Breve critica della società pandemica

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno
che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando
insieme. Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno
e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e
apprendimento continui: cercare e saper riconoscere
chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.
(I. Calvino, Le città invisibili)

[Potrà sembrare estremista quel che scrivo qui – e l’estremismo, a parere di Lenin, è una malattia infantile (non solo del comunismo, direi). A parte che estremista sarebbe semmai praticare le parole che scrivo (di scritture radicali e sovversive son pieni i cieli e la terra, e spesso non sappiamo che farcene) – in realtà l’estremista non sono io, ma la realtà nella quale siamo immersi – o, ad essere più precisi, dalla quale siamo sommersi: una realtà estrema e stremata dalla follia, che corre all’impazzata verso l’abisso. Un vero e proprio iperoggetto, invisibile, viscoso, inafferrabile. Un inferno invisibile].

La prima domanda che mi pongo me l’ha suggerita una compagna che qualche sera fa parlava di neoliberismo: quanto ci piace questo mondo? Intendendo: quanto ci piace questo mondo determinato dal Capitale? Quanto ci piace il capitalismo, in particolare nella sua forma sinuosa e seducente del modello fintamente narcisista, in cui l’individuo pare contare indefinitamente – salvo contare quanto decide la mercificazione (e la merdificazione) capitalistica – cioè nulla?
Sì perché occorre non dimenticare che il capitale – ovvero ciò che ci determina from the cradle to the grave – è negazione di ogni cosa che non sia riducibile a valore e valorizzazione, dittatura dell’oro e del denaro – ovvero delle astrazioni metafisiche escogitate per dominare la materia – su ogni respiro e cellula del pianeta. Noi siamo stati ingoiati – e cagati – dal capitale.
Ora rivolgo la domanda a me: quanto mi piace il capitale? Quanto sono stato sedotto da questa vita comoda, protetta (all’apparenza), ben oliata e integralmente delegata, con tutte quelle belle merci scintillanti, lo smartphone, la rete, i social, il centro commerciale, il viaggio low cost, il cibo, e tutto il resto? Con quel che ne consegue in termini di svuotamento di ogni dimensione comunitaria, e riempimento di desideri individuali, reificazione integrale – se è vero che noi siamo cose, oggetti, merci. Isolati, monadici, astratti l’uno dall’altro – da cui estrarre valore e consenso illimitato al sistema.
Isolati e addomesticati: ecco perché è stato così facile sigillarci in casa per qualche mese (e ben più a lungo seppellirci in una mente impaurita – ma questo era già successo prima).
Con ciò non si vuol certo negare che ci sia stata – e c’è tutt’ora – un’emergenza sanitaria: ma c’è stata quale prodotto di un sistema marcio cui abbiamo delegato ogni cosa. Un’emergenza che ci siamo autoinflitti. E soprattutto, c’è stata una gestione scellerata (e utilitaristicamente finalizzata) dell’emergenza – come del resto succede per ogni emergenza.
Lo stato – quel che ne resta in termini autoritari e polizieschi dopo che l’ideologia neoliberale ne ha prosciugato l’unico senso che poteva avere (per lo meno per i vecchi comunisti o i socialisti che ci credevano) ovvero quello di essere uno stato sociale – si è così ripreso i pieni poteri, per decidere a nome di un enorme gregge di cittadini del tutto incapaci di intendere e di volere. E ora vediamo distintamente il capolavoro che si è compiuto in questi mesi, su almeno 3 fronti: quello politico, quello medico-sanitario (più in generale scientifico), quello economico-lavorativo.
Ovvero: anziché riprendersi in mano il potere decisionale proprio in un momento vitale, e far proprie le antiche istanze collettive, di solidarietà e di condivisione – il “popolo” (o quel che resta di questa categoria) si è fatto mettere le dande da quei tre poteri.

Dande politiche: il governo (a fronte di un parlamento esautorato, ma, soprattutto, di una società civile morta) mette la maschera (o la mascherina) del buon padre di famiglia e decide per tutti noi, che siamo bambini indisciplinati. Paternalismo insopportabile, infantilizzazione, creazione del senso di colpa – cui il sistema mediatico, servo dei servi, ha dato man forte con una propaganda insopportabile. Dovete obbedire a tutti i nostri decreti, fidarvi ciecamente di noi, chiudervi in casa. Andrà tutto bene – mentre invece non poteva andare peggio.
(Mentre i bonari amministratori dello stato ci ammorbavano con le loro manfrine serali, una gestione disastrosa dell’epidemia – in particolare in Lombardia, cuore neoliberista del paese – ha provocato il maggior numero di morti proprio nelle situazioni dove doveva esserci maggior protezione – ospedali, Rsa, luoghi di lavoro – costruendo contemporaneamente lo stigma della colpa sui cittadini “disobbedienti” che avessero violato il coprifuoco per riprendersi un minimo di socialità che non fosse portar fuori il cane a pisciare).

