
Il ciclo di incontri che – covid permettendo – darà vita quest’anno al Gruppo di discussione filosofica, giocherà sull’opposizione gravità/leggerezza. Lo spunto viene dalla prima delle Lezioni americane di Italo Calvino (l’espressione “crescere in leggerezza” che dà il titolo al ciclo, si trova nelle Città invisibili). Ma non sono in grado di anticipare molto, prima di tutto perché non c’è alcuna tesi precostituita, bensì solo un insieme di spunti da cui partire, una direzione possibile da prendere, e alcuni testi che ci potranno aiutare; in secondo luogo perché di leggerezza parlerò più specificamente nel secondo incontro, quello dedicato al testo di Calvino e alle suggestioni (letterarie, ma non solo) intorno ai concetti di leggerezza e di invisibilità.
Ma il vero punto di partenza non è la leggerezza – né può esserlo per definizione: è semmai la gravità, la pesantezza, lo stato di saturazione (e di collasso) nel quale ci troviamo.
Per partire ho così pensato di utilizzare una categoria-chiave dell’epoca, che ha insieme appesantito (nonostante le promesse di alleggerimento, soprattutto sul piano della fatica fisica) e saturato le nostre esistenze: ovvero il progresso, o meglio il progresso tecnico che ha preso il sopravvento su qualunque altra idea di progresso ci possa venire in mente.
Lo storico Aldo Schiavone ha dedicato proprio all’idea di progresso uno dei suoi ultimi scritti, ed è da lì che partirò, in particolare dalla sua apertura, che evoca il celebre passo di Walter Benjamin, ispiratogli circa 80 anni fa da un piccolo dipinto di Klee, Angelus Novus. La storia macina miriadi di vittime e chiama questa tempesta “progresso”.
Utilizzeremo anche la categoria di iperoggetto di Timothy Morton, nonché altri scritti “apocalittici” (i più recenti di Bifo e di Donna Haraway) per descrivere lo stato di pesante angoscia nella quale l’umanità si sta dibattendo (uno stato psichico globale, che il virus biologico ha solo amplificato a dismisura): evidentemente i progressi materiali, quantitativi, demografici non sono un télos così soddisfacente (un fine che può facilmente tramutarsi in una fine).
Ci lasceremo subito alle spalle questo stato di gravità e di angoscia (anche se le loro ombre ci seguiranno inevitabilmente), per percorrere – con Calvino – le strade della leggerezza. Si tratta di un dialogo serrato con alcuni autori, con la letteratura e con la scrittura – ma anche con la filosofia, se è vero che il De Rerum Natura di Lucrezio viene indicato come una delle più alte espressioni di poesia dell’invisibilità. Ecco perché uno degli incontri-viatici (quelli più incerti, da “laboratorio”, che non si sa bene dove ci porteranno) sarà dedicato all’epicureismo e in particolare al concetto di klinàmen e di invisibilità.
Ma prima di Lucrezio c’è Montaigne – pensatore della leggerezza cognitiva, come ho provato a definirlo: Michel de Montaigne è antisistematico, relativista, scettico, e ritiene senz’altro il concetto di verità assoluta un po’ troppo ingombrante (pesante); ha poi una concezione della natura umana che trovo di grande interesse: la sua raffinata analisi dell’interiorità ci rende partecipi di una visione compassionevole, fragile, finita dell’umano – che non può che renderlo più leggero. Approcceremo Montaigne con un testo brillante di un suo studioso francese, Antoin Compagnon, tratto da una serie di trasmissioni radiofoniche trasmesse in Francia un’estate di alcuni anni fa.
Alleggerimenti cognitivi, etici, ed anche del corpo: daremo uno sguardo (solo uno sguardo) alla mistica occidentale, in particolare a Meister Eckart e a Silesius: la fuga verso il divino appare a prima vista come l’alleggerimento più radicale che ci sia dato; abbandonare la materia, la corporeità e volgere la propria attenzione (e intenzione) a Dio, all’assoluto, all’infinito, all’Uno – i nomi di questo approdo possono essere molteplici. Eppure non è detto che uscire dal corpo non possa voler dire riappropriarsene.
I due incontri finali sono molto più caratterizzati: uno dedicato all’ozio e alla lentezza (ma anche alla rivalutazione di quello che viene considerato un vizio, ovvero la pigrizia). La modalità di affrontare questi temi sarà la rêverie, l’atteggiamento sognante e utopico di uno dei più grandi camminatori della storia della filosofia, Jean-Jacques Rousseau. Ma diversi saranno i testi e gli autori che ci potranno offrire utili suggerimenti in proposito.
Infine l’incontro più ardito: un’apologia della notte, dell’oscurità – il buio come sollievo dalla saturazione della luce (sia diurna che notturna). Il buio come dono da esplorare, calma, quiete, sfera irrazionale, ignoto, mistero.
E lì ci fermeremo – si spera alleggeriti dai pesi della modernità, dall’eccesso di cose-parole-stimolazioni, e però arricchiti dai progressi spirituali della coscienza e della conoscenza.
Lunedì ho sostenuto il progresso come forma evolutiva dell’uomo ad esempio se io possa fare yoga il mercoledì sera, partecipare agli incontri in biblioteca, andare a correre al parco ed esprimere la mia opinione via internet è perché la tecnologia mi aiuta nei lavori casalinghi ecc. In realtà ho ascoltato un brano dal “Grande dittature” di Chaplin nel quale metteva in guardia dalla tecnologia che schiavizza e conforma in modo subdolo limita la libertà di pensiero. A questo punto una domanda mi sorge spontanea come utilizzarla senza esserne dipendente?