Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)
PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA
«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».
Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.
Innanzitutto occorre dire qualcosa a proposito del soggetto e dell’oggetto correlati alla leggerezza: il vettore è il poeta-filosofo, piuttosto che le masse o le nazioni o le classi o qualche nuovo soggetto storico, mentre la “materia” di cui la leggerezza è fatta ha più a che vedere con la poesia, la letteratura e, soprattutto, la scrittura – non certo con gli agenti materiali della storia. Quindi – prima questione – come può questa dialettica modificare le nostre esistenze materiali?
In secondo luogo, onde evitare fraintendimenti, occorre fermarsi su una duplice avvertenza dello stesso Calvino a proposito dell’uso del termine leggerezza: a) «Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale», b) «Esiste una leggerezza della pensosità». Viene quindi subito sgomberato il campo da un possibile uso di questa categoria in termini irrazionali, frivoli, di mode new-age e simili. Semmai, è la leggerezza pensosa (il “crescere in leggerezza”, espressione utilizzata nell’introduzione alle Città invisibili) a contrapporsi al mondo frivolo dei consumi, esso sì pesante e opaco.
Ma proviamo ad estrarre dal testo i punti salienti che qui ci serviranno per costruire un discorso filosofico sulla leggerezza in termini di liberazione antropologico-politica dalla ruggine novecentesca e di critica della sua pesante ideologia del progresso. Si tratta innanzitutto di un diverso modo di guardare ed approcciare il mondo, del quale sarebbe ingenuo pensare di potersi liberare.
a) L’elemento scientifico. Calvino è curiosamente attratto dall’invisibilità scientifica: «Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime». Su questa sottigliezza ed apologia dell’invisibilità insiste Marco Belpoliti: le nuove rivoluzioni scientifiche (con le loro conseguenze sul sistema produttivo) si muovono all’insegna della dissoluzione di ogni pesantezza. Si pensi solo al Dna o al mondo digitale o alle onde gravitazionali – ogni teoria scientifica allude ad un mondo essenzialmente invisibile e impalpabile. Qui si apre però un paradosso su cui cercheremo di riflettere: proprio la scienza (e l’apparato tecnoscientifico) che ci consegnano un mondo fatto di pesantezza e ricolmo di oggetti inquietanti – pesante nei suoi manufatti, nel nostro insediarci ed abitare, nel nostro attraversarlo, nel nostro consumarlo ed estenuarlo – proprio la scienza si mostra in molti suoi aspetti e teorie un dispositivo alleggerente. A partire dalle teorie atomiche, delle particelle elementari e, soprattutto, della fisica quantistica (si pensi al “rarefatto e lieve mondo dei quanti” di cui ha recentemente parlato, tra gli altri, Carlo Rovelli in Helgoland).
b) A proposito di particelle, Calvino gioca una carta filosofica, oltre a quelle letterarie, anche se si tratta pur sempre di un filosofo-scrittore di prim’ordine: «Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero». In Lucrezio si può ravvisare una vera e propria poesia dell’invisibilità; non solo: di deviazione dalla schiacciante necessità (il riferimento è in particolare alla teoria del klinamen).
c) Calvino tratteggia poi una sorta di fenomenologia letteraria della leggerezza, con una partizione del campo letterario – evidentemente funzionale al suo discorso, con i limiti che ogni categorizzazione comporta – che lo porta a prediligere la levità della scrittura, il suo aleggiare sulle cose, piuttosto che assorbirne la sensualità o materialità. Da Guido Cavalcanti a Emily Dickinson, da Shakespeare a Cervantes fino a Cyrano de Bergerac, la lingua e la letteratura si fanno pulviscolari senza nulla togliere alla precisione e alla determinazione. L’esempio forse più alto di questa levigazione del linguaggio lo troviamo nella poesia miracolosa di Leopardi che è stata in grado «di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare».
d) Calvino ricava infine una vera e propria teoria della letteratura come forma estetica di alleggerimento, la cui “funzione sciamanica” ed esistenziale è una reazione al peso di vivere. Nella malinconia e nell’ironia, nella luce lunare, nel pulviscolo letterario si mostrano le capacità liberatorie della scrittura.
Trovo questo piccolo trattato sulla leggerezza fecondo e funzionale ad un discorso critico che metta in questione – da un punto di vista non solo antropologico ma anche ontologico – la gravità (e grevità) del tempo presente: la mentalità che lo pervade, la saturazione consumistica, l’iperproduttivismo, l’iperoggettualità, il macchinismo, il gigantismo, l’invadenza antropocentrica, il lavoro coatto e diffuso, la fatica cognitiva, il peso e l’incombere del quotidiano sulla psiche, l’esasperazione emotiva, la volgarità, il terrore per la morte, l’angoscia e le fobie prodotte a getto continuo – e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ciò che ne fa un sistema a dialettica chiusa, bloccata, quasi un ambiente asfittico e tetragono, ai limiti della vivibilità. La critica alla pesantezza – e l’apologia della leggerezza – può forse determinare il costituirsi di un punto di vista teso a sbloccare quella dialettica, e a proporre una domanda deviante: è possibile camminare sul pianeta – pur radicati in esso materialmente – con piedi e corpi leggeri, con menti e anime sottili?
