Il concetto di persona ci svela fin dall’etimologia il problema riguardante le teorie dell’individualità: persona è, letteralmente, maschera (dal greco prosopon mediato forse dall’etrusco phersu), termine teatrale che allude alla duplicità, se non addirittura alla doppiezza, o comunque alla stratificazione e molteplicità di quella parte di noi stessi che denominiamo “io”. Pare che il primo filosofo ad utilizzare “persona” sia stato lo stoico Panezio, nel II secolo a.C.: interessante notare come gli stoici concepissero il ruolo dell’individuo in termini di “parte” (moira) nel destino del mondo – un po’ come la maschera svolge un ruolo nella scena teatrale.
Già tutti questi termini – io, me stesso, individuo (non-diviso, equivalente latino del greco a-tomos), persona, cui possiamo aggiungere soggetto, anima, coscienza – non sono affatto sovrapponibili, ciascuno di essi allude a significati o sfumature diverse; in ogni caso, quando parliamo di noi stessi, la prima cosa che salta agli occhi è proprio questa molteplicità : io sono io, ho un’identità (il nome è già una definizione di singolarità), ma se vado poi a vedere che cosa c’è in questo contenitore individuale – cosa c’è dietro la maschera-persona – scoprirò una varietà di elementi, spesso contraddittori. Io sono vasto, contengo moltitudini, dice Walt Whitman.
Proverò nella prima parte di questa nostra serata a schizzare brevemente alcuni modi attraverso cui la filosofia – da Socrate al Novecento – ha storicamente considerato l’essere umano nella sua individualità, quindi non solo per ciò che attiene alla natura umana (che è ciò che ci accomuna: corpo biologico, mente, ragione, sentimenti, coscienza, ecc.), ma soprattutto per ciò che riguarda la singolarità, l’unicità, da un punto di vista etico. Mentre ci dedicheremo nella seconda parte all’analisi e al commento del breve saggio di Simone Weil La persona e il sacro.
Forse la prima figura filosofica in cui questa singolarità emerge è proprio quella di Socrate, attraverso la figura del daimon, un modo curioso di concepire la coscienza, quasi che Socrate ne fosse posseduto.
Ma sono Platone ed Aristotele ad esprimere con chiarezza teorie forti dell’individualità: in particolare Platone, con la sua teoria dell’anima e del rapporto tra le varie forze che contraddistinguono il nostro modo di essere, e soprattutto con la scissione tra sensibile e sovrasensibile, tra il corpo mortale e l’anima immortale, che condizionerà pesantemente l’intera cultura occidentale. Laddove Aristotele ha una visione più naturalistica (si veda la teoria delle tre anime: vegetativa, animale, razionale), Platone potrà invece essere letto dal cristianesimo come un proprio antesignano.
Plotino, filosofo del III secolo d.C., estremizzerà senz’altro questa visione dicotomica della natura umana, tra un corpo destinato a disgregarsi e a tornare nel nulla (o nella materia inerte) da cui proviene e un’anima destinata ad elevarsi e a ricongiungersi misticamente col divino (l’Uno) – fuga di solo a solo, come viene detto nel finale ascetico dell’ultima delle Enneadi.
La visione medievale è essenzialmente questa, e ricorre nei vari pensatori cristiani, ma va annotata come particolarmente originale la concezione agostiniana dell’interiorità – e del cammino interiore per raggiungere il dio-verità. L’acquisizione del concetto di interiorità (se si vuole della coscienza di sé) è forse il maggior merito del pensiero cristiano.
La modernità spariglia i giochi, pur mantenendo quella scissione di base, che sempre più diventerà quella tra mente e corpo: Cartesio, Spinoza, Leibniz, Locke sono i protagonisti del grande dibattito seicentesco su questi temi (ne avevamo già parlato lo scorso anno). In particolare Locke fa largo uso del concetto di persona, attribuendogli un valore eminentemente giuridico e morale, e svuotandolo di ogni riferimento ontologico all’anima-sostanza.
