Non mi pare che Carlo Rovelli citi mai Calvino in questo suo ultimo saggio, Helgoland, sulla fisica quantistica (un piccolo capolavoro di divulgazione scientifica), ma credo che all’autore delle Lezioni americane sarebbe piaciuto non poco.
Se nella prima parte del libro viene ricostruita la genesi della teoria, a partire dall’assurda idea che venne in mente a un giovanissimo Heisenberg abbarbicato alle rocce di una ventosa isola del mare del Nord, con i successivi contributi del gruppo di fisici geniali raccoltisi attorno a Bohr negli anni ‘20 del ‘900 (Pauli, Jordan, Dirac), e poi Born, Schrödinger e altri, per giungere alla straordinaria conclusione della “granularità” del mondo, della sua indeterminatezza ed infine al concetto-chiave di relazione – mi pare che l’avvio della seconda parte (quella più filosofica) ha proprio a che fare con la levità e leggerezza della materia, con l’invisibilità spesso evocata dalla scienza, che tanto avevano colpito Calvino sul finire del secolo. “Il rarefatto e lieve mondo dei quanti”, intitola Rovelli uno dei paragrafi, dove spiega: «il mondo dei quanti è quindi più tenue di quello immaginato dalla vecchia fisica, è fatto solo di interazioni, accadimenti, eventi discontinui, senza permanenza. È un mondo con una trama rada, come un merletto di Burano» (92).
Come allora non pensare al Calvino che nella prima lezione, dedicata proprio alla leggerezza, scrive: «Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi…».
Ora, non so se Calvino da questa sua apologia del mondo sottile ed invisibile, ricercato soprattutto in campo letterario tramite la categoria di leggerezza, ma aperto anche a prospettive scientifiche e filosofiche, volesse ricavare una qualche conseguenza “ontologica”; ma la strada intrapresa da Rovelli è proprio quella: «la grana fine delle cose è questo strano lieve mondo, dove le variabili sono relative, il futuro non è determinato dal presente» (95). Un mondo svuotato della pesantezza (o meglio: della stabilità) degli oggetti, e fatto essenzialmente di relazioni, giochi prospettici, probabilità indefinite.
Il problema che si trova quindi ad affrontare Rovelli nell’ultima parte del saggio è proprio quello della “ricaduta” di una teoria – peraltro così radicale, inaudita e apparentemente assurda – sulle nostre concezioni, teorie, esistenze, per non parlare della mentalità diffusa. Ciò che la fisica quantistica mette in discussione è proprio la nostra consolidata immagine del mondo (ma è almeno dalle geometrie non euclidee e dalla teoria della relatività e, a seguire, da svariati altri fenomeni, anche estetici, del Novecento, che quell’immagine è sotto stress): non vi sono oggetti o sostanze cui attribuire proprietà, ma flussi mobili ed intricati di relazioni. E noi ci troviamo nel garbuglio (o nel “ricamo delicato”) di quelle relazioni. Noi stessi altro non siamo che uno di quei ricami delicati.
Rovelli cita a tal proposito il filosofo indiano Nagarjuna (II secolo), che evoca la vacuità (sunyara) delle cose, l’illusorietà del mondo (samsara, concetto tipico del buddismo), fino a dissolverlo nel celebre nirvana: ma il punto sta proprio nel modo di concepire le cose e se stessi (o meglio di non concepirli affatto), molto più affine alla teoria quantistica che ad una metafisica orientata agli oggetti o alle sostanze.
Direi che Rovelli ricava da questo salto di paradigma, almeno due conseguenze molto rilevanti anche per il piano filosofico (e poco importa che molti filosofi storceranno il naso: non si va da nessuna parte senza un dialogo fitto con la scienza, che non vuol dire esserne succubi o servi).
1. La prima riguarda la vexata quaestio del rapporto tra materia e mondo mentale: il concetto di informazione significativa (e di correlazione) ci aiuta a riconnettere o comunque ad avvicinare il mondo fisico e quello mentale. Insomma, a fare qualche passo avanti nel “problema difficile” evocato dal filosofo australiano David Chalmers, ovvero la spiegazione della coscienza, o meglio di quel portato della coscienza che è il sentire di essere “in prima persona” (mentre il “problema facile”, si fa per dire, è quello che riguarda il funzionamento del cervello).
