Non è particolarmente originale questo trattatello antropologico-pandemico, scritto a tre mani da Aime, Favole, Remotti. Del resto il suo intento è divulgativo con una forte caratura etica, più un’esortazione che un’analisi puntuale, con molte citazioni e divagazioni – dalla letteratura etnologica a Greta Thunberg, da Latouche a Gosh, dalla Bibbia a Kopenawa.
Leggendolo un po’ di corsa mi sono chiesto se nei comitati scientifici anti-covid siano stati chiamati degli antropologi: credo che qualcosa da dire l’avrebbero anche loro.
I 3 autori si concentrano su 3 questioni essenziali:
1. La categoria di limite: tutte le culture hanno sempre avuto dei riti di “autosospensione”, siano essi autoimposti o indotti da traumi (persino Dio al settimo giorno si riposò).
2. Un’etnografia del confinamento: tutti i termini delle relazioni intraumane raggruppati sotto i concetti di esotico, frontiera, capro espiatorio, rito, prossemica, nel corso della pandemia sono slittati, quando non si sono rovesciati. “Straniero” ora sei anche tu che stai nella fortezza, non solo l’Altro che bussava alla tua porta.
3. Gli autori evocano infine un nuovo tipo di “coscienza di classe”, quella per età, ed una sorta di rivoluzione generata dalla lotta di classe inter-generazionale: poiché ci si è appiattiti in un eterno presente che si autoconsuma, solo una “classe del futuro” potrà rovesciare la prospettiva (qui fa capolino anche Jonas e il suo principio-responsabilità, piuttosto in ombra nel corso di questa epidemia, a dire il vero).
A tal proposito sono molto significative le parole irriverenti pronunciate dal kambanji, il portavoce dei giovani nella società Ndembu dello Zambia: «Ora io sono un uomo grande, proprio io. Tu invece sei uno sciocco e un furfante, non sei buono a niente. D’ora in avanti sta’ attento a non mangiarti tutto il cibo da solo, dividilo con i tuoi figli!».
Ma è sul concetto di sospensione – epoché nella lingua greca – che vorrei un attimo sostare col pensiero. Nella guida bibliografica ci viene detto che uno degli autori, Francesco Remotti, se ne è occupato in modo più sistematico nel testo Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, edito da Laterza nel 2011.
Epoché è un termine che gli autori prendono in prestito dalla filosofia, coniato in ambito scettico (Arcesilao, Sesto Empirico), per definire la sospensione dell’assenso ad una teoria, quando non a tutte le teorie (epoché peri pànton). Husserl, come è noto, ne farà uno strumento fondamentale della sua “messa in parentesi” (Einklammerung), della riduzione eidetica finalizzata alla sospensione di ogni sapere positivo al fine di cogliere il cosiddetto “mondo della vita”. Ecco, il significato profondo di epoché è proprio quello di una disincrostazione, di un alleggerimento, di una liberazione dall’eccesso – siano essi saperi pregressi, codici morali, il peso della tradizione, il senso comune o qualunque struttura ci si ritrovi addosso. A rigore ogni individuo – che è la produzione di tutta quella roba – per dirsi davvero libero dovrebbe metterla tutta tra parentesi e ripartire da… già, da dove dovrebbe ripartire? Qui è il concetto di ripartenza – di ritorno all’origine o ad un supposto stato essenziale – ad essere al centro del ragionamento. Si è così soffocati dalle cose, dalle parole, dalle credenze, che viene il momento in cui si vorrebbe scuotersele di dosso.
Anche le culture e le società premoderne sentivano questa esigenza periodica di scrollarsi di dosso gli eccessi, attraverso distruzioni, sospensioni, sabbath, messe tra parentesi ritualizzate. Fare vuoto, alleggerire, fermare, sostare – per poi ripartire (ma non necessariamente, ci si può anche fermare e basta se non è chiara la direzione da intraprendere: non solo il Dio ebraico al settimo giorno si riposò, ma si fermò per sempre).
Ovviamente questi riti di sospensione esistono anche nella cultura occidentale e moderna, quella dominante sul pianeta: ci vengono ricordate da Remotti le festività, le ferie, le vacanze, i riti consumistici – ma anche i ritmi biologici, il sonno, il riposo. C’è poi un interessante paragrafo sui riti ebraici dello shabbath.
Ma qui sorge la domanda: è in grado la megamacchina globale di immaginare e attivare riti di sospensione? La risposta mi pare evidente: no, non lo è. Anche il trauma del covid – che pure è stata una sospensione imposta e necessitata, soprattutto per i sistemi sanitari – non ha minimamente scalfito la credenza che si debba indefinitamente produrre ed espandersi.
Il mondo del capitale e dei consumi non può ammettere al suo interno riti di sospensione – o meglio, li può solo ammettere e ingoiare, così come ingoia qualunque cosa, purché sia finalizzato alla propria valorizzazione ed eterna riproduzione. Solo un gesto (o un trauma) esterno può bloccare la macchina. Una macchina tentacolare, potente, globale, apparentemente inarrestabile. Arriverei a dire che nemmeno una rivoluzione, ormai, la può arrestare: ingoierebbe e riutilizzerebbe anche quella (del resto non lo ha forse fatto anche con il ’68 e tutti i movimenti libertari della seconda metà del Novecento?).
Quali forme di epoché e di alleggerimento sono oggi immaginabili – ed eventualmente praticabili – al di fuori dell’ideologia produttivista che ci attanaglia?
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