La visione che si verrà imponendo da una parte tende al materialismo (e al riassorbimento dell’anima in una dimensione materiale e di produzione simbolica), ma dall’altra – specie a partire da Hegel e compiutamente in Marx – la grande questione che si imporrà, facendo fuori ogni dimensione mistica o spirituale, riguarderà esclusivamente il rapporto storicamente determinato tra individuo e società (o tra cittadino e stato). L’epoca delle masse produce questa nuova dialettica, dove però l’individuo non ha nulla di singolare, poiché è un numero, un individuo-massa, appunto: è il quantitativo a trionfare, il qualitativo a perdere terreno. L’individuo-cittadino della società borghese ha dei diritti e dei doveri, ma sempre in relazione allo stato e ai suoi rapporti sociali – alla proprietà – e non in quanto tale: l’individuo in sé è una scatola vuota, la sua nuova maschera è la socialità, il suo status sociale (oggi social), in ultima analisi le sue facoltà e proprietà. L’individuo è una produzione sociale destinata ad avere un ruolo sociale, un ingranaggio della macchina.
A questa tendenza prevalente tra ‘800 e ‘900 reagisce, ad esempio, un pensatore come Kierkegaard (assertore radicale della singolarità, dell’unicità dell’individuo e della sua irriducibilità al collettivo), ritenuto il precursore dell’esistenzialismo, e poi Nietzsche (di cui ci occuperemo nel prossimo incontro): possiamo dire che la corrente esistenzialista del ‘900 (con Heidegger, Jaspers, Sartre, e, per certi aspetti, anche Hannah Arendt e Simone Weil) sia una reazione alle società di massa, al macchinismo, all’espulsione dall’orizzonte di senso di ogni dimensione mistica o spirituale – stiamo parlando all’ingrosso, semplificando ed accomunando pensatori diversissimi tra di loro, ma credo che la preoccupazione maggiore sia propria quella della sparizione dell’anima, dello spirito, della singolarità, con la riduzione di ogni cosa a macchina, ad organizzazione, a statualità, a totalità collettiva.
***
È forse all’interno di questa cornice generale che risulterà ora più chiaro questo breve testo scritto da Simone Weil agli inizi del 1943 – La persona e il sacro – che è leggibile all’interno della sua marcia di avvicinamento al cristianesimo (soprattutto nella sua dimensione mistica e spirituale), poco prima della sua morte. Simone Weil è una filosofa molto atipica nel panorama novecentesco: ella concepisce la filosofia in termini fortemente esistenziali, legati alla vita pratica, alla testimonianza etica e sociale. Ciò la impegna in primo piano in tutte le grandi battaglie di giustizia e verità, in un’epoca burrascosa per l’Europa – sul fronte sociale (sindacalismo, esperienza in fabbrica), sul fronte politico (partecipazione alla guerra civile spagnola, a fianco dei repubblicani), sul fronte etico – e, da ultimo, nell’avvicinamento al cristianesimo e al misticismo.
Per certi aspetti, un po’ come aveva fatto Leibniz, quello di Weil potrebbe sembrare un ritorno all’antico, una reazione antimaterialista: in verità questo suo afflato mistico, questo mettere in primo piano il tema del sacro (che non è la persona, ma quel che sta dietro la sua maschera), ha un carattere inedito proprio perché la filosofa francese lo fa a ragion veduta, con la coscienza di quel che la modernità va producendo, in particolare nel Novecento: megamacchine che distruggono ogni sacralità, ogni singolarità.
Ma proviamo ad entrare nel mondo weiliano, cercando di fissare i punti più importanti di questo testo densissimo, una vera e propria summa della sua concezione dell’essere umano, della storia, della ricerca filosofica.
1. L’esordio sta nella frase enigmatica: “In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo”. Weil è qui alla ricerca dell’elemento essenziale, ontologico e direi intangibile (forse ineffabile) di ciò che è umano, non coincidente però con le rappresentazioni consuete di questa essenza. E di fatti la disamina procede per lo più per negazioni: l’uomo sacro è la sua stessa interezza, quindi non riducibile in parti o proprietà o facoltà (l’anima, il corpo, la mente, la persona – o i diritti, come vedremo). Sacro è “qualcosa in fondo al cuore” violato il quale si cancella l’essenza di ciò che è umano – sacra è l’aspettativa che ogni uomo ha che gli venga fatto del bene e non del male. Ciò viene identificato da Weil in termini assoluti di “giustizia” e “bene”, non negoziabili.
