7 parole per 7 meditazioni – 5. Superuomo

[mentre esponevo questa introduzione al pensiero di Nietzsche, guardando i volti pur attenti dei presenti, cresceva in me la sensazione di una lontananza abissale tra le loro – le nostre – vite e quel pensiero, sensazione che si è acuita durante l’imbarazzata discussione, specie quando il Superuomo ha preso a stagliarsi lì nel mezzo, con tutte le sue ambiguità; vero è che è la natura stessa della filosofia a rappresentare questa apparente lontananza, resa plasticamente fin dalle origini con l’immagine della serva tracia che sbeffeggia Talete caduto in un fosso per aver guardato il cielo; questa sensazione di disagio e di straniamento nel caso di Nietzsche cresce a dismisura, perché il suo pensiero e il suo linguaggio sono ben più che abissali, e finiscono per erodere il terreno sotto i nostri piedi, provocarci le vertigini e lasciarci senza appigli; se le domande filosofiche sono troppo radicali e hanno la forma di espressioni perturbanti – che ne è della tua vita e del suo senso? dove poggiano e dove vanno i tuoi piedi? che fine hanno fatto le tue certezze e verità? guarda che dio è morto! sicuro della tua nicchia, del tuo spazio, delle tue comodità? d’ora in poi si naviga a vista! – e se poi sono formulate nel modo più paradossale, elitario e supponente, ci fanno storcere il naso; ma a ben pensarci solo un pensiero così terribile, che ci scuote fin nelle fibre più interne, ci può indurre a pensare in grande; del resto nessun medico, né del corpo né dell’anima, ce lo prescrive, e si può vivere benissimo (o malissimo o metà e metà) anche senza leggere gli urticanti aforismi nietzscheani, anche se… fatti non foste a viver come bruti, né tantomeno in forma di gregge o meccanismo…]

***

Poiché è impossibile in una sera – e in poco meno di un’ora – dire qualcosa di sensato su Nietzsche, mi limiterò
1) a fornire qualche suggestione sullo Zarathustra, cercando di contestualizzarlo storicamente, per poi puntare l’attenzione sul concetto di “superuomo”, provando a metterlo in relazione con le prospettive della nostra epoca (nichilismo, futuro, homo deus, ecc.)
2) allestirò successivamente una scena filosofica nella quale Nietzsche viene a misurarsi con uno dei filosofi più profondi e radicali del nostro tempo – al fine di porsi alcune domande sul senso della filosofia oggi e sulla categoria di “impensato”, ovvero su ciò che alle nostre spalle muove inconsapevolmente i nostri fili, o, sotto i nostri piedi, si struttura come “sottosuolo”, l’inconscio, il non visto del nostro modo di essere e di pensare.

1. Così parlò Zarathustra
Leggere l’opera più importante e innovativa di Nietzsche è come muoversi in uno spazio vuoto, è come gesticolare nel vuoto, senza alcun appiglio. Tale esperienza è ancor più estrema per chi non conosce il pensiero di Nietzsche, il suo sviluppo, il contesto nel quale si viene evolvendo, il rapporto (in questo caso strettissimo) tra il bios e la teoria e la sensazione patologica di essere predestinato a svolgere un compito rivoluzionario non solo in ambito filosofico, ma anche storico-antropologico. Quella di Nietzsche è una filosofia-destino, qualcosa che forse non si era mai visto nella storia della filosofia occidentale. O che, per lo meno, non si vedeva dall’epoca tragica e classica della filosofia antica, da prima di Platone ed Aristotele in particolare.
Ma mettiamo tra parentesi la sua collocazione, proviamo a fare un esperimento, lasciando emergere alcuni concetti e parole-chiave dello Zarathustra, facendoci suggestionare da un nuovo linguaggio mitico, dalla totale mancanza di appigli razionali e di argomentazioni, dalla potenza simbolica e metaforica del testo, dalla creatività immaginifica – in ultima analisi dalla “follia” nietzscheana, che è poi la follia originaria della filosofia, a voler seguire la lezione di uno dei più grandi conoscitori italiani di quei testi, ovvero Giorgio Colli, che pone la manìa come una delle fonti essenziali del discorso filosofico, come la sorgente medesima della “verità”.

