
Abbracciare è un gesto universale della relazione umana. Un gesto più intimo della carezza, più deciso, se si vuole più “invasivo” della sfera dell’altro – che però, rispetto alla carezza, prevede una reciprocità: io abbraccio l’abbraccio dell’altro, le braccia dell’uno cingono il corpo dell’altro, che restituisce simmetricamente il gesto. Come se ci fosse una continuità, un flusso unitario dei corpi. La tattilità viene coinvolta in modo molto forte, meno delicatamente rispetto alla carezza, con maggiore estensione ed effusione. Ovviamente c’è anche una gradazione dell’abbraccio, che va dal breve contatto ad una quasi fusione dei corpi (come accade nell’atto sessuale). Ma l’abbraccio è sempre un gesto che ha una forte valenza emotiva, di accoglimento dell’altro. In particolare per quanto concerne la consolazione.
Mi è capitato circa un anno fa di vivere un abbraccio profondissimo di questo tipo: complice la piccolezza del corpo dell’altra persona – una donna che aveva appena perso il marito – la quale si è totalmente abbandonata nelle mie braccia. Ho sentito il suo corpo, ma soprattutto la sua emotività, il suo dolore, pulsare in un modo che mai avevo colto prima. L’interezza della sua persona era sprofondata nel mio abbraccio, come a volersi totalmente abbandonare. Ecco, nell’abbraccio c’è anche questa sorta di Gelassenheit, una forma di tranquillo abbandono, di annullamento di sé nell’altro, di sparizione dei confini dell’identità, di fusione, senza alcuna valenza erotica. Un puro atto di amore pietoso e compassionevole – nel senso più alto e più profondo di questi sentimenti originari. Insieme all’abbandono c’è anche, di fondamentale importanza, il rapporto di fiducia: l’abbracciare è anche un fidarsi e affidarsi all’altro.
Da quanto detto, l’abbraccio può essere considerato un gesto con una valenza ontologica, che struttura la modalità di essere dell’umano: un nucleo profondo e originario di sé è deputato ad essere abbracciato (e ad abbracciare). Una forma originaria dell’essere-con, del co-esistere. Anche in questo caso un’esperienza può essere più utile delle parole che la descrivono: ho rivisto mia madre nel corso dell’estate, dopo oltre sei mesi di distanziamento fisico-sociale obbligato, ed anche in quell’occasione ho sentito l’interezza della sua persona oscillare e tremare nel mio abbraccio. Di nuovo un gesto di abbandono e di esposizione della fragilità, con il desiderio di cingerla, fare argine, racchiudere in una sfera affettiva e psicologica sicura, protettiva l’altra persona. L’abbraccio si rivela così il porto verso cui l’altro sa di poter approdare. Si insinua qui una sottile forma di potere che andrebbe meglio indagata, trattandosi dell’invito a venire a sé, più che ad andare verso l’altro. Correndo così il rischio di una asimmetria affettiva. Ma credo sia del tutto secondario, e non decisivo: l’abbraccio rimane comunque un gesto rotondo, circolare, di essenziale reciprocità – per lo meno, questo dovrebbe sempre essere un buon abbraccio, una spontanea deriva amorosa che si racchiude in una circolarità perfetta. L’abbraccio, come la carezza, è un gesto silenzioso, che nel momentodi maggiore intensità induce a chiudere gli occhi per meglio lasciarne fluire la purezza sensoriale ed emotiva: parla la sua fisicità, che coinvolge il ritmo del respiro, il flusso del sangue, il calore, il contatto, l’odore …
[Ci sono studi fisiologici che ci fanno sapere che gli abbracci inducono il rilascio di ossitocina e di serotonina, così come l’abbassamento della pressione sanguigna; ma non c’è alcun bisogno di salutizzare – se non addirittura medicalizzare – troppo: c’è sempre dietro l’angolo il rischio di uno svilimento se non di una mercificazione – basti pensare alla pratica americana di “cura degli abbracci” a pagamento, una forma di alienazione sociale ed affettiva che non rende certo un buon servizio alla bellezza originaria di questo gesto].
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L’abbraccio ha però anche una valenza che va oltre la fisicità, la sensorialità e l’emotività. Penso sia anche una modalità cognitiva e persino metafisica di relazionarsi all’alterità e, più in generale, al mondo. Abbracciare – se bene inteso, praticato ed esteso simbolicamente – equivale ad avere una visione ampia della relazione, una capacità di comprensione, una larghezza di veduta: abbracciare con lo sguardo, non solo visivo ma soprattutto intellettivo. In un modo che non è però padronale o dominante, ovvero di un pensiero che cattura il mondo, lo classifica e lo riduce a sé. L’abbraccio cognitivo rimanda alla contemplazione, al rispetto e alla condivisione. Per certi aspetti, al lasciar essere e fluire.
Esattamente come abbraccio fisicamente la persona amata, abbraccio cognitivamente la moltitudine degli enti – anche se con una restituzione del gesto ed una reciprocità problematiche [ci sono però esempi di relazione col mondo animale ed anche vegetale che possono alludere ad una gestualità reciproca: basti pensare al gesto meraviglioso di abbracciare gli alberi da parte del movimento ecofemminista del Chipko, nell’Himalaya centrale: cingere un albero è ad un tempo essere cinti dalla sua forza vegetale, e non a caso si tratta di un movimento di donne]. Ecco, probabilmente l’abbraccio cognitivo mantiene del gesto interumano (e specificamente femminile) un elemento emotivo che il pensiero strategico e strumentale – la razionalità dura della scienza e della tecnica – ha espulso dal suo orizzonte.
Abbracciare il mondo è al contempo – anzi, prioritariamente – esserne abbracciati: avevo parlato qui del periéchon evocato da Jaspers, l’essere come tutto-abbracciante che sarebbe stolto (una forma di hybris) pensare di poter abbracciare interamente. È l’essere ad abbracciare noi, non viceversa. Ecco, mi pare questa una buona conclusione: il gesto dell’abbraccio è un’inserzione locale ed equilibrata all’interno dell’essere (nella forma reverenziale dell’aidòs, opposto alla hybris) – l’essere che è il perenne abbraccio entro cui esistiamo e nel quale ci relazioniamo, attraverso abbracci contatti carezze (talvolta urti o vie di fuga) reciproci, con le sue moltitudinarie forme ed espressioni. L’abbraccio, in questo senso, non può mai essere unilaterale né tantomeno strumento di dominio: noi siamo già da sempre nell’abbraccio dell’essere, noi siamo già da sempre la possibilità di abbracciare e di essere abbracciati. L’abbraccio si rivela così la forma più alta di non-violenza e di antimilitarismo, una critica sia pratica che teorica alla distruttività di homo sapiens e alle sue stupide guerre.