Insostenibile gravità del progresso
Walter Benjamin, poco prima di morire, nelle sue Tesi di filosofia della storia indica nell’Angelus Novus di Paul Klee, un quadro da lui acquistato negli anni ‘20, una figurazione precisa della tempesta che il progresso comporta: un cumulo di morti (le prede col cui sangue viene scritto il “documento di barbarie”) disseminato lungo il cammino della storia, che promette paradisi da raggiungere innanzi a sé – il “patrimonio culturale” da lasciare ai posteri. Sullo sfondo dell’indice puntato da Benjamin non si può non vedere la figura hegeliana dello spirito, la storia umana che si fa attraverso lugubri pagine sanguinose.
È il 1940 quando egli scrive questi passi, e di lì a poco si suiciderà preso da angoscia nel tentativo di fuggire dalla Francia occupata dai nazisti. Cinque anni dopo l’Europa sarà un cumulo di macerie, con i camini di Auschwitz a simbolizzare l’impossibilità di “ricomporre l’infranto”, e il progresso tecnologico e scientifico a suggellare la fine della guerra con l’arma atomica in grado di annientare intere città.
Ci sarebbe molto altro da dire sulle peraltro poche pagine di filosofia della storia di Benjamin, ma ciò che sorprende è la precisione di alcune visioni profetiche: ancor più dell’angelo della storia, impressiona come il filosofo tedesco abbia individuato nella tecnocrazia, nei progressi del dominio sulla natura dovuti al lavoro, il nuovo messia, insieme ai regressi sociali, nell’omologazione della classe operaia, nella potenza di piegare la natura, che “esiste gratuitamente”, e di “sgravarla dalle creature che dormono latenti nel suo grembo” – in tutto ciò i chiari sintomi di quella che si sarebbe poi realizzata come la “Grande accelerazione”. Qui è piuttosto il Manifesto di Marx e di Engels a campeggiare sullo sfondo: l’apprendista stregone (e borghese) del capitale che evoca potenze inaudite e sempre meno controllabili.
Eppure, se da una parte le fosche previsioni di Benjamin, che avrebbe desiderato tutt’altro tipo di società, si sono puntualmente avverate, d’altra parte i cantori del progresso potrebbero benissimo replicare che a dispetto della guerra mondiale e delle terribili ferite autoinferte dagli europei a se stessi e a mezzo mondo, non c’è mai stato prima di questi 75 anni nessun periodo della storia umana che abbia visto realizzazioni materiali, sociali, tecnologiche di tale livello, potenza e profondità.
Ciò non toglie che, soprattutto con l’avvento del nuovo secolo (e millennio), sia tornata prepotente una certa inquietudine, se non una diffusa angoscia, proprio nel momento in cui si evoca la parola “progresso”, soprattutto per il portato di incertezza, possibili tecnoincubi, incontrollabilità che reca con sé. Lo schianto del movimento no-global sul crollo delle due torri (due vere e proprie implosioni), la crisi economica del secondo decennio del secolo con il definitivo affermarsi del sistema speculativo finanziario, l’epoca pandemica apertasi nel 2020, l’incombere della crisi climatica e ambientale, hanno reso ancora più fosca l’atmosfera sociale e l’orizzonte che ci attende.
È comunque la tecnica, in definitiva, a disegnare le configurazioni entro cui l’umano si muove. È la sua potenza ad allargare il campo e a liberare, o meglio a creare le condizioni, affinché questa liberazione sia possibile: senza conoscenza, senza scienza, senza tecnica noi saremmo ancora schiavi di condizioni fisico-naturali e sociali che oggi riterremmo intollerabili – si pensi allo schiavismo, sia antico che moderno.
Ma siamo così sicuri che alle vecchie catene da cui il progresso ci libera non se ne sostituiscano altre, invisibili o – secondo una brillante immagine di Herder – ricoperte di fiori?
Rispondere a questo non attiene però alla scienza, quanto piuttosto all’etica e alla politica. Che tuttavia paiono arrancare, girare a vuoto, non avere più presa sui ritmi della storia.
[nota – Il termine The Great Acceleration, che fa eco a The Great Transformation di Polanyi, è stato utilizzato, tra gli altri, da John McNeill e Peter Engelke, che lo connettono strettamente alla periodizzazione che segue l’Olocene e che vedrebbe un vero e proprio dispiegarsi dell’Antropocene. Donna Haraway recentemente, irridendo la moda invalsa dei facili suffissi -cene, propone criticamente Chthulucene, per alludere ad una imminente fine dell’Antropocene, a questo punto il periodo geo-biologico più breve di sempre]
Dato questo quadro, non sfugge come le grandi promesse del progresso – in particolare per quanto attiene all’alleggerimento delle esistenze – siano in parte andate deluse. Certo, le macchine e la digitalizzazione hanno alleggerito la fatica del lavoro – non di tutto il lavoro, ovviamente – ma a che prezzo?
