
L’unica risposta all’insensatezza è la relatezza.
Ho parlato qua e là in questo blog di irrelatezza, come causa essenziale del male umano: credersi sciolti da ogni legame (dagli altri, dalla natura, dalla società, dalla memoria storica, persino da se stessi), e per ciò stesso dire “io” senza alcuna relazione con ciò che è altro da sé, con il non-io. Io è già in sé l’altro – perché è tutti gli altri che scorrono simultaneamente.
Derivo quindi relatezza dal rovescio di irrelatezza, ragion per cui non la chiamo relazione o correlazione o connessione, perché per come la intendo vorrei fosse un’apertura ad ampio spettro, uno sguardo differente (che non deriva dall’io ma dal non-io, o da un sentirsi prima di tutto non-io), una rete di relazioni, un intrico inestricabile di contatti con ogni cosa, ente, vivente. Un puntiforme essere in relazione. Relatezza come modalità di essere al mondo, di esistere.
Le cose, gli oggetti, gli enti, i viventi non hanno alcun confine: sono flussi relazionali, correnti di forze e di energie che si attraversano vicendevolmente. Contratti, così come li intendeva Cusano: ogni cosa contrae in sé tutte le cose. Ma non mi spingo oltre in questa acerba ed abbozzata ontologia (solo una suggestione che può essere ricondotta alla teoria quantistica, ma anche al concetto di mescolanza di Anassagora), e mi fermo alle conseguenze etiche che in prima istanza ciò comporta (continuo a pensare che etica, estetica ed ontologia siano a loro volta correlate, e che solo per comodità – o pigrizia – accademica vengono separate).
Occorre però una premessa di tipo neurocognitivo: la relatezza emerge dalla coscienza, se è vero che la coscienza poggia – nella sua organizzazione materiale – su un cervello che più che voluminoso e pesante è infinitamente labirintico – un’enorme organizzazione sinaptica. Il cervello e la coscienza sono esempi plastici di relatezza – e di come la vita funziona.
Senonché la potenza che si sprigiona dall’intelletto umano è ambivalente e biforcuta: allarga la sua tela alla natura, ma nello stesso tempo vuole metterla nel sacco. Irretirla. Dominarla. Catalogarla. Separarla. Reificarla. Valorizzarla. Irrelarla.
La relatezza ha diversi piani espressivi, a loro volta correlati. In questa fase epocale lo si vede bene, e si vedono bene gli snodi e i punti nevralgici delle connessioni – proprio quelle che rischiano di saltare.
Lo si vede nell’ordine naturale. Uno sciame invisibile di corpuscoli attraversa le nostre società di massa, le nostre città, il nostro perenne andirivieni – e ci paralizza. Ci ricorda che siamo natura – finiti, esposti, mortali.
Lo si vede nell’ordine sociale. Là dove viene prima l’io e non il collettivo. Una società di atomi connessi solo dal denaro, dalle cose, dal consumo.
Lo si vede nella dimensione cognitiva, nell’incapacità di assumere una visione olistica e non specialistica o parcellizzata. In quella etica – che crea gerarchie del dominio, anziché visioni orizzontali e comprensive degli esseri. Ogni aspetto dell’esistenza ci rovescia addosso la modalità della correlazione delle cose, non quella della loro esclusività – ma la megamacchina che gli umani consegnatisi al capitale hanno messo in piedi lo nega pervicacemente. O include gli esseri per spremerne valore. La macchina è iperconnessa, ma a quale prezzo? Un interno che si crede sicuro dopo aver desertificato l’esterno, una fortezza illusoria – un impero nell’impero.
L’identità e la cosiddetta libertà sono costruzioni posticce che ci vorrebbero disconnettere da questo intrico relazionale: Spinoza ci aveva messo in guardia dal dare troppo credito alla libertà individuale, un miraggio più che un dato ontologico. L’unica libertà è quella della coscienza di sentirsi parte di questo intrico. Ma la coscienza sopravanza e immagina di poter sciogliere l’intrico, ritesserlo e dominarlo a suo piacere. Noi ci struggiamo in questa perenne torsione ed illusione.
Tuttavia, l’unico modo di non essere avvinti dall’insensatezza è la relatezza. La loro alternativa è chiara: là dove l’io prevale – e fallisce – tutto si scioglie in un atomismo caotico e assurdo. Solo la visione della correlazione delle cose – del fatto che noi non siamo un io ma un flusso magmatico di forze che scorre entro una dimensione che è essenzialmente non-io (diversamente da quel che pensa Fichte) – ci può salvare dalla sensazione del disfacimento e dal nichilismo.
La relatezza è l’accettazione di una forma di vita che è essenzialmente metamorfica.
L’insensatezza è la pervicacia dell’io che non accetta questa fluidità dell’essere. L’io che vuol essere anima, sostanza, identità, gravità.
La relatezza è la leggerezza dell’essere. La porosità della materia. La mescolanza. Il mutamento alchemico. Un modo radicalmente diverso di guardare le cose. Un modo che scioglie le cose dal loro vincolo proprietario. Non c’è alcuna proprietà. Ci sono flussi e relazioni. Noi siamo parte di quei flussi e di quelle relazioni. Non ne siamo padroni.
Noi non siamo. Noi diveniamo. “Noi” – a rigore – non esiste nemmeno. Esiste un essere correlato. Con-essere.
Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe – dice Lacan.
Le crisi – come ci ricorda Massimo Filippi – pur nella disperazione ci fanno percepire l’invisibile iperoggetto delle relazioni nel quale siamo immersi.
Donna Haraway ci invita a generare parentele, piuttosto che figli: far nascere e rinascere relazioni!
Noi siamo uno degli infiniti gangli della relatezza. Saperlo, esserne coscienti è un vantaggio, ma la coscienza è anche il drammatico pericolo dell’irrelatezza, dello scioglimento e della rottura dei nessi.
Siamo così in bilico. Oscilliamo. Relati, irrelati, sensati, insensati.
Ci troviamo ad un bivio cruciale.