«L’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona». (C.E. Gadda)
La pandemia da SARS-CoV-2 ha resecato a mezzo il cuore della sinistra.
Quel cuore che – specie dopo il ‘68 – aveva provato a coniugare libertà e giustizia – rifiutando insieme l’egualitarismo omologante e totalitario del modello sovietico e il liberismo proprietario e mercantile dell’Occidente, omologante a sua volta in altra maniera. Immaginando di poter percorrere un’altra strada. O altre strade.
Per lo meno, se mi volto indietro, è questo il cuore politico di quel che sono – ed è questo cuore, che è anche il mio, ad essere resecato a mezzo.
Nella mia gioventù era ingenuamente la formula dell’anarcocomunismo: non si poteva che essere libertari (contro l’autorità, contro i padri, contro lo stato di polizia, per l’autodeterminazione a tutti i livelli), non si poteva che essere insieme comunisti (contro la proprietà privata, lo sfruttamento, l’alienazione capitalistica, per il bene comune, per una radicale giustizia redistributiva).
In questa duplicità c’era anche la rosa crescente dei diritti, che qualcuno ha voluto recentemente mettere in contraddizione, ma che non possono esserlo: il diritto ad essere quel che si è (o si desidera essere o si può essere) non è in contrasto con il diritto ad avere quel che serve per soddisfare i propri bisogni materiali. I contenuti di quell’essere e di quell’avere sono ovviamente da discutere, dato che per lo più sono predeterminati, ma i movimenti nascono proprio per metterli in discussione, guardare fuori e dentro di sé.
Ovviamente qui la faccio semplice e breve, ma quei nodi che prima sembravano potersi sciogliere nell’incedere dei movimenti contestatari e giovanili, pur in fasi diverse e con diversi accenti e articolazioni (il ‘68, il ‘77, i movimenti pacifisti, ecologisti, no-global) – paiono oggi aggrovigliarsi. Le “libertà” del ‘68 sono diventate (anche) la benzina del motore capitalistico e dell’abbattimento della cortina di ferro, dando luogo ad un’unica sfera socioeconomica globale, nonché a quel che alcuni hanno denominato “pensiero unico”.
In particolare nell’attuale crisi sistemica (di cui il covid pare un acceleratore) emerge un punto nevralgico – che potrebbe diventare strategico, in una prospettiva di radicale trasformazione: ovvero il precipitare della contraddizione tra singolo e comunità, io e società (niente di nuovo, ovviamente) – ma che a sinistra esplode nel trauma collettivo della scissione tra pulsioni libertarie e pulsioni comuniste, tra autodeterminazione individuale e bene comune – per dirla con Rousseau tra volontà del singolo (o di tutti) e volontà generale.
Ma la contraddizione allarga i suoi confini ed esplode in tutto l’arco politico, creando strani cortocircuiti e paradossi – anarchismi di destra, autoritarismi di sinistra, pulsioni poliziesche diffuse, convergenze rossobrune, negazionismi e complottismi di tutte le tinte possibili. In un bailamme nel quale raccapezzarsi diventa difficile.
A meno che non si decida di usare l’accetta categorica che divarica l’io – il più lurido e pidocchioso di tutti i pronomi, per dirla con Gadda – dall’elemento collettivo, riducendo la complessità sociale allo schema primario io/resto del mondo: tra tutte le cose che l’epidemia mostra c’è anche questa scissione e divaricazione – che credo sia anche una scissione interna agli individui, non solo ai segmenti sociali, politici, di classe, culturali, ecc.
Anche perché ciò che determina questi strani posizionamenti è una miscela incontrollata di pulsioni – emotive, economiche, psicologiche, razionali (poco), irrazionali (molte di più).
Tuttavia occorre sbrogliarle, analizzarle, verificarne il senso e trasformarle in proiezioni nel futuro, piuttosto che in gabbie (sia concettuali che sociali) nelle quali rinchiuderci.
Ciò non toglie che il processo di chiarificazione – e di riscrittura di progetti politici che tengano insieme istanze molteplici, non sempre riducibili agli schemi binari di cui sopra – abbia bisogno di misurarsi costantemente – direi di “sporcarsi le mani” – con la realtà diveniente e in larga parte ignota verso cui ci dirigiamo.
Potranno l’istanza libertaria e quella comunitaria trovare un punto di equilibrio nelle sfide che il futuro ci riserva? Si pensi solo, in proposito, al mercato del lavoro che ha fatto della desocializzazione e della precarizzazione il suo punto di forza.
Se già un fatto così inatteso come una pandemia (nemmeno troppo letale, ma che è stato in grado di paralizzare interi continenti) ha messo in crisi buona parte delle antiche categorie politiche (o ne ha fatte risorgere altre che sembravano destinate agli archivi della storia), che cosa potrà succedere di fronte all’emergenza climatica o ambientale?
Tutto lascia presagire che si convergerà verso soluzioni emergenziali continue e che le libertà individuali e di movimento verranno compresse e sacrificate – ma sacrificate a che cosa? Al bene comune o al profitto?