La prima cosa che salta all’occhio è il generale appesantimento delle vite, la saturazione sociale, produttiva, dei consumi, la mente ingombra, la vita quotidiana oberata di impegni: dal macro al micro il mondo appare pesante come mai prima nella storia. Pesiamo demograficamente – col doppio numero cresciuto in modo massiccio di abitanti e speranza di vita; pesiamo sugli ecosistemi e sugli ambienti naturali. Ma quel che colpisce di più è l’impressionante compattezza di questa modalità pesante dell’organizzazione sociale, la sua asfitticità: la totale assenza di una dialettica, innanzitutto – per riprendere le parole di Calvino – tra leggerezza e gravità, ma anche tra materia pesante e materia sottile, tra vita e morte, tra vuoto e pieno, silenzio e rumore, buio e luce. Tra natura e culture umane: l’installazione dominante non tanto della specie umana quanto di un suo specifico e storicamente determinato sistema di vita, occupa l’intera biosfera, riempie tutto lo spazio e il tempo, col risultato di un mondo unico e compatto, privo di porosità, di leggerezza, di aria. Privo di alternative e di possibilità. Del tutto adialettico.
Un mondo di iperoggetti.
Iperoggetti
Timothy Morton configura in Iperoggetti una teoria straniante della iper-gravità, delle forze non-umane che premono su di noi da ogni lato e dalle quali rischiamo di essere sopraffatti.
Il cuore dell’analisi di Morton – densa, ricca, complessa, allucinata – sta nella fine del concetto di Mondo, e nell’equivocità del concetto di Natura: noi non viviamo più in un mondo, in una casa comune (ambiguo è anche il termine Ecologia), ma nello stesso tempo non ci sono più né un Altrove, rispetto a questo mondo, né un’essenza: gli umani devono venire a patti con ciò che non è umano: questa è la storia che ci attende dopo la fine del mondo antropocentrico.
Siamo gettati in un mondo di oggetti (interessante e sorprendente il continuo richiamo ad Heidegger e alla sua analisi della strumentalità). Il mobilitatore degli oggetti è il Capitalismo, l’agente trionfante della Grande Accelerazione, le cui azioni storiche hanno scatenato nella fattispecie gli iperoggetti, ovvero quei fenomeni non visibili, viscosi, non-locali, più quantistici di quanto non siano meccanicistici entro i quali siamo immersi e che non hanno più coordinate spaziotemporali né confini determinati, e che possiamo solo rilevare tramite l’analisi dei dati, ragion per cui solo ora ci possono apparire. Ma che non hanno nulla di metaforico o di metalinguistico, se è vero che la fuliggine che le macchine a vapore di Watts a partire dal 1784 hanno cominciato a spargere ovunque, le radiazioni dell’era atomica inaugurata nel 1945, i prodotti industriali, la plastica e il polistirolo, o il riscaldamento globale sono tutti iperoggetti. E sono il segno tangibile – insieme fisico, metafisico, antropologico – della gravità del progresso umano, del suo depositarsi in ogni dove, e trasformare ed appesantire, e in prospettiva far sprofondare la biosfera.
È solo a partire da questo nuovo livello di coscienza – una sorta di ipercoscienza che non prescinda dallo sguardo che gli oggetti gettano su di noi, più di quanto non siamo noi a gettare lo sguardo su di loro – che può essere ripensato un percorso di liberazione. Che sarà però, inevitabilmente, un percorso di coesistenza col non-umano.
Ma è possibile figurarsi un percorso di liberazione e di alleggerimento all’interno di questo “inferno” (simile al grattacielo di Horkheimer, anche se infinitamente più denso e invasivo e vischioso), sull’orlo della fine e della messa in discussione del bios? Un percorso che parta da questa consapevolezza e che non sia una via di fuga – anche perché non esistono vie di fuga possibili?
Fatiche cognitive
La verità è un fardello pesante. Specie se la si evoca in termini assolutistici e ultimativi: “la” Verità in quanto unica e suprema. Lessing sembra volersene sbarazzare quando scrive: «Se Dio tenesse chiusa nella sua destra ogni verità e nella sua sinistra la sola inesausta pulsione alla verità, sia pure col corollario per me di un sempiterno andare errando e mi dicesse: “Scegli!”, con umiltà mi precipiterei alla sua sinistra e direi: “Dammi, padre! La pura verità è solo ed esclusivamente per te!».
Ma c’è poco da fare: è inscritta nella natura umana – e nella natura filosofica, interrogante e propria dell’essere umano – la tensione verso quell’oggetto che definiamo verità.
Proprio in questa tensione si dispiega pienamente la dialettica tra gravità e leggerezza. Si potrebbe pensare che la conquista del sapere alleggerisca il fardello dell’incertezza, della fragilità, dell’errore che gravano sull’esistenza. Se conosco l’ambiente in cui vivo, sono in grado non solo di sopravvivere, ma, entro certi limiti, di modificarlo. Se conosco me stesso mi so governare, e ciò vale anche per i miei simili.