2. Quando questa interiorità profonda viene violata, si leva “un grido silenzioso, che risuona soltanto nel segreto del cuore”. È il grido del misero, dello sventurato, dello schiavo – dell’essere umano che viene reso cosa, marionetta (come succede in guerra, e come Weil denuncia nella sua lettura dell’Iliade, poema della forza, come amara denuncia dell’insensatezza della guerra). Ma colui a cui viene fatto del male, proprio per la sua condizione estrema ed ingiusta di disumanizzazione, non ha la voce per dirlo, non ha le parole, balbetta, è incapace di urlare la sua sventura – esattamente come succede al “sommerso” di Primo Levi, secondo il quale il vero testimone, il “testimone integrale” del male che gli è stato fatto, è il senzavoce, il “mussulmano” del campo, colui che non è sopravvissuto per raccontare.
3. Un passaggio ulteriore ha a che fare con il concetto di impersonale: “Ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale. Tutto ciò che nell’uomo è impersonale è sacro, e nient’altro lo è”. Di nuovo Weil non poteva essere più drastica ed enigmatica: ma ciò che appare subito chiaro è che l’impersonale (che afferisce, come già si intuisce, al divino, alla verità, all’assoluto, al mistico) si contrappone nettamente oltre che al personale anche al collettivo – due corni della stessa sostanza sociale, se si vuole. Individuo e società si tengono, sono afferenti l’uno all’altro.
L’impersonale è abissalmente sopra (e lontano da) cose come l’arte e la scienza, la letteratura o la filosofia: parliamo di “cose di primissimo ordine… essenzialmente anonime”.
[A proposito del “nome”, si potrebbe qui aprire una parentesi sul suo rapporto con la persona: nome e persona si sovrappongono, ma non sono “io”, “me stesso”, la parte profonda di me, ciò che la filosofa americana Lynne Rider Baker ha definito la “prospettiva in prima persona”: sono gli altri (è la società) a chiamarmi/nominarmi, io non ho nome, io sono altro dal nome, io – appunto – secondo la prospettiva di Weil, sono sacro ed impersonale].
“La verità e la bellezza – chiarisce subito dopo – abitano questo ambito delle cose impersonali e anonime. Ed è questo ambito ad essere sacro”.
A rigore, anche l’io deve essere estromesso da questo ambito, e dall’elevazione che comporta, esattamente come negli sforzi dei mistici.
4. Ma chiariamo meglio i rapporti tra personale, impersonale e collettivo: ciò che risulta incomunicante è proprio il collettivo nei confronti dell’impersonale. Ecco perché la società, lo stato sono soggetti all’idolatria, ed ecco perché il pericolo maggiore che corre l’individuo – la persona – è quello di essere fagocitato dal collettivo, ingoiato dalla massa: “il pericolo maggiore non risiede nella tendenza del collettivo a soffocare la persona, bensì nella tendenza della persona a precipitarsi, a sprofondare nel collettivo”.
Ma come si arriva all’impersonale? Sfuggendo alle sirene comode del collettivo (oggi la macchina algoritmica che ci governa) ed insieme del personale che gli corrisponde – e penetrando sopra di essi nell’impersonale: vi è in ognuno una particella su cui nessun collettivo può far presa (è forse ciò che definiamo “libertà” nel senso più radicale?).
Ecco perché chi penetra nell’impersonale ha la responsabilità di proteggere non tanto la persona, ma “la fragile possibilità di passaggio nell’impersonale che la persona ricopre”.
5. Arriviamo qui al cuore dello scritto: cosa occorre fare per favorire la crescita e la germinazione dell’anima impersonale? Esattamente il contrario di quello che fanno la società, lo stato, i partiti, i sindacati, le chiese, le organizzazioni collettive della modernità – essenzialmente demagogiche e propagandistiche. Affinché le persone – e massimamente i miseri e gli sventurati – possano esprimere se stessi, liberare quella loro particella intima e conculcata da ingiustizie millenarie, hanno bisogno di
a) avere spazio intorno a sé – cosa che nelle società massive ed affollate, sempre più sature risulta pressoché impossibile
b) avere “tempo libero”, laddove tutto diventa tempo di lavoro, di produzione e di consumo
c) gradi di attenzione sempre più elevati (che fine ha fatto oggi la capacità di concentrarsi, di meditare, di ritrarsi dal chiasso e dal chiacchiericcio?)
d) solitudine e silenzio – il compendio dei punti precedenti
e) ma, conclude Weil, dall’altro lato “bisogna che sia avvolta dal calore, affinché l’afflizione non la costringa a sprofondare nel collettivo”. E come controesempio cita l’esperienza (che lei conosce in prima persona) della fabbrica, col suo gelido tumulto non lontano dalla soglia dell’orrore.