Quel che Nietzsche, attraverso le parole del suo profeta Zarathustra, annuncia è l’avvento di un’epoca nuova, di un uomo nuovo, di nuove tavole dei valori, che si ergono (o meglio, si ergeranno) sulle macerie dei vecchi valori.
Dio è morto – è ciò che veniva già annunciato nella Gaia scienza (1882; quasi contemporaneamente Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, 1879-80, dice che se Dio non esiste tutto è permesso).
Questa espressione racchiude in sé l’essenza della crisi contemporanea, ormai passata da un’epoca in cui i valori del cristianesimo e dello spirito impregnavano di sé la società, ad un’epoca in cui l’uomo crea se stesso – altra espressione felicemente coniata da Harari, Homo deus.
Nietzsche intende questo snodo come qualcosa di epocale e se stesso e la sua filosofia (o l’annuncio-filosofia che lui stesso è) come il sorgere di un nuovo modo dell’esistenza umana sulla terra: i vecchi uomini sono tramontati, ora l’uomo è un cavo teso tra il suo essere preistorico (secondo l’espressione marxiana) e l’Übermensch, l’oltreuomo.
Siamo in epoca di transizione, di trasvalutazione, di trapasso, di tramonto – e qualcosa deve ancora nascere: tutto lo Zarathustra è punteggiato di espressioni che alludono al parto, alla creazione, alla nascita di nuovi figli, all’eredità, ecc. (noto di passaggio che le poche espressioni favorevoli al femminile hanno sempre questa connotazione).
Ma proprio perché si tratta di un’epoca di transizione, c’è una guerra da compiere, una lotta da fare, un compito da svolgere: Nietzsche è il filosofo-guerriero del martello, della distruzione. È il grande nichilista nella misura in cui s’avvede del nulla che il vecchio mondo è diventato: nichilista non è il filosofo, quanto piuttosto il mondo che lui vede dissolversi innanzi a sé (lo sgretolamento di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito).
Quali sono le figure essenziali di questo mondo “decadente” (e però ancora imperante)? La plebe, le masse, i “superflui”, i mediocri, i comodi, gli assennati, quelli delle piccole virtù, i gravi, gli addomesticati, gli “appestati di opinioni pubbliche” – il mondo borghese e, più in generale, il sistema imperante dell’addomesticamento.
Il capitolo dedicato allo stato – il “nuovo idolo” – ci offre una prospettiva “politica” (nonostante Nietzsche sia impolitico e massimamente lo è il Nietzsche di Zarathustra): il mostro-idolo della modernità è fatto per le plebi e per i superflui, che ingoia e digerisce (si rammenti l’immagine che illustra il Leviatano di Hobbes): là dove lo stato finisce comincia il superuomo.
Fondamentale in questo discorso è la dicotomia tra selvaggio e addomesticato: Nietzsche richiama spesso la natura selvaggia del suo pensiero (e del resto Zarathustra si muove essenzialmente in un ambito naturale, tra alti ghiacci, bestie selvatiche, rupi, foreste e deserti, ai margini della civiltà metropolitana), e critica ferocemente gli uomini moderni, il plethos, la moltitudine, la gente, le masse, come del tutto addomesticati, asserviti ai vecchi idoli (dio, chiesa, stato, ma anche “comodità”).
L’Übermensch non deve più essere affetto dallo spirito di gravità. Nonostante egli sia ben radicato nella terra e nella corporeità (Dio, le idee, i valori della vecchia morale da schiavi – la compassione, il risentimento, la debolezza – sono alle sue spalle, quel cielo platonico-cristiano si è per sempre dissolto), il suo passo è lieve, egli danza, ride, poetizza il mondo, gioca – gioca con il tempo e con il caso.
Il superuomo cavalca il divenire – il terribile divenire dei pensatori presocratici, di Eraclito e di Anassimandro – e piega il tempo al suo volere.
La volontà non è più l’afflizione schopenhaueriana (o buddista), ma volontà di potenza: il corpo decide ciò che è bene per lui (c’è qui un motivo chiaramente spinozista), il corpo desidera, vuole, e vuole eternamente ogni cosa – al punto da curvare la linearità del tempo (cristiana, borghese, finalistica) nella circolarità dell’eterno: ogni cosa è ciò che il superuomo vuole, e persino ciò che è stato diventa “ciò che io volli che fosse”.
Simbolo di Zarathustra è il serpente e la sua circolarità: a tal proposito, tutta la simbologia animale è fondamentale, anche il leone o l’aquila, che rappresenta un altro dei temi cruciali del pensiero di Nietzsche, ovvero l’altezza, la solitudine del pensiero, i ghiacci. E, dall’altra parte, la profondità, il silenzio della notte. Il grande meriggio e la notte profonda, ma anche il levarsi del sole e il crepuscolo, sono i momenti simbolici che scandiscono il ritmo dell’annuncio di Zarathustra. Così come questo suo ritrarsi in solitudine e tornare tra gli uomini.
La danza, il gioco, la risata festosa sono altri simboli fondamentali: cavalcare il divenire, anche nelle sue manifestazioni più terribili (il dolore, la sofferenza, la morte) significa trasmutarlo in una creazione di nuovi significati.
Il futuro di questo nuovo mondo non coincide però con lo scopo della civiltà borghese, con le finalità dello stato delle masse, con l’aumento indefinito di potenza. Niente di tutto questo. L’Übermensch non ha scopo – o se uno scopo c’è è la realizzazione di se stesso, la creazione di sé. Egli è inaddomesticabile e selvaggio. Quel che Nietzsche auspica è, se si vuole, un arretramento dall’autodomesticazione, dall’autocontrollo delle pulsioni e degli istinti primordiali da parte della ragione e delle pressioni sociali.
La domanda che ci si potrebbe porre, a questo punto, è se tale figura antropologica (o super-antropologica) ha qualche parentela con quella evocata da Harari di homo deus (che è poi quella di Feuerbach che intendeva ritrasferire nell’uomo ciò che l’uomo aveva alienato in Dio).
In ultima analisi, in modalità del tutto lontane dalla sensibilità nietzscheana, sembrerebbe che l’avvento del superuomo si stia per realizzare: il tramonto di Dio si è trasformato nell’alba dell’era della tecnica, e l’uomo è colui che ricrea il mondo, che plasma se stesso, che si erge a Dio di una natura completamente domata.
Però: non saprei dire se le terre lontane verso cui salpare, i nuovi figli, gli eredi, i parti e le nuove creazioni, i voli e le danze che Nietzsche aveva in mente siano quelli che l’epoca della tecnica va realizzando. Propenderei per il no, se è vero che, nonostante la morte di Dio, nuovi dei ben più potenti siano sorti e abbiano preso a spadroneggiare (il denaro, i consumi, la comodità, la tecnica, lo stato, ecc.), ma, soprattutto, ciò che Nietzsche detestava profondamente – l’odore di gregge che promana dalla società – è ancora tutto in piedi.
D’altro canto non è nemmeno chiaro quale configurazione dovesse avere la società, o meglio la comunità di uomini nuovi che Nietzsche sognava – lo è ancora meno della società comunista di Marx. A tal proposito, qualcuno ha provato ad avvicinare questi due grandi maestri del sospetto, distruttori dei vecchi valori e rivoluzionari – ma non c’è dubbio che il pensiero politico che si può ricavare da Nietzsche è lontano anni luce dalla trasformazione sociale ed antropologica che ha in mente Marx: se è vero che entrambi auspicano l’avventi di individui non eterodiretti e non addomesticati, uomini liberi non massificati e non omologati – la critica feroce di Nietzsche al cristianesimo si estende a tutte le ideologie dell’eguaglianza, siano esse la democrazia o il socialismo.