Homo sapiens è l’animale che, proprio grazie alla sua carenza biologica, più di altre specie è stato in grado di adattarsi e modificare ambienti naturali diversissimi tra di loro, creando “nicchie culturali”, una moltitudine di costruzioni che soliamo definire “seconda natura”. Senza l’encefalizzazione, la curiosità tipica della specie – insieme ad una serie complessa di condizioni e contingenze che non è il caso di affrontare qui – tutto questo non sarebbe stato possibile. Grazie all’intelligenza e alla costruzione di quel dispositivo mentale che chiamiamo “coscienza”, la specie umana ha di fatto conquistato una sorta di primato biologico – o, per lo meno, è ciò che molti umani credono.
Proprio in virtù di questo lungo processo di espansione delle facoltà mentali, è stato possibile istituire e codificare alcune forme particolari di conoscenza che denominiamo “filosofia”, ma anche l’arte e la religione attengono al medesimo campo di ricerca, pur con strumenti diversi – tutti saperi che si propongono di raggiungere ciò che i filosofi – in particolare quelli greci – hanno evocato come “verità”. Ciò che fuoriesce dall’ignoto e ci si mostra. Ciò che dissolve la meraviglia e il mistero.
È indubbio che la ricerca della verità rechi con sé una chiara sensazione di alleggerimento, di elevazione, di abbandono dei vincoli materiali necessitanti: quando si è liberi dal bisogno della terra, si può volgere lo sguardo al cielo. La verità appare così una forma di trasparenza, di rarefazione materiale: è Platone a richiamare questa forma di elevazione e, se si vuole, di abbandono del corpo in favore della parte mentale, dell’anima e dell’idea – di ciò che è invisibile ma al contempo intelligibile.
Ora, questa elevazione rimanda senz’altro ad una sensazione di alleggerimento. L’uso massiccio della mente e dell’intelletto ci ha liberato (almeno in parte) dai fardelli della sussistenza, della precarietà e della scarsità, traghettandoci verso un territorio in cui germogliano altri tipi di domande, meno vincolate al qui e all’ora e più strettamente filosofiche. Oltre la gravità terrestre si profila così una levità metafisica: ma siamo sicuri che questo progresso verso un altro livello di conoscenza e di verità sia davvero una forma di alleggerimento?
Non tutte le filosofie e non tutti i filosofi convergono o concordano su questo. Alcune antiche cosmologie – o alcune riprese recenti di quelle cosmologie – ci dipingono un quadro della verità piuttosto inquietante quando non angosciante e diametralmente opposto alla leggerezza: il Vero così come lo intendono Leopardi o Schopenhauer sono affetti da pesantezza, piuttosto che da leggerezza.
Ma anche la saggezza popolare ce lo suggerisce: avere pensieri equivale ad esserne gravati, piuttosto che alleggeriti. In effetti uno dei significati della parola “pensiero” è proprio quello di “ansia, preoccupazione” – e alcuni modi di dire ce lo rivelano: vita oberata di pensieri, dare pensieri, stare in pensiero… Su qualche vecchio dizionario si può anche trovare un’espressione figurata ormai poco usata: attaccare i pensieri alla campanella dell’uscio – che equivale a lasciar fuori di casa le preoccupazioni.
Un tipo pensieroso è dunque qualcuno che ha la mente ingombra, piena di cose, e perciò mostra una fronte adombrata, aggrottata, accigliata; egli ha dei pensieri che lo angustiano e che quasi non lo fanno dormire di notte. Anzi, è assillato dal solo fatto di avere pensieri: indipendentemente dal contenuto di questi pensieri, è la sua stessa tonalità emotiva ad avvertire ogni pensiero come un peso. E così passa il suo tempo assorto in quei gravosi pensieri.
Il pensiero sembrerebbe così non essere affatto qualcosa di rilassante, di rasserenante, di pacifico. È semmai la spensieratezza – l’essere letteralmente privi di pensieri – a costituire una condizione di totale rilassatezza, quasi di assenza da sé e dal mondo. Mentre è al contrario l’esser presenti a comportare preoccupazioni – e pensieri. Pensare è irrequietezza.
Del resto era stato proprio il sauvage Rousseau a scrivere nel Discorso sull’origine della disuguaglianza che il pensiero è contronatura: «Oserei quasi assicurare che lo stato di riflessione è uno stato contro natura, e che l’uomo che medita è un animale depravato» – detto poi da uno che per tutta la vita è stato cogitabondo… La natura non ha pensieri – o per lo meno non li ha nei termini e con le caratteristiche con le quali ce li poniamo noi.
Dunque, ricapitolando: la ricerca della verità si mostra come un sentiero che non ci allontana affatto dalla tortuosità e dalla gravità dell’esistenza, anzi, per certi aspetti rischia di aggrovigliarla. Annodare e sciogliere questioni sembra prerogativa imprescindibile del pensiero filosofico – di fronte a cui la Verità appare piuttosto in forma di sfinge o di figura ignota, tutt’altro che chiara e trasparente: ciò di cui è meglio non parlare affatto, per evitare che ci faccia esplodere il cervello.
Eppure, una volta entrati nel territorio della coscienza e della conoscenza – per lo meno di quella conoscenza che non si occupa solo della edificazione di un ambiente materiale accogliente e comodo, ma che allarga lo sguardo tutt’intorno, a 360 gradi – sembra non si possa più retrocedere. È come se ad una gravità materiale si fosse aggiunta una gravità spirituale. Il problema diventa allora: come alleggerire questa gravità spirituale? Come volgerla in leggerezza cognitiva?
