Viene spesso evocato il respiro. Credo sia un tema filosofico-antropologico da sviscerare. Gli effetti più drammatici del Covid colpiscono le persone anziane – ma non solo – proprio in uno dei loro punti più deboli, e mozzano loro il respiro. George Floyd, la cui brutale aggressione e uccisione ha riacceso il movimento Black Lives Matter, diceva schiacciato a terra I can’t breathe,”non riesco a respirare”. Tutti boccheggiamo in quest’epoca – soffocati dall’aria irrespirabile delle metropoli, ma più in generale saturi di cose, notizie, informazioni, incombenze: sia l’aria fisica che quella spirituale sono pessime. Sentiamo infine – per lo meno io lo sento – la necessità di fare un lungo respiro prima di agire o decidere (o anche astenersi dal farlo): fermarsi, prendere fiato, riflettere e poi procedere nel cammino. Laddove invece ogni azione sembra condurci in uno spazio chiuso, asfittico. Muri e costrizioni e pressioni di ogni tipo, anziché quiete, serenità e aria aperta.
Eppure non è sempre stato così. Anzi, il respiro – sia oggettivamente che simbolicamente – fonda la nostra stessa civiltà. Nella Genesi Dio insuffla nell’uomo la potenza vitale: «Allora il signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale, e l’uomo divenne un essere vivente».
Tra i primi filosofi, Anassimene identifica nell’aria addirittura l’arché, il principio creativo, la sorgente originaria di tutte le cose: «Come la nostra anima, che è aria, tiene insieme noi, così anche il soffio [pneuma] e l’aria [aer] abbracciano l’intero mondo».
Fino agli stoici che danno enorme importanza proprio al concetto di pneuma, soprattutto a partire da Crisippo, definendolo un composto di fuoco e aria che può essere senz’altro identificato con il lògos. Anthony Long ritiene che tale slittamento semantico sia dovuto all’influsso della fisiologia dell’epoca: «Il pneuma, che significa letteralmentre “soffio”, era visto dagli scrittori medici come lo spirito “vitale” distribuito tramite le arterie». Crisippo concepisce lo pneuma come veicolo del lògos.
A latere di ciò, ma non meno importante, è il significato che il respiro assume in un filosofo controcorrente come Diogene di Sinope, che – secondo la dossografia – arriva a mozzarsi il respiro per anticipare la morte e non farsene determinare: «Se ne andò al cielo premendo il labbro contro i denti e mordendo il respiro. Egli fu veramente Diogene, un vero figlio di Zeus, cane del cielo» – finendo così per identificare il respiro con la stessa libertà umana: siamo ontologicamente liberi e fatti d’aria. Ecco, in ultima analisi il respiro richiama la leggerezza, la materia più sottile ed invisibile, l’intelaiatura e l’essenza più profonda dell’essere umano.
Anche nelle culture orientali il termine sino-giapponese ki o il sanscrito prana rinviano a concetti sovrapponibili a quello di energia, vita, respiro o spirito; le pratiche yogiche della respirazione servono proprio a ritrovare e concentrarsi sulle proprie energie psicofische; similmente la ruah ebraica (soffio del vento). Il concetto di prana allude chiaramente alla respirazione, ma distingue tra un elemento grossolano (l’ossigeno) ed uno sottile (la vitalità).
I latini utilizzano spirito per indicare il soffio vitale, l’elemento leggero (dal verbo spiro: soffiare, spirare, sgorgare, respirare, vivere, essere animato).
Respirare d’altro canto è un gesto automatico, predeterminato, necessario (ecco perché Diogene, quando sente che quella stessa natura che gli ha dato la vita – ma anche la ragione – si è fatta intollerabile, lo interrompe); esattamente come il cuore che batte dal primo all’ultimo momento della vita: non ce ne rendiamo conto, ma il ritmo del battito e del respiro sono il basso continuo della nostra esistenza – e solo quando quel ritmo incespica, e manca l’aria, allora ne avvertiamo tutta l’importanza (insieme al peso del declino). I vecchi hanno fame d’aria – dispnea nel linguaggio medico – come se sentissero che la vita li sta abbandonando e avessero timore della morte che si avvicina: ne ho avuto esperienza diretta con mio padre, nei suoi ultimi anni di vita.
Che cosa possiamo ricavare da tutto ciò? Quale lezione morale o insegnamento trarne? Non dovremmo forse ritenere assurdo (“innaturale”) a priori, vivere in un ambiente fisico e sociale asfittico, dove scarseggia lo pneuma (sia grossolanamente l’ossigeno che più sottilmente la forza vitale) e dove la gravità finisce per sovrastare la leggerezza? Pare un’ovvietà, ma pare anche sia diventata la cosa più difficile da garantire.
Ma è sull’aspetto “spirituale” del respiro che vorrei soffermarmi un momento. Non solo le persone, anche le società devono poter respirare: se la pandemia ha reso evidenti alcuni nodi riguardanti l’affollamento, l’occupazione di tutti gli spazi, lo starsi troppo addosso, e se non si vuole rinunciare ai principi fondanti della socialità e della convivialità, del movimento e della libera circolazione, dobbiamo allora tornare a far respirare la vita sociale – oltre che noi stessi. Che non vuol dire, per reazione simmetrica e contraria, isolarsi, atomizzarsi e rinchiudersi in una vita monadica e digitale: non è forse altrettanto asfissiante, oggi, permanere e vivere negli ambienti e nelle formazioni socio-digitali? Possiamo forse immaginare lo pneuma ridotto ad algoritmo? Non sarebbe una vita ancora più asfittica (oltre che sterile)? Dovremmo trovare, semmai, un’alternativa via dialettica che connetta in modo più equilibrato il corpo, la mente, lo spirito. Correlarsi (al cosmo) e respirare (con il cosmo) – avvicinarsi e diradarsi ad un tempo proprio in virtù di quell’unità pneumatica che ci fonda: noi siamo spirito, non solo meccanismo – siamo carbonio che respira. Qui e ora, senza fughe trascendenti. E in quanto tali, partecipiamo di una vita sociale – di un corpo sociale – che deve poter respirare, meditare e non consumare e consumarsi e bruciare in un istante – come si consuma l’ossigeno e si bruciano le foreste. Le rivolte globali contro l’ingiustizia sono anche rivolte per riappropriarsi dello spaziotempo del respiro. Per vivere, decidere, autodeterminarsi.
Infine, anche la terra antropocentrica (la biosfera colonizzata dalla specie umana) sente la necessità di respirare: qui occorrerebbe aprire lo spinoso capitolo della sovrappopolazione e della reificazione – di nuovo, processi che soffocano il vivente e che fanno mancare il respiro agli stessi umani. Si dovrà pensare ad un alleggerimento del nostro peso specifico – meno quantità più qualità. Prima che lo pneuma venga spento del tutto, che il soffio vitale cessi di circolare.
Ma anche questo è un errore di prospettiva e un peccato di presunzione – hybris: la vita (e tutte le cose misteriose che contiene) va ben al di là della nostra specie – e respirerà anche quando non ci saremo. Sarà il nostro flebile respiro ad essere cessato, non il respiro universale.
Condivido “toto corde” le riflessioni svolte.