2. Essere, divenire
Ma veniamo brevemente ad un confronto che trovo molto proficuo e che ci è autorizzato dai riferimenti stessi dei pensatori che intendo avvicinare: se Nietzsche è il pensatore radicale del divenire (dell’accettazione totale del più nichilistico dei concetti, assumendolo come fonte di creazione e di superamento del nichilismo stesso), Emanuele Severino è stato il pensatore radicale dell’essere – e della simmetrica follia del divenire.
Entrambi assumono la follia come punto di partenza del loro pensiero: da una parte la follia di una enorme e millenaria costruzione ideologica a riparo del dolore e della paura della morte; dall’altra la follia del pensiero che intende le cose come cose, ovvero come ciò che esce dal nulla e al nulla ritorna, e che in questa fluttuazione si rende disponibile al dominio – soprattutto al dominio dell’apparato della tecnica.
Due follie, e due rimedi altrettanto folli (del resto, filosofia è figlia di mania, già lo sappiano): la cura degli immutabili, che si rivelano illusori, è per Nietzsche abbatterli del tutto e cavalcare il nulla; la cura della follia distruttiva dell’Occidente è per Severino un (impossibile) ritorno a Parmenide, ovvero al pensiero che dice ciò che non può essere negato, ovvero che ogni cosa è eterna, ogni ente, ogni attimo, ogni vita, ogni oggetto, ogni evento, ogni pensiero, ogni battito d’ali – il nulla non è, e dunque ogni cosa è ciò che è e non può ritornare nel nulla inesistente. Noi siamo da sempre nel cerchio dell’apparire – e in questo apparire si manifesta anche la gloria dell’essere e la gioia dell’esistenza.
Interessante come sia Nietzsche che Severino ritengano le loro ontologie – così radicali – quali fonti di gioia e di piacere: un piacere più profondo del dolore, e con la prospettiva dell’eternità. In ultima analisi, non esiste un’etica o un discorso politico che prescindano dal nostro modo di pensare l’essere.
Da questo punto di vista – che però è l’unico punto di vista che non può essere negato, a meno che non si voglia uscire dal terreno della filosofia e, dunque, della totalità – sia Nietzsche che Severino sono pensatori innanzitutto del sottosuolo e dell’impensato – di ciò che per lo più non ci appare, non è chiaro ai nostri occhi, al nostro quotidiano modo di esistere, ma che ci costituisce nel profondo. È ciò che possiamo vedere solo se scartiamo di lato, se ci straniamo, se usciamo da noi stessi – andando a vedere oltre ciò che appare, nel sottosuolo (appunto) o nella zona più ignota e più impensata.
Che è poi quel che abbiamo designato come ciò di cui non si può parlare, come l’orizzonte da cui usciamo e verso cui ci dirigiamo, e che però risulta irraggiungibile e inafferrabile. È lì a portata di mano, ma non sappiamo dirlo, afferrarlo, concepirlo.
È quel che i greci (e Jaspers) definivano periéchon, l’essere che ci abbraccia, che ci avvolge da ogni lato, ma che noi non possiamo mai abbracciare né contenere.
È ciò che un tempo si designava col nome “verità”.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

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