Il dolce soliloquio di Montaigne
Nel capitolo Dell’ozio del primo libro degli Essais, Montaigne ci rivela la ragione del suo ritiro a vita privata nel 1571: «Mi sembrava di non poter fare al mio spirito favore più grande che lasciarlo, nell’ozio più completo, conversare con se stesso e fermarsi e riposarsi in se medesimo» – salvo scoprire con rammarico che la mente oziosa si comporta come un “cavallo senza freno”, e che si affanna più di prima, quando era presa dalle preoccupazioni della vita sociale.
E allora, ecco la soluzione trovata da Montaigne per evitare la generazione di chimere, balordaggini, stravaganze nocive: registrarle. La scrittura diventa la medicina dell’anima. La scrittura – come ci avverte Calvino – è la miglior forma di leggerezza che ci sia data in dono.
Qui però si tratta di scrittura di sé, di autoregistrazione, di trasfigurazione simultanea della propria vita in altra forma. Scrivere di sé è ad un tempo provare vergogna e liberarsene:
«Sono io stesso la materia del mio libro» – avverte il lettore Montaigne nella nota introduttiva a lui dedicata. Quel che si profila qui è un autore che si denuda – innanzitutto a se stesso, e che, se potesse, lo farebbe nella modalità più radicale e originaria, ovvero quella dei popoli che hanno la fortuna di vivere ancora “nella dolce libertà delle primitive leggi della natura”. L’obiettivo è quello della trasparenza – innanzi a se stesso, e di riflesso ai pochi e intimi lettori cui Montaigne dice di rivolgersi: come dinanzi ad un camino d’inverno, o in una tiepida passeggiata primaverile – magari a cavallo – Montaigne vuole consegnare ai suoi ospiti fidati le sue più profonde riflessioni sulla natura umana.
Ecco che allora i cavalli imbizzarriti del pensiero hanno facoltà di distendersi e di dispiegarsi in un dolce soliloquio destinato ad anime sottili e attente, nonostante la materia sia greve e dolorosa.
Filosofie della rarefazione
La filosofia delle origini, pur nel suo tono tragico, a voler seguire l’interpretazione nietzscheana, si presenta come un tentativo di legare gli elementi opposti della realtà – in primo luogo la compattezza e la levità del mondo, elementi pesanti e sottili.
Se si volesse operare una sintesi ardita del pensiero presocratico, se ne potrebbe ricavare una filosofia dell’alternarsi della rarefazione e della condensazione. Gli elementi trasmutano dal pesante al leggero e viceversa, dal determinato all’indeterminato, e sempre i filosofi vanno alla ricerca di elementi più sottili ed invisibili deputati a governare questo ordine diveniente e dialettico: l’apeiron, l’aria, la natura che ama nascondersi, il nous – riflesso della stessa intelligenza umana.
Con Democrito avremo una svolta ancora più netta: la realtà è porosa, fatta di particelle che si addensano e si distanziano, e tutto questo è possibile grazie al vuoto.
Sarà Lucrezio, alcuni secoli, dopo, a riprendere questa intuizione di Democrito e a consegnarci nel De rerum natura, uno dei più grandi affreschi letterari dell’antichità, un’immagine del mondo che nella dialettica tra levità e gravità trova il suo punto di forza.
L’intera opera lucreziana può essere interpretata come un canto della natura che, nell’assumere come fondamento la teoria atomistica – dunque la granularità, la porosità, la sua spugnosità e differente densità – ne descrive la dialettica continua tra compattamento e disfacimento, forme ed informe, gravità e leggerezza, corposità e spiritualità, una spiritualità che non esce dai confini del materiale, ma che è soltanto dovuta al modo in cui gli atomi si legano e organizzano la vita.
Sull’oscura materia – oscura perché ignota a chi non usa l’intelletto, ma anche per il suo perenne mutare – Lucrezio intende comporre versi limpidi “aspergendo ogni cosa della leggiadria del canto” (IV, 9). Qui la parola, la voce, lo spirito umano alleggeriscono la gravità della materia, trasfigurandola in luce. E spesso la luce ricorre come metafora di questa chiarificazione continua: “Così passo dopo passo il tempo trae nel mezzo ogni cosa, e la ragione la innalza alle rive della luce”.
Ma non avremmo la luce senza l’oscurità, né la sottigliezza dell’anima senza la gravità dei corpi, o la vita senza la morte: non è un caso che l’opera si apra con l’immagine primaverile della nascita di Venere e si chiuda con la peste di Atene – ogni cosa è destinata a disfarsi, e ciò che rende tollerabile questo disfacimento è insieme la sua profonda intelligenza e la leggiadria con la quale la mente umana – proprio perché tra le materie più sottili – può comprenderlo, cantarlo e rappresentarlo.
