Progresso impersonale

Aldo Schiavone apre il suo ultimo saggio Progresso con quella che definisce giustamente un’icona del pensiero del Novecento, ovvero il testo con cui Walter Benjamin interpreta il dipinto di Klee Angelus Novus. Direi che è il caso di riportarlo per intero:

«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

Ho sempre trovato il passo di Benjamin infinitamente più bello del quadro di Klee – opera che il filosofo aveva acquistato a Monaco nel 1921, e per il quale nutriva una smisurata adorazione. Schiavone utilizza l’icona-simbolo di una filosofia antiprogressiva e pessimista della storia, per affermare non tanto l’ideologia delle magnifiche sorti e progressive irrise da Leopardi, quanto un fatto incontrovertibile: gli umani non sono mai stati così potenti, longevi, sicuri, dominanti sulla Terra come in questo momento della loro storia.
Eppure, 80 anni dopo le angosciose Tesi sulla filosofia della storia, giustificate dal gorgo tragico nel quale la vita di Benjamin sarebbe sprofondata insieme a milioni di altre vite (la fuga, la guerra, il nazismo) – la parola progresso suona ancora problematica, e possiamo dire che non fa battere il cuore degli umani come un tempo, nonostante le loro vite siano senz’altro più comode di quelle delle generazioni che li hanno preceduti.
Benjamin indicava come bersaglio dello sconforto filosofico, i costi inevitabili di quell’incedere trionfale: milioni di prede che si trasformano in “patrimonio culturale” (si veda la tesi 7), che deve però insieme essere letto come “documento di barbarie”.

Possiamo ricavarne che l’essenza del progresso, un perseguimento lineare, incessante e per accumulazioni crescenti della comodità – quella perseguita da Homo comfort, secondo l’analisi antropologica di Stefano Boni – non esaurisce affatto le promesse (essenzialmente materiali) del progresso, poiché l’inquietudine generata dall’Angelus novus è ancora tra noi, pur avendo assunto forme nuove. Schiavone, che pure perora la causa progressiva e sposa la causa tecnoscientifica, indica in una nuova scissione e divaricazione dell’umano il problema che ci troviamo di fronte. Se già i grandi pensatori dell’illuminismo tedesco avevano criticato la Trennung  tipica della modernità (Lessing, Herder, Schiller fino a Marx), oggi ci troviamo alle prese con una nuova Trennung, un vero e proprio scompenso che genera squilibri tra complesso tecnoscientifico da una parte e, potremmo dire, tutto il resto dall’altra. Se cioè la tecnoscienza non solo avanza ma trionfa, l’etica, la politica, la filosofia, la cultura, le istituzioni, la società (insomma, gran parte della mente e dello spirito umano) arrancano e non le stanno dietro.
Antonio Damasio aveva mirabilmente descritto questa situazione in Alla ricerca di Spinoza, segnalando il diverso ritmo evolutivo del corpo (biologia) e della mente (cultura): troppo rapidi i mutamenti etici e sociali per non creare squilibri a livello emotivo e corporeo.
Schiavone ce ne dà anche un piccolo saggio storico, accennando all’inversione simmetrica del ruolo della tecnica nelle epoche antica e moderna: se l’enorme progresso spirituale fatto soprattutto dalla cultura greco-romana non ha avuto tra i suoi motori la tecnica (per ragioni essenzialmente economiche e di struttura sociale), la nostra epoca ha invece visto rovesciarsi il peso e il rapporto tra queste due dinamiche, tutto a vantaggio del progresso scientifico, molto meno di quello etico e politico. Mi verrebbe da dire che oggi scontiamo ben tre scissioni: quella tra bios-corpo, mente calcolatrice e mente spirituale (detta all’ingrosso). Trennung su trennung.

Vorrei però ora concentrarmi sull’apologia del concetto di progresso – non becera, s’intende, ma pur sempre un’apologia – suggerita da Schiavone, a suo modo non priva di fascino, se non altro perché smonta facilmente la controimmagine dei detrattori (siano essi apocalittici heideggeriani della tecnica o antiscientisti o improvvisati nostalgici dello stato di natura). Schiavone ha qui gioco facile perché espone l’ovvio e l’inconfutabile: è l’umanità in quanto tale (ontologicamente) ad essere tecnica e progressiva.