Proprio la fisica quantistica (e non sciocchezze à la page come la medicina quantistica o simili) si (e ci) avvicina a questa idea della prima persona: non c’è un esterno, ci sono solo prospettive interne: «il ripensamento del mondo a cui ci forzano i quanti cambia i termini della questione. Se il mondo è relazione, se capiamo la realtà fisica in termini di fenomeni che si manifestano a sistemi fisici, allora non esiste descrizione del mondo dall’esterno. Le descrizioni del mondo possibili sono, in ultima analisi, tutte dal suo interno. Sono tutte, in ultima analisi, “in prima persona”» (177). Proprio qui si nasconderebbe l’errore di Thomas Nagel (What is it like to be a bat? – Che cosa si prova a [che effetto fa] essere un pipistrello?), e la risposta alla sua “fuga dal naturale” a proposito dei fenomeni coscienziali e spirituali: non c’è un mondo “là fuori”, cui corrisponde (o sfugge) un io “qui dentro” (a sua volta imprendibile); ogni fenomeno è semmai in relazione ad ogni altro, ed ogni descrizione, ogni punto di vista è interno al mondo. Ne segue che Das Ich ist unrettbar: l’io non può essere salvato, come sosteneva Ernst Mach (a parere di Rovelli, un grande pensatore fin troppo dimenticato).
2. Ma qui siamo alla seconda conseguenza di questa nuova visione, ancora più radicale: se non ci sono entità, ma solo processi, allora anche la materia non può essere salvata. E nemmeno se ha nome “sostanza”.
[aveva forse avuto ragione Leibniz a frantumare l’unità spinoziana in un atomismo spirituale disseminato? Curiosamente anche Leibniz non viene però citato mai, nonostante una pagina – la 182 – sembri proprio rievocare uno dei più celebri passi della Monadologia].
Rovelli cita invece il frammento 115 di Democrito («Il cosmo è cambiamento, la vita discorso» – in altra traduzione «Il mondo è un continuo mutamento, la vita è opinione»), che si staglia così sullo sfondo di questa ontologia granulare, che però ha anche un’inevitabile ricaduta etica (appena sfiorata): «c’è un senso di vertigine, libertà, allegria, leggerezza nella visione del mondo che ci offrono le scoperte sui quanti» (197).
Che è esattamente la strada indicata da Calvino nel delicato passaggio di millennio – con l’avvertenza che non si tratta di una fuga nell’irrazionale o nel sogno, e che l’idea di leggerezza non va confusa con la frivolezza (la vera leggerezza è “pensosa”, è semmai la frivolezza ad essere spesso un fardello).
«Se volessi scegliere un simbolo augurale – scrive nella prima delle Lezioni americane – per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso [un salto quantico!] del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».
Forse questa ruggine ricopre anche vecchie metafisiche e vecchi “valori” che intendono ordinare (e gerarchizzare) un mondo il cui ordine in realtà ci sfugge, e che è semmai più contrassegnato dall’ignoto e dall’indeterminato di quanto non intendiamo ammettere.
“Pensosa Leggerezza”, un concetto di chiara bellezza…, grazie per averlo rievocato!
Le implicazioni filosofiche della scienza sono davvero affascinanti, e ineludibili, oggi a maggior ragione, visti i progressi della Fisica.
E per questo trovo ammirevoli le spiegazioni del cosmo e della materia che alcuni filosofi sono stati capaci di anticipare, quando la Fisica, intesa come scienza sperimentale, non ancora fondava l’Ontologia.
Penso ad esempio a Giordano Bruno, e alle sue intuizioni sull’Universo e sull’infinito.
E l’equivalenza tra massa ed energia, sancita dall’equazione oggi più famosa, mi sembra possa trovar eco nel pensiero, ampio e profondo, di chi ravvisava un’equivalenza tra Corpo e Mente…