Occorre però chiarire che l’autodeterminazione individuale ha più facce – forse nemmeno riducibili alla dicotomia tra l’avidità narcisistica (la pulsione primaria, il conatus) e la libertà di scelta che attiene ad ogni forma di vita.
Ne va, qui, del concetto di individuo e della sua relazione dialettica con le strutture che lo generano (vexata quaestio) a da cui si sente controllato (ma anche protetto o sovradeterminato): la libertà è anche pericolosa, rischiosa, e la paura contribuisce a delegare le decisioni e ad accettare di buon grado nuove forme di addomesticamento.
Ma ne va anche del tanto evocato bene comune: che cosa è bene? O meglio, quali sono i beni? Basti pensare all’esclusività che la “salute” rischia di avere nella determinazione gerarchica dei valori: ma la stessa salute è un concetto storicamente determinato, e non un valore astratto in sé. Bene è anche il bene delle future generazioni: come si concilia con la consunzione delle risorse oggi, senza badare al domani?
D’altro canto sono le società di massa ad averci complicato la vita (pur avendocela amplificata e allungata: le vaccinazioni e la diffusione delle tecniche mediche sono strumenti essenziali di immunizzazione che hanno reso possibili le società di massa): diversamente dall’uomo epicureo che poteva scegliere di rinchiudersi nel giardino, oggi sembra pressoché impossibile liberarsi dalla cappa opprimente della socialità.
Può forse esservi un diritto dell’individuo a scindersi dal suo consesso sociale? Ad isolarsi totalmente? Non sarebbe forse come scindersi da se stesso? Se l’essere umano è politico e socievole per natura, come può un individuo vivere solo presso se stesso? Per Aristotele solo il filosofo può farlo, il filosofo che attraverso l’attività contemplativa dell’intelletto diventa beato ed autosufficiente – ma è impossibile per i cittadini, condannati a vivere nella polis. In una polis oltretutto affollata, dove lo spazio vitale diventa una nuova forma di lusso.
Ma lasciando perdere la tradizione filosofica (che pure determina i confini del dicibile e del concettualizzabile), occorre piuttosto chiedersi: come si configura oggi – e nel futuro – questa conflittualità tra i molti (i polloi, la gente, la moltitudine) e il cerchio sociale che li deve contenere per farli convivere (più o meno) in pace?
Naturalmente torna a bomba la questione dello Stato: perché se non si trovano altre forme di governo della socialità (o di autogoverno e autoregolazione degli individui: l’antico sogno dell’anarchia), non si capisce chi possa prendere le decisioni necessarie alla convivenza.
A meno che qualcuno pensi che si debbano (o che si possano) smontare e decomporre le società di massa, le megalopoli e le megamacchine che si sono andate costituendo nella modernità.
Per approdare a cosa? Un atomismo individuale diffuso? (del resto è questa una delle strategie del capitale globale: una massa informe di produttori e, soprattutto, di consumatori).
Piccole comunità roussoiane? Resserez les limites?
Può darsi che le crisi epocali in arrivo finirranno per produrre, anche senza il nostro consenso, proprio questi processi di sgretolamento. Che però non saranno affatto indolori.
Si può immaginare, nel frattempo, una teoria sociale che provi a ricostruire e a tenere insieme forme inedite di eguaglianza, giustizia, libertà? Inedite, perché diverse sono le condizioni materiali del produrre, diverso il livello tecnologico, e avanzato (ma ancora potenzialmente da dispiegare) il livello di automazione e di meccanizzazione dei sistemi produttivi e delle organizzazioni sociali.
Si può immaginare una società che usi la scienza e la tecnologia per risolvere i suoi problemi di sussistenza e di comunità (non che se ne faccia governare, ma che la usi), e che possa quindi permettersi di ampliare le sfere del godimento individuale?
Certo, occorrerà anche qui chiarire che cosa si intende per godimento. Non può certo esserlo a detrimento di specie viventi, ambienti (sia naturali che sociali) o risorse da condividere con le generazioni future (non solo degli umani). Non può esserlo, soprattutto, se sovradeterminato dal profitto, che si profila semmai come un generatore di piaceri mortiferi e distruttivi piuttosto che vitali.
L’impressione, però, è che si sia presi sempre dal medesimo vortice, dal quale non si è in grado di uscire.
Forse occorrerebbe uno sguardo potentemente esterno. Qualcosa come i superoggetti di Morton, che ci chiarisca le idee a proposito del nostro posizionamento sempre meno centrale, sempre più laterale e sempre più in discussione.
Io, noi, mondo, natura, soggetto, oggetto e forse anche individuo e società sono categorie che sembrano girare a vuoto, e le cui relazioni appaiono come garbugli metafisici inestricabili. O proviamo a districarli e ripensarli con gli strumenti della razionalità che abbiamo a disposizione, o un rasoio di Occam arriverà a reciderli.
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