Ma tutto questo è appeso al filo della contingenza (diremmo oggi), “un’altra causa di moto oltre agli urti e al peso”, una “esigua inclinazione” (exiguum clinamen) insita nei corpi primordiali – dunque iscritta nella stessa conformazione naturale – imprevedibile ed indeterminata: Lucrezio si fa qui sostenitore di una sorta di principio di indeterminazione (nec regione loci certa nec tempore certo) che incrina la necessità meccanica del mondo atomico, o meglio, è proprio del mondo atomico generare modi di essere che alleggeriscono la materia, fino a renderla trasparente a se stessa. L’animo, l’anima, la mente sono le forme intelligibili di questa invisibilità e trasparenza: la coscienza trafora la materia ed è in grado di guardarla di lato. Non dall’esterno, ché sempre di immanenza si tratta e quelle forme di leggerezza spirituale sono soggette come ogni cosa alla legge universale del disfacimento.
[nota – Il filosofo inglese Robert Greathead elaborerà nel XIII secolo un’originale dottrina della luce, che richiama i principi cosmologici della rarefazione e della condensazione e che con grande eleganza concettuale prova a spiegare la dialettica corporeo/incorporeo: un punto di luce pressoché impalpabile diffonde intorno a sé fasci di luce che danno luogo allo spazio, al mondo fisico e ai corpi]
Orsù uccidiamo lo spirito di gravità!
Così parlò Zarathustra è punteggiato di riferimenti alla leggerezza, al “divenir lieve della vita”, con frequenti immagini di ponti, arcate, arcobaleni, danza e gioco, canto e dileggio, camminar veloce, alte e impervie cime, piedi lievi…
Il capitolo sullo spirito di gravità – uno dei più ispirati dell’opera di Nietzsche – mostra chiaramente la connessione di due temi fondamentali del suo pensiero: l’addomesticamento umano e la levità. Il tema dell’addomesticamento – o, per meglio dire, dell’autoaddomesticamento – attraversa tutto lo Zarathustra: la plebe, le masse, i “superflui”, i mediocri, i comodi, gli assennati, quelli delle piccole virtù, i gravi, gli asserviti, gli “appestati di opinioni pubbliche” – il mondo borghese e, più in generale, il sistema imperante della incombente società di massa. L’Übermensch – che si contrappone al mondo del plethos, della moltitudine – non deve più essere affetto dallo spirito di gravità. Egli dà l’addio alle parole e ai valori pesanti, imposti fin dalla culla – amore del prossimo, bene, male, Dio e la morale da schiavi; nonostante sia ben radicato nella terra e nella corporeità, il suo passo è lieve, egli danza, ride, poetizza il mondo, gioca – gioca con il tempo e con il caso, insegna il volo agli uomini, e conferisce un nuovo nome alla terra – “la leggera”.
Ma occorre scalare se stessi, come direbbe Silesius, per giungere alla vetta, dalla cui sommità l’occhio dilaga nelle sue remote lontananze. Non ci può essere maggiore distacco dall’industrioso formicolìo delle società moderne.
***
SECONDA PARTE – LE STRADE DELLA LEGGEREZZA
Le vie filosofiche che conducono alla leggerezza non possono però essere fughe nell’irrazionale, e nemmeno distacchi solipsistici dalla realtà, quanto piuttosto percorsi di crescita interna: la tanto sbandierata “crescita” – la cifra delle magnifiche sorti e progressive, l’espansione del Pil, della potenza nazionale, delle masse e dei loro consumi – viene qui rovesciata nel suo opposto: una perenne crescita interiore.
Ma una “crescita interna” evoca di per sé strade singolari, al massimo nicchie di piccoli gruppi scavati nella roccia tetragona della società pesante e satura: come si può far crescere dall’interno – rendere sottili i corpi, secondo la dialettica lucreziana – un’intera massa, una collettività sterminata, un globo così affollato?
Qui si manifesta chiaramente l’attuale crisi politica, che più che crisi assomiglia ad una débacle su tutta la linea: se manca una dialettica, se mancano delle alternative, se le società sono opache e chiuse in se stesse, quasi macchine destinate a ripetere indeterminatamente i propri schemi – che senso hanno la politica, i suoi progetti, le sue idee?
D’altro canto non vedo in questo momento una via di uscita etico-politica dalla società pesante, una società che procede per sole accumulazioni.
Mi limiterò quindi ad indicare le parole chiave di una strada interna al sistema – una sorta di segnavia [Wegmarken], per usare un termine di sapore heideggeriano – una strada che non intende raggiungere alcuna meta, perché non si intravvede ancora un “fuori” dal sistema, e che dunque ha il solo scopo di provare a fare spazio, vuoto attorno, e di incrinarne la compattezza. O per lo meno di mostrarlo per quello che è: un orrido mostro che tutto fagocita. Questi i concetti che brevemente illustrerò:
indifferenza, ozio, notte, abbandono, misticismo, impersonale.
Indifferenza
È un termine quantomai ambiguo. Tutto ci spinge a non essere indifferenti, c’è una pressione sociale enorme ad attivarsi, fare cose, intervenire, essere attori, al centro, non lasciar correre, non astenersi mai dal giudizio. Essere indifferenti è un vizio, un peccato grave – anche se poi le società di massa sono edificate essenzialmente su una forma generale di indifferenza e di atomismo, come ci dimostra il folle viavai di una metropoli. Come puoi interessarti a tutto e a tutti? Come puoi non essere indifferente nei confronti della maggior parte delle cose che esistono e accadono, quando vivi in una dimensione di perenne saturazione ed iperstimolazione? Proprio queste ultime inducono all’indifferenza – ma qui si tratta di un’indifferenza causata da esaurimento ed esaustione.
