Ho imparato molte cose dalla mostra dedicata a Giorgio De Chirico allestita al Palazzo Reale di Milano. Avevo una qualche vaga idea della pittura “metafisica”, ma non avevo ben inquadrato il rapporto di De Chirico con Nietzsche (al punto da autoritrarsi nella posa della celebre fotografia del filosofo tedesco), né conoscevo il rapporto strettissimo con la terra greca, che spiega meglio anche tutto il retroterra mitologico e il rapporto con la classicità dell’opera dechirichiana; mi sfuggivano certi simboli ricorrenti (la locomotiva, la torre, la ciminiera, la nave, le bandiere); sono rimasto meravigliato dalla serie dei cavalli e da quella dei bagnanti incastrati nell’acqua-parqué; ed ancora, nulla sapevo dell’autoironia del De Chirico che si dipinge nudo (anche se gli è stata imposta la copertura delle pudenda), in veste di torero o di cicisbeo barocco; ed infine, non sapevo nemmeno che Andy Warhol avesse ricavato l’idea della serialità proprio a partire dalle diverse copie delle Muse inquietanti.
Credo che oltre all’effetto-straniamento (che condivide con Magritte) De Chirico abbia ottenuto risultati notevolissimi lavorando sulla spazialità, a partire da quelle immense piazze spiazzanti, dalle ombre misteriose che le attraversano, e che la sua pittura altro non sia che una “messa in scena”, la riduzione – ed esibizione – del mondo (e della sua stranezza e/o assurdità) dentro a una stanza-scatola. Un mondo che si depotenzia e che depone persino la sua carica violenta – basti pensare a come De Chirico rappresenta i lottatori, gli eroi, i gladiatori, irridendoli e trasformando le loro corazze e la loro durezza in giocosità molliccia e friabile.
Infine: che cosa ci dicono le figure inquietanti e silenziose dei manichini, quei corpi svuotati, automatizzati, anonimi, alienati – non siamo forse anche noi, come gli oggetti, pezzi di “un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli”?
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