[So bene che tale tesi fin troppo universalistica potrebbe essere smontata in termini antropologici, se è vero che le società fredde di Lévi-Strauss – tanto per citare un controesempio possibile – risulterebbero esenti da dinamiche progressive: tuttavia, per quel che storici e antropologi ne sanno, non si danno culture umane di nessun tipo prive di tecnica, e ogni tecnica è di per sé un elemento di sostituzione o distacco dal mero dato biologico: è un passo da cui non si torna indietro – in tal senso è una freccia che muove in una sola direzione].

Schiavone dà una definizione di progresso – pur non lineare e problematica – di taglio utilitaristico e universalista: «essa è indicata dalla tendenza a raggiungere, da parte di fasce sempre più ampie rispetto alla totalità dell’umano, il rapporto più alto possibile fra la potenza tecnica disponibile – e dunque il controllo sulle proprie condizioni di esistenza – e il riconoscimento e la valorizzazione della propria esistenza». Già in passato avevo pensato a questa duplicità dell’evoluzione umana – sia in termini massivi e sociali, sia in termini individuali (categorie che evidentemente si tengono): tramite la conoscenza e la tecnica noi potenziamo sia la vita individuale che quella collettiva, e mai come nella nostra epoca è stato dato un valore così alto alla vita umana, anche nella sua infima singolarità.
A tal proposito Schiavone, in una postfazione scritta in piena pandemia, conferma e anzi rafforza le sue argomentazioni mostrando come scienza e tecnica proprio in questa congiuntura si siano rivelate per quel che sono: «le custodi dell’umano, le garanti della sua esistenza […] Sono nostre figlie: siamo noi» – e smarcandosi quindi una volta di più dalle tesi filosofiche delle “potenze estranee”, arriva a sostenere che semmai vi è stata una riconciliazione e un riconoscimento di massa come mai prima nella storia.

Ma la tesi che trovo ancor più convincente è quella impersonale: tesi cara a Simone Weil, che però Schiavone non cita (ne avevo parlato qui) – che per certi aspetti costituisce l’antidoto agli aspetti mortiferi e distruttivi del narcisismo e dell’antropocentrismo. Solo una soggettività “terza” ed esterna può farlo: «la soggettività globale della specie, che non dice “Io”, ma parla solo in terza persona: la lingua dell’impersonale, che è in grado di esprimere un valore infinito, quello della vita autocosciente, unica (per quanto oggi ne sappiamo) nell’infinità dell’universo». Schiavone non intende, come aveva fatto Weil, l’impersonale come una fuoriuscita mistica dalla trappola del personale e collettivo, in direzione divina, ma lo “immanentizza” e storicizza, pur ritenendolo qualcosa di “infinito”.
Infine – come già una dozzina di anni fa in Storia e destino – richiama la configurazione post-naturale che ci attende, proprio grazie alla potenza biotecnologica di trasformazione della nostra stessa costituzione biologica: solo un soggetto-non soggetto, una soggettività impersonale può assumersi il gravoso compito etico di questo passaggio. Ma l’umano che qui si dispiega rimane possibile solo grazie alla tecnica e ai suoi progressi: in sostanza la tecnica può essere interpretata come una potenza realizzata, non solo immaginaria, contro la contingenza: da qui in poi siamo più consapevoli, da qui in poi ancora di più, e così via – pur attraversando orrori e ricadute nella barbarie.

Mi vien da aggiungere che questo impersonale deve saper guardare oltre le categorie non solo dell’Io e della società ma anche di quelle della specie (le tante patrie e catene dell’umano): un impersonale che, proprio perché pensato e prodotto per colmare la divaricazione dall’apparato tecnoscientifico (l’Apparato, come lo denominava Severino), si innalza a livelli di sintesi prima impensati, ricomprendendo in sé tutte le specie, gli enti, i viventi – con-essere realizzato (quel che da anni cerco di pensare in queste pagine in compagnia di Marx, di Hegel, di Spinoza e tutti gli altri).
Se la tecnica è al servizio dell’impersonale (e non del Capitale o del narcisismo), allora forse si aprono davvero altre strade e possibilità. Ma come può questo avvenire senza conflitti, senza la messa in discussione di una macchinizzazione del mondo finalizzata all’unico Valore, senza la nascita di una coscienza globale che eticizzi e ricomprenda in sé ogni forma di vita?

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

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