Dande medico-sanitarie: chi decide della salute è una boriosa casta scientifica che si arroga il diritto di sapere cosa è bene per me ed il mio corpo e il corpo sociale, e come si devono gestire le relazioni tra le persone. Ora, che ci debbano essere delle misure di protezione non c’è nessun bisogno che ce lo vengano ad insegnare i professoroni o le virostar profumatamente pagati. (Salvo poi far crepare in prima linea medici e personale sanitario, proprio per mancanza di protezione). Non solo: covidizzando ogni cosa, riducendo lo stato di salute delle persone all’epidemia, si è creato un enorme buco da cui tutti gli altri disagi, malattie, fragilità, ecc. sono stati risucchiati (alla fine conteremo i suicidi, i morti supplementari per cancro e varie patologie – peraltro indotte da questi ritmi vitali di merda: produci, consuma, crepa!). Non solo: la reclusione forzata, il mascheramento al di là di ogni ragionevolezza (persino all’aperto) ha finito per indebolire i sistemi immunitari. Ad un certo punto persino i bambini nei parchi venivano guardati come sospetti untori: l’impensabile si è concretizzato!

Infine dande sui luoghi di lavoro: qui la questione è cruciale, perché la pandemia verrà usata globalmente – come sempre ogni fase critica dei “progressi” del capitale – per ridisegnare l’organizzazione del lavoro, i ruoli, la forza contrattuale, ecc. Forza in verità già ridotta ai minimi termini e vampirizzata dal sistema neoliberista, che tende a far diventare ogni lavoratore un concorrente ricattabile e totalmente asservito. La pandemia, quale fatto contingente, verrà usata per accelerare i processi già aperti sui fronti della digitalizzazione e polverizzazione del lavoro: smartworking, automazione, ulteriore asservimento alla logica del profitto, creazione di lavori ancor più di merda e insensati. Definitiva sovrapposizione del tempo di lavoro e del tempo di vita.
Chi lavora non deve forse avere voce in capitolo? Qui sarà fondamentale che le soggettività si facciano sentire in ogni luogo di lavoro (virtuale o reale), riprendano forza, confliggano, resistano a tutti i processi eterodiretti: consegnarsi di nuovo all’alibi dell’emergenza significa soltanto acconsentire ad un’ulteriore fase dello sfruttamento e dell’asservimento (che è poi l’asservimento di tutti).

Ora, se c’è una cosa che la società pandemica ha fatto emergere, è proprio l’intima non sempre visibile follia del sistema: per un attimo, specie nei mesi di reclusione, un lampo di luce ha illuminato all’improvviso i meccanismi invisibili che lo reggevano (ne avevo parlato qui) – le “città invisibili” del Capitale si sono mostrate in tutta la loro intollerabile bruttezza e assurdità: la distruzione degli ecosistemi per edificare megalopoli mortifere, il disseppellimento da parte dell’apprendista stregone goethiano di cose che devono rimanere intoccate e nell’ombra, una smisurata avidità, l’incapacità di darsi limiti, una diseguaglianza ributtante, che non ha eguali nella storia… tutto questo è apparso chiaramente ed è subito scomparso, nei mesi successivi, votati alla convivenza, non tanto col virus, quanto col Megavirus capitalistico.
Ora si tratta di decidere se quel che abbiamo visto è uno spettro, e preferiamo riprenderci le illusorie comodità di prima, le pseudoconfortevolezze della società dei consumi (in cambio di un’enorme arrendevolezza, che implica l’accettazione di dande, bavagli, catene, un totale e definitivo addomesticamento, un’autodomesticazione senza ritorno, in cui saremo macchine docili ai voleri della Megamacchina – ed anche di una manciata di noiosissimi anni di vita in più) – anziché scegliere una rabbiosa e gioiosa vitalità.

Che vorrebbe dire: maggiore incertezza, il profilarsi dell’ignoto dinanzi a noi, la fatica di ricostruire un senso critico (che non ti dà nessuno se non te lo prendi tu: e non è un tu solipsistico, quello è semmai il mito individualista borghese), ma una vita fatta di relazioni più che di cose, di corpi più che di macchine, di leggerezza più che di gravità. Vite discrete, leggere, laterali, decentrate, per fare spazio a tutte e a tutti – non solo agli umani. “Ai margini”, con il culo sabbatico rivolto beffardamente al centro – come dice la mia amica e sorella Nic.
Non vedo alternative. L’alternativa è la mortifera macchina del Capitale che ingoia ogni cosa.
Ecco, non immaginare alternative, essere isolati ed impauriti, è la nostra letale debolezza in questa fase. Ed anche la mia debolezza, nel lungo inverno dell’autoisolamento.