L’indifferenza virtuosa è altra cosa: ce ne dà un plastico esempio Angelus Silesius in uno dei suoi epigrammi: “Indifferenza [Gleichschätzung] dona pace: se ogni cosa tu accogli indifferente [unterscheid], vi sia amore o dolore, quieto resti”. È una indifferenza che è uguaglianza, che intende le differenze come costituite su un piano orizzontale, privo di gerarchie (e di importanza o supremazie): ogni cosa ha eguale valore, ogni cosa è egualmente destinata alla rotazione degli esseri, ad emergere e a sprofondare nell’indistinto.
Potremmo connettere questo tipo di indifferenza ad un togliersi dal centro, alla lateralità, alla discrezione (Pierre Zaoui ne L’arte di scomparire, aveva indicato alcuni modi di vivere con discrezione): se nessuno è al centro, se non ci sono centri, c’è un’uguaglianza profonda, ontologica, che pone le cose, gli esseri, i viventi su un medesimo piano di immanenza.
Gli umani stabiliscono differenze – innanzitutto in sé e tra sé e l’altro. Probabilmente non si può vivere senza questa dialettica, senza questo gioco identitario, una differenziazione che ha profonde ragioni geostoriche, culturali, biologiche – ma è esattamente ciò che più di ogni altra cosa ci turba, ci rende inquieti, angosciati, finanche disperati. Che non ci piega e non ci fa arrendere di fronte alla più grande delle forme di indifferenza – la morte.
L’indifferenza è insieme un alleggerimento mentale, esistenziale, e l’accettazione dell’inevitabile dialettica tra vita e morte. Essere vivi equivale ad essere morti. Non c’è differenza.
Ozio
Anche l’ozio, così come l’indifferenza, viene additato a comportamento vizioso, da sanzionare e reprimere. Certo, un’importante frazione del tempo di lavoro – la fatica contadina, e in parte anche quella operaia – sembra essere stato liberato: le giornate lavorative si sono accorciate, vengono garantite le ferie, le vacanze, la pensione, il meritato riposo. Il lavoro e la fatica non appaiono più come necessità che ottundono le menti e distruggono i corpi: il quadro fosco mostrato da Marx di operai alienati, deformati, rincretiniti, resi imbecilli dalle macchine, e di fanciulli maciullati, sembra una reliquia del passato – per lo meno nelle parti più “avanzate” del sistema produttivo globale. Eppure… come ha giustamente messo in rilievo Byung-chul Han, viviamo in una vera e propria “società della stanchezza”, dove il tempo di lavoro nonché ridursi si è in realtà dilatato fino a comprendere l’intera esistenza. Nell’epoca dell’iperconnessione – e dell’iperstimolazione – non ci sono più confini netti tra lavoro e tempo libero, tra fatica e ozio.
Certo, ci sono narrazioni, specie pubblicitarie, che dipingono una squisita e desiderabile apologia dell’ozio, per quanto non sia mai quella la parola nominata: tempo libero, viaggi, relax, macchinoni che sfrecciano in lande deserte, movide e godimenti vari… Ma tutto questo deve essere conquistato e soprattutto meritato, e non può essere reclamato dall’uomo ozioso, dal pigro, dall’indolente, dall’accidioso.
Ecco perché è ormai tempo di riesumare l’oblomovismo, ben più delle tradizionali apologie dell’ozio, da Seneca a Bertrand Russell – che tutto sommato rimangono innocue e compatibili con la società dell’iperproduzione e dell’iperconsumo. Anche se l’ozio – che necessita di tempo, quiete, spazio, ecc., ovvero i veri beni di lusso della nostra epoca, come ben ci ricordava già alla fine del secolo scorso Enzensberger – è appannaggio di pochi privilegiati.
Ma l’accidia, la pigrizia, la radicale indifferenza verso i valori del produrre e del consumare, possono essere dei veri e propri cortocircuiti non ben tollerati dalle società iperattive. Oblomov è senz’altro l’eroe di questo modello – anche se un eroe decisamente malinconico e poco attraente. Goncarov ce lo mostra nella prima parte del romanzo, per oltre 200 pagine, in procinto di alzarsi e di prepararsi ad uscire, indeciso, titubante e piuttosto propenso a tornare sempre a sdraiarsi sul letto o sul sofà. Oblomov critica radicalmente le “smanie del mondo”: «Dietro questa smania di occuparsi di tutto si nasconde il vuoto, la mancanza di simpatia per qualsiasi cosa».
Contro i tedeschi “borghesi dalle maniere angolose, dalle mani grandi e rosse”, “impiegati con una faccia da giorni feriali”, il sogno di Oblomov è quello dell’ “estate eterna” e della dolce indolenza – il sogno dell’infanzia che si ostina a coltivare nell’intimo.
