescita individuale e collettiva di forme di riflessione e di coscienza circa la fragilità dell’esistenza.
L’ha ripubblicato su La solitudine del Prof.
È molto interessante notare come una cosa che c’è sempre stata e ci sarà sempre (la morte), sia stata percepita e trattata non sempre nello stesso modo.
Ma, ragionando, non sarebbe conveniente ascoltare Epicuro?
Non é inutile sprecare il poco tempo che abbiamo pensando alla nostra fine?
Non dovremmo, invece, goderci il viaggio?
Perchè é questa l’opportunitá che c’é stata offerta venendo al mondo: un bel viaggio! E tutti i viaggi, prima o poi, devono terminare ma non per questo ci rammarichiamo a tal punto da evitare di farli. Anzi, cerchiamo di divertirci nel tempo che abbiamo a disposizione.
Dovremmo preoccuparci di trovare noi stessi, il nostro ‘io’, il nostro essere; dovremmo pensare alla nostra esistenza e viverla al meglio.
Ma qual’é il meglio?
Beh, nel contesto in cui mi trovo sembra essere la ricerca di una eterna -o almeno duratura- giovinezza, bellezza, ricorrendo anche a ‘ritocchi’ chirurgici per emulare gli standard esibiti su riviste, tv, social etc.
Io credo ci sia qualcosa di piú accattivante, entusiasmante, interessante: scoprirsi a riflettere.
É difficile farlo perché ci sembra di non avere mai il tempo, ma si può iniziare concedendosi pochi minuti al giorno e poi trovare la dose desiderata.
Come si fa a dire che in questo non ci sia consolazione?
É chiaro che per vederla serve un brusco cambio di prospettiva, un’altra angolazione.