6. Nel passaggio successivo la filosofa francese pare chiaramente alludere, in modo critico, alla lotta di classe, che non scalfisce nemmeno lontanamente l’alienazione e lo svilimento del lavoro: non si tratta di mercanteggiare o di rivendicare, dato che stiamo parlando di qualcosa di ontologico e fondamentale, come la costituzione dell’essere umano – la sua anima più profonda.
Ma ciò cui siamo ridotti consegue dal 1789 e dalla nozione di diritto (di derivazione romana e proprietario/schiavistica): “la nozione di diritto è legata a quella di spartizione, di scambio, di quantità” – in ultima analisi il diritto moderno (e la stessa democrazia) non esce affatto dalla logica del quantitativo, della forza e della guerra. Occorre allora rivolgersi ad una “forza altra”, quella che irradia dallo spirito.
Weil cita qui le figure emblematiche di Antigone e di Francesco d’Assisi – contigui all’amore folle ed assurdo del Cristo della croce.
7. Nel prosieguo dello scritto Weil mette in relazione la sventura con la verità: entrambe inarticolate, senza voce. Ma pare che solo chi è intimamente toccato dal male, e si fa la domanda più radicale – “perché mi viene fatto del male?” – sia in grado di aprirsi alla dimensione del “bene soprannaturale”, pur rimanendo su una soglia inoltrepassabile (la soglia, il muro, la porta chiusa, il passaggio, l’intersezione, sono immagini ricorrenti nel lessico weiliano).
Quella domanda è però totalmente diversa dalle ingiustizie e dai torti subiti in questo mondo (“perché l’altro ha più di me?”): Weil distingue nettamente tra un livello giuridico, spartitorio della giustizia, e uno che mette invece in relazione con i termini verità e bellezza – giustizia, verità, bellezza sono parole sorelle, e di altro non abbiamo bisogno.
8. È l’idiota, il puro, il bambino, lo sventurato a poter oltrepassare la soglia (ed è questo il vero genio, diverso dal talento e dall’intelligenza): “non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento; senza aver soggiornato a lungo in uno stato di estrema e totale umiliazione”. Il richiamo all’ascesi mistica è qui più che evidente: sventura, umiliazione, annichilimento, come porte per una sorta di paradiso terrestre.
Anche il castigo rientra in una logica anti-repressiva quanto paradossale: solo l’iniezione forzata del bene – “fornire del bene puro a uomini che non lo desiderano” – serve a redimere il criminale.
9. Colpisce in tutto questo discorso l’immensa lontananza dall’accadere storico, dalla “realtà”: come può il grido muto dello sventurato (che si leverà di lì a poco nei campi) spezzare il dominio della forza, il totalitarismo, la reificazione prodotta dalla guerra? Come può una giustizia impersonale penetrare nelle società che si massacrano? Weil parla anche qui per metafore: le immagini evangeliche del granello di senape o del lievito nella pasta, oppure quella del grammo che su un braccio lunghissimo della bilancia può sovrastare il chilogrammo.
Dio, verità, giustizia, amore, bene sono parole “pericolose”, laddove diritto, democrazia e persona sono più “comode”. Eppure non sembrano aver prodotto un ordine più giusto, anzi! L’ordine nuovo da ricercare – conclude Simone Weil – non può che essere impersonale e divino, e le istituzioni che lo possano incarnare devono ancora essere “inventate”, compito quasi impossibile ma indispensabile se vogliamo evitare che le anime vengano schiacciate e distrutte dalla bruttezza e dalla menzogna.
Il pensiero di Simone Weil si chiude con la stessa ansia esistenziale di ricerca con cui si era aperto: una goccia di splendore in un mondo tragicamente cupo.
Anche stanotte, a quest’ora, sono nella meraviglia di dire grazie a te, a voi tutti che mi portate parole profondamente ritrovate,ascolte,sentite. Grazie, è la sola parola che stanotte, abbraccia il mondo anche per me . Armando de Ceccon.
Ma che bello Armando, grazie a te per aver condiviso questa tua profonda partecipazione emotiva!