La forza del pensiero

«La collettività è più potente dell’individuo in tutti gli ambiti, salvo uno solo: il pensare. La collettività è per definizione più forte dell’individuo: il “diritto” dell’individuo contro la società è altrettanto ridicolo del “diritto” del grammo verso la tonnellata. L’individuo non ha che una forza: il pensiero. Ma non come l’intendono i piatti idealisti – coscienza, opinione, ecc. Ilpensiero costituisce una forza e dunque un diritto unicamente nella misura in cui interviene nella vita materiale». 

Così estrapolata dal contesto, questa frase di Simone Weil tratta dai suoi Quaderni (vol. I), può essere interpretata sia come una apologia del collettivo (l’individuo conta come un grammo), sia come il suo esatto rovescio: l’unico modo di cui l’individuo dispone per evitare di essere assorbito e schiacciato dal collettivo, è il suo essere pensante. Dal che potrebbe derivare che il collettivo non pensa (nemmeno attraverso la categoria marxiana di general intellect, o quella averroistica di intelletto attivo, filogenetico e comune a tutti gli umani). Ma l’individuo non è forse un prodotto del collettivo? Da dove sgorga il pensiero, se non da una lunga storia, e da una perenne dialettica tra individuo e comunità, fatta per lo più di rotture, deviazioni, negazioni?

Eppure Simone Weil consegna all’individuo questo potere immane, che – precisa – non è semplice idea, coscienza, opinione, chiacchiera. Se così fosse, il temuto fagocitamento da parte della megamacchina (che è anche se non soprattutto una macchina retorica) sarebbe da sempre deciso e inevitabile: il pensiero, invece, ha una valenza materiale, incide nella carne della storia – perché incide nella carne putrida dell’ingiustizia. Solo il pensiero può farlo, solo l’autocoscienza dell’ingiustizia, ciò che è in grado di intercettare l’umiliazione e le offese dei vinti, degli ultimi, dei senzavoce – proprio perché il pensiero è quella voce, è l’ingiustizia che si fa voce, e urla al cospetto dei cieli della politica e del potere la loro totale inadeguatezza, il loro essere macchine dell’ingiustizia e della guerra.
Tutto questo va poi ricondotto al concetto di impersonale (ne avevo parlato qui), anche se rimane sullo sfondo una duplice domanda: come si esce dal politico, dalla razionalità strumentale, dal collettivo massificante e totalizzante, dalla logica spartitoria e proprietaria dei diritti? E dove si trova, oggi, il “pensiero” nella forma evocata da Simone Weil? È ancora possibile pensare nell’epoca dell’integrale automazione dello spirito umano?

Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

3 pensieri riguardo “La forza del pensiero”

  1. Certo che e’ non solo possibile ma anche necessario il “pensare”.
    Il pensiero poi , e’ un dialogo con se stessi ( scoperto in primo luogo da Socrate) che rende l’uomo sempre una pluralita’.
    L’uomo non e’ mai solo se utilizza la propria facolta’ del “pensare” .
    Hannah Arendt diceva che l’uomo che non pensa non e’ parte dell’umanita’,poiche’ sono gli uomini che vivono ed abitano nel mondo e non l’uomo.
    Da questo punto di vista ,citava come esempio specifico del non pensare ,Adolf Eichmann, definita un “non uomo” dato che nella sua lugubre ed oscena vita non ha mai pensato ,instaurando quindi un dialogo con se stesso, ma ha sempre e solo eseguito.
    Da qui, la definizione della banalita’ del male.

  2. @Alessandro, sì credo sia in linea con quanto pensa anche Simone Weil, che vede il “non pensiero” nella meccanicità, nella reificazione, nella guerra; da questo punto di vista l’idea che il collettivo sia una megamacchina che superagisce gli individui – che quindi eseguono azioni impensate – rimane il pericolo più grande delle società massive e totalitarie, a prescindere dal tipo di regime che le governa.
    Ciò non toglie che in quelle “macchine” ci siano forme di razionalità (e dunque di pensiero): forse il dilemma maggiore sta oggi, come ci avverte anche Harari, nella divaricazione tra intelligenza meccanica e coscienza. Le macchine (gli stati, le masse) non dialogano tra sé e sé, non hanno interiorità, solo gli individui pensanti possono farlo – socraticamente, come hai giustamente rilevato.

  3. @Mario, la mia interpretazione è che Harari, più che una divaricazione fra intelligenza meccanica e coscienza, abbia invece presagito la possibilità di un’intelligenza meccanica cosciente – non distinguendola, nella sua essenza ‘algoritmica’, dal processo biologico del pensante umano.
    Questo nulla toglie alla potenza del pensiero di Simone Weil, anzi forse lo rafforza, laddove si interpreti la coscienza (à la Harari) come grado sommo di connessione di elementi di elaborazione che ne cambia la qualità (evento di singolarità), facendola emergere come tale, co-scienza appunto.
    Similmente, trasportando questo concetto nella società, e rientrando in tema: il collettivo non pensa, secondo Weil, solo l’individuo ha questa facoltà. Ma se questa autocoscienza individuale pensante non agisce nel mondo, be’: resta sterile (non può dirsi davvero “pensante”, come nota Alessandro citando Arendt).
    Forse si intravede qui una possibile risposta alle domande che poni alla fine del tuo blog?
    L’uscita dall’odierna razionalità collettiva, onnivora, capace solo di perseguire mere utilità calcolate, richiede azione all’individuo pensante, che (solo) connettendosi ad altri individui può conferire ‘coscienza’ al collettivo sociale, così come la connessione dei singoli neuroni conferisce coscienza all’essere umano. Chissà …

    Rileggendo-mi, mi è sembrato che il mio post alludesse alla (buona vecchia) ‘coscienza di classe’… In realtà non era nelle intenzioni, o forse si…: “coscienza di classe uomo”

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