Certo, questa ritirata ha dei prezzi altissimi: Oblomov finisce per rinunciare, almeno in parte, all’amore – o meglio, al grande amore, perché Olga, l’amore romantico, cede il posto alla più dimessa e discreta Agafja, di cui ci vengono continuamente mostrati i gomiti in movimento. Oblomov si consegna quindi ad un’operosità discreta, pratica, femminile, rinunciando definitivamente al mondo, alla ricchezza, all’accumulazione, al successo.
E alla fine le sue virtù ci appariranno nella loro semplicità e purezza: un cuore onesto, pulito, limpido e fedele: nonostante la sua rinuncia a vivere, “il suo cuore non ha mai emesso una nota falsa, il fango non l’ha toccato”. Il’ia Il’ic Oblomov – deve ammettere infine il suo più grande amico, il tedesco ed operoso Stolz – è un’anima di cristallo trasparente, una perla rarissima. La sua più grande facoltà è stata la leggerezza, il non accorgersi della vita, il non sentirla.
Notte
Uomo sii attento!
Che dice la mezzanotte profonda?
[…] Profondo è il mondo,
e più profondo che nei pensieri del giorno.
Sia Mahler che Strauss hanno utilizzato questi versi di Nietzsche, posti in più punti del suo Zarathustra, come già sappiamo una delle opere-chiave dell’anti-gravità: solo la rarefazione poetica e l’allusività musicale sembrano in grado di penetrare – non di risolvere – il mistero della notte, del buio, dell’oscurità.
La nostra epoca ha del tutto rimosso e dimenticato la notte – e, insieme ad essa, la profondità del mondo, il mistero, l’ignoto. La notte è fatta identica al giorno: è chiassosa e illuminata. Satura di luci, di rumori, di stimoli. Tutto nelle nostre vite deve essere illuminato – sembra quasi il rovesciamento grottesco di uno dei più grandi doni della modernità, quell’illuminismo che doveva dissolvere le tenebre dell’ignoranza, della superstizione, della soggezione, ha finito per rischiarare ogni cosa e togliere quasi lo spessore, la densità, l’umbratilità dell’essere e delle sue forme più misteriose.
Non sopportiamo più il buio, l’oscurità, il suo silenzio, anche la paura che dalla note promana, e siamo trafitti da ben altre fobie artificiose.
Allora, per tornare ad apprezzare la profondità del mondo, la sua interiorità abissale, dobbiamo rivolgerci al più paradossale dei doni: quello della cecità, così come ci è stato ad esempio testimoniato dal teologo australiano-inglese John Hull, nel Dono oscuro.
Dopo un’accurata autoanalisi del nuovo mondo percettivo, del nuovo modo di relazionarsi a cose e persone e della nuova coscienza che il tunnel della cecità reca con sé, Hull ci introduce all’ultimo passaggio della sua esperienza, una sorta di “ontologia della cecità”: con la crescita della neocoscienza, l’apparenza delle cose perde di significato, ciò che prima era in primo piano ora è ai margini, ciò che per i vedenti è importante per un cieco non lo è più e spesso diventa irrilevante. È nelle ultime pagine del diario che compaiono considerazioni di questo tenore. Hull si interroga infine sul senso delle cose, della sua stessa cecità: la provvidenza, il “vedere davanti a sé”, dovrebbe in realtà essere rovesciata in “retrovidenza”. Gli accidenti, la contingenza, accadono all’interno di un campo di possibilità, e solo quando sono accaduti noi vi possiamo trovare un senso, non certo prima. La cecità è uno di questi accidenti contingenti: un secolo prima Hull avrebbe perso la vista fin da bambino, un secolo dopo probabilmente sarebbe stato curato – la cecità non è né una scelta né una colpa o qualcosa che sia stato inflitto, fa solo parte di quel vasto campo di possibilità. Ecco perché, essa, può avere un senso.
Di più: nelle ultime note compare la parola “dono”. Una parola faticosa, dato che implicherebbe accettazione, ben più rassegnata della convivenza. Ma la connotazione con cui la parola dono si presenta è spirituale, come se si trattasse di una forma di purificazione, una catarsi, quasi un’anticipazione della morte – un radicale alleggerimento dell’esistenza, pur dopo essere sprofondati nel più nero dei pozzi (la figlia Lizzie qualche giorno prima aveva evocato l’immagine angosciosa del pozzo da cui non si può più riemergere).
Hull cita Franz Brentano, che ha scritto le sue migliori opere durante la cecità: un dono che non può essere augurato a nessuno e che però non si può rifiutare. Ben strano come dono.
Ma occorre andare più a fondo, di nuovo. Perché la cecità è solo un involucro, forse è il vettore di qualcos’altro, e il dono sta più in profondità, oltre la stessa cecità. L’indifferenza di vita e di morte, di luce e oscurità, tutto e niente – è forse questa indifferenza l’altrove verso cui siamo orientati da quel dono oscuro.
Profonda è la notte.
Abbandono
Il grande mistico e poeta tedesco Angelus Silesius evoca nel Viatore Cherubico il sentimento dell’abbandono, e lo denota come il più arcano abbandono – Die geheimste Gelassenheit – senonché è dio il soggetto