Durante il blocco, mi sentivo così: più che impaurito (anche se una certa dose l’ho introiettata, era forse inevitabile), mi sentivo isolato, disconnesso dagli altri. E allora mi davo a rabbiose fughe nel bosco, con la musica nelle orecchie – quella musica toltami dalle sale borghesi di musica dove ero stato cortesemente ammesso. E questo, però, non era effetto del cosiddetto distanziamento sociale, perché quello c’era già: eravamo già distanziati, desocializzati, eravamo già le monadi che il capitale vuole che siamo, concorrenti, (finti)narcisi, consumatori docili, in cambio di presunte sicurezze e protezioni.
L’unica sicurezza, l’unica protezione è comunitaria, sociale, costruita dal basso, dalle relazioni, non può mai essere verticale ed imposta. Non un drone o una gelida telecamera (che semmai inquietano), non quelle cloache fintamente sociali che sono i social, ma le carezze materiali (qualche volta gli schiaffi) della socialità. Di questo abbisogniamo (e sogniamo, o dobbiamo tornare a sognare).

Note

1. Una breve nota sulla mascherinizzazione sociale in corso: di nuovo, non si vuole negare l’utilità di questo sistema di protezione in alcuni casi specifici – ho sempre pensato che fosse un gesto altruistico, più che di protezione personale – ma avere propagandato l’utilità della maschera urbi et orbi, averla fatta introiettare dalla popolazione come un oggetto apotropaico, magico, o se si vuole scaramantico – è un altro capolavoro dell’imbecillità indotta dal potere: persone che portano la mascherina all’aperto, persone che la manipolano nel metti-e-togli continuo, persone convinte di essersi così protetti da ogni male… per non parlare di quell’aspetto docile e rassegnato, del grave colpo alla socializzazione del volto, insomma ribellarsi all’uso improprio del mascheramento diventerà quanto prima necessario.

2. La seconda nota riguarda quel discorso iperbolico riguardante da una parte la “dittatura sanitaria” in corso e, dall’altra parte, la rivendicazione di una “dittatura del discorso scientifico”. È stato Giorgio Agamben ad insistere di più su quel primo, evidente, aspetto della ricaduta sociale della pandemia. Decidere che ogni altro bene e valore veniva dopo la “salute” è stato a parere di Agamben pericoloso: un consegnarsi ad una tecnoscientocrazia pervasiva, totalitaria, asfissiante – che decide che cosa sia degno o no di essere vissuto. A questa iperbole – che a molti è suonata impropria e inopportuna, ma che in realtà esprime un aspetto essenziale della società pandemica – corrisponde l’altra, più che mai irritante, degli scientisti più beceri in circolazione: quando parla la scienza, tutti devono tacere (a meno che non siano scienziati). A parte il fatto che è semplicemente ridicolo ascrivere alla ricerca scientifica un carattere “dittatoriale” (può anche non essere “democratica” la scienza, ma di certo se non c’è libertà di ricerca, di smentita, di falsificazione delle teorie, di critica – avremmo a che fare con una nuova forma di teologia). Resta poi il fatto – eticamente rilevante – che non è certo la scienza a dover decidere la direzione che le vite individuali e quelle sociali devono prendere: questo attiene semmai all’autodeterminazione individuale (su cui nessuna agenzia divina o terrena può intervenire) e alle scelte politico-sociali di una comunità: scelte che sono sempre dettate dal conflitto e dalla discussione pubblica, e che non possono mai essere imposte. La “cura” – esattamente come la decisione politica – non può essere delegata: l’autocura può essere una chimera, ma devo essere io a poter decidere, sulla base di un sapere critico indelegabile, del mio corpo e della sua salute – una decisione che è collettiva, di reciproca protezione sociale, esattamente il contrario dell’atomizzazione sanitaria in corso (dove sei solo il pezzo o l’organo di un corpo da riparare – in cambio di profumate parcelle e prelievi sociali). La meccanizzazione del corpo corrisponde in pieno alla meccanizzazione della vita, allo specialismo, al riduzionismo imperanti in ogni campo del sapere. La santa alleanza di Scienza e Capitale per creare una Tabula rasa elettrificata (e digitalizzata) abitata da corpi biochemiomeccanici.

3. La terza nota dovrebbe riguardare il discorso sulla morte – insieme rimossa e spettacolarizzata. Sulla morte ho riflettuto a lungo nei mesi della reclusione – specie a partire dal corpo a corpo di Elias Canetti. E molto in questo blog in tutti questi anni. Forse è finalmente venuto il momento di depotenziarne il significato, abbandonando la riflessione su di essa come raccomanda Spinoza – che però aveva anche un progetto di buona vita “sazia di giorni”. Ecco: se non si riprende in mano quel progetto, avremo un rapporto del tutto alienato e irrazionale con la morte. Forse la morte non sarà mai accettabile, di sicuro lo sarà di più se ne comprenderemo l’intimo legame con la vita. Anche la morte è una forma di leggerezza, a ben vedere.

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

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