Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,
Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
[J. Saramago]
Se è vero, come argomentato da Sergio Givone, che esiste una metafisica della peste, cioè il manifestarsi nel corso delle epidemie di qualcosa che eccede la mera fisicità biologica del male, e che addirittura evoca la domanda sul senso dell’essere (o sulla sua insensatezza) – allora non dovrebbe apparirci strano il paradosso che si genera a proposito dell’invisibilità: un morbo invisibile che rende visibile l’invisibile, ciò che per lo più non si vede – o perché è l’orizzonte (la struttura sottile) nel quale ci troviamo a vivere, o per una nostra pregressa e consolidata cecità o – più radicalmente – perché ha a che fare con il sottosuolo mistico e inafferrabile delle cose (quel che un tempo si chiamava verità).
Avevo un po’ fumosamente attribuito alla figura dello straniamento – la prima tra le parole del contagio ad essermi venuta in mente – la situazione ai limiti dell’assurdo che si va producendo nel corso di una pandemia: il mondo di prima viene sospeso e messo tra parentesi e nel corso di questa sorta di epoché fenomenologica, qualcosa di apparentemente nuovo, inedito, strano – perturbante – ci si mostra all’improvviso. Molti, anche sui social, hanno ad esempio parlato di ritorno all’essenziale o di uscita dal superfluo; lo hanno fatto magari solo in modo superficiale o sull’onda di facili slogan, ma è il caso di andare a vedere cosa sta dietro a queste reazioni, emotive prima ancora che razionali. Credo che proprio la dialettica tra visibile e invisibile cui alludevo sopra, renda più chiare queste sensazioni di straniamento o cortocircuiti della cosiddetta normalità.
Già Givone, nel suo saggio La metafisica della peste (Einaudi 2012), commentando il De rerum natura di Lucrezio che fa piazza pulita delle superstizioni, ad un certo punto scrive: «Talmente furioso e dominatore il male, che ben presto non c’è più fede che tenga, e allora sullo sfondo di una feroce disillusione si staglia il profilo della realtà qual è veramente. La trama dell’essere si fa trasparente alla ragione e lasciandosi denudare rivela che questa povertà essenziale, questo non-senso, è il senso».
Ecco: il profilo della realtà qual è veramente, compare proprio nel momento della peste, dell’emergenza, del manifestarsi del male e dell’insensatezza. La verità si staglia sullo sfondo del caos che ci sommerge, dell’apparente ordine che si è infranto: ma, ancora più interessante, le precedenti fedi sono messe in discussione, non reggono più all’urto della natura (potenza del divenire, maestà delle cose, irrompere di semi multiformi – secondo il linguaggio lucreziano).
Negli ultimi giorni ho incontrato, immagino non a caso, il tema dell’invisibilità in due articoli molto interessanti. Il primo – Il virus invisibile di Marco Belpoliti – ne fa l’oggetto principale della riflessione, accanto al concetto di complessità. Partendo dalla leggerezza delle Lezioni americane di Calvino, e dall’idea di un «mondo che si regge su entità sottilissime come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio del tempo», Belpoliti richiama l’attenzione sull’importanza delle cose che non si vedono nell’intelaiatura e nell’infrastruttura della nostra epoca, dal web ai virus, dal bosone di Higgs agli algoritmi che ci governano: invisibile non significa inesistente, anzi! Calvino era ossessionato dagli elementi sottili, sabbiosi, polverosi cui si va riducendo sempre di più la realtà: siamo pronti ad affrontare il mondo dell’invisibile? A fare un ulteriore salto nell’incertezza metafisica delle particelle elementari? E i nostri corpi – così antichi e immobili da migliaia di anni – come si comporteranno nel nuovo regno dell’invisibile che si annuncia?
Nel secondo articolo, Andrea Zhok ragiona sulla serpeggiante e non sempre esplicitata discussione a proposito del rapporto costi/benefici della pandemia: egli la colloca giustamente all’interno della contrapposizione tra due tradizioni morali classiche – quella kantiana, che considera l’essere umano un fine in sé, dignità che non ha prezzo, e quella utilitaristica, che origina da Bentham, e che obietta a Kant la necessità pratica di dover scegliere, e il calcolo che tale scelta comporta: dunque, tutto ha un prezzo, compresa la vita umana.
La narrazione liberale e neoliberista può però funzionare finché i nessi causali non impattano pesantemente sulla vita (e la morte) di coloro a cui la favola viene narrata; ma può succedere – come sta succedendo con il Covid-19 – che l’incanto si rompa e che l’assurdità del sistema venga alla luce, che l’invisibile torni ad essere visibile. Ma voglio qui citare l’autore, perché lo esplicita con grande efficacia: «L’epidemia in corso ha permesso al meccanismo parassitario del capitale e delle sue giustificazioni di farsi vedere per un momento alla luce. Ma come i non-morti della tradizione cinematografica, alla luce del sole esso prende fuoco e si dissolve. L’estraneità alla vita e ai suoi valori del gioco dei giudizi di mercato si è manifestata per un momento: gli uomini e le loro vite sono apparsi per come appaiono attraverso gli occhi del capitale: variabili collaterali, enti sacrificabili come ogni altra cosa, come tutto salvo la produzione di ‘margine’, di profitto. E nonostante decenni di indottrinamento la maggior parte degli umani è ancora capace di ritrarsi inorridita».
Mi paiono, questi, due esempi calzanti del momento cruciale, direi esiziale, nel quale ci troviamo: l’avvento di un fenomeno invisibile quale la pandemia, che rende rarefatti i nostri rapporti, che tende a polverizzarli (come temeva Calvino), nello stesso tempo ci permette di vedere quei paesaggi consueti che avevamo sotto gli occhi sotto una luce diversa, come se ne scrutassimo per la prima volta la reale forma (se discerni con chiarezza – dice Lucrezio – cesserai di stupirti di molti fenomeni). E questa forma può anche apparire mostruosa o grottesca, come quando tocchi con mano che accanto ai mancati posti in terapia intensiva c’è il lusso sfrenato di chi ha speculato con la finanza (altra zona dell’invisibile) – un accanto che si fa intollerabile quando ti viene detto che non ci sono le risorse per curare tutti allo stesso modo.
Non solo: ci può persino capitare di vedere, come in un lampo, l’invisibile farsi visibile, l’essenziale stagliarsi su ciò che non lo è, le relazioni e i nessi causali riannodarsi nel verso giusto – la verità, ciò che qualcuno ha voluto interpretare in termini di pathos del nascosto, tornare prepotentemente in scena, lei che per lo più si ritraeva in un’interiorità invisibile e afflitta da nostalgia e lontananza.
Ma questo inedito mostrarsi delle cose è un’istantanea, che va colta qui e ora, sotto l’effetto in filigrana della peste, poiché potrebbe ben presto tornare a ritrarsi. I motori della normalizzazione sono già accesi e il dopo-crisi è già in marcia. I comitati tecnocratici stanno già alacremente agendo, e nelle stanze del potere – dopo lo sbigottimento iniziale – si lavora a pieno ritmo alla riorganizzazione, a nuove infrastrutture ed efficienti algoritmi che disegneranno i futuri paesaggi dell’invisibilità.
Il re resterà nudo ancora per poco.
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