Fin troppo citata la testimonianza in cui Anassagora dice che l’uomo è il più sapiente dei viventi perché dotato di mani: «Le mani, in effetti, sono uno strumento e la natura, come un uomo sapiente, dà ogni cosa a chi può usarla». Soprassediamo qui sulla questione se l’uomo sia più sapiente perché dotato di mani o, viceversa come sostiene Aristotele, venga dotato di mani proprio in virtù della sua sapienza.
Non so quanto poi il tema sia stato trattato in modo sistematico, di certo esisteranno scritti antropologici o biologici, ma non mi risulta una “storia della mano” di intento universalistico (ho trovato solo una storia della stretta di mano). Strano, vista la moda recente di scrivere la storia di qualunque cosa (dal vento alla sabbia, dal sangue allo zucchero). Seguiamo però la lezione aristotelica circa l’universalità della poesia (a differenza della storia): questa poesia di Chandra Livia Candiani sulle mani ne è un raro esempio. Dove non possono le scienze – umane o naturali – è l’espressione poetica a dire l’essenziale.
Le mani rotolano la terra
la farina l’acqua il sale
impastano, bevono
e distinguono, raccolgono,
addormentano, addomesticano
il dolore, accarezzano, come un gesto
che prende il posto del pensiero, i suoi
manovali. Le mani sono ricche e vuote
conoscono molte altre mani
e caldo e freddo e le voci le attraversano
e loro sanno buono quando è buono
e cattivo quando è cattivo.
Le mani perpendicolari al filo
si stendono sull’abisso e dicono:
stai quieto stai quieto,
come con un mare in burrasca.
Vecchie molto vecchie
le mani.
[da La domanda della sete 2016-2020, Einaudi 2020. Sezione “Il corpo battello”]
L’ha ripubblicato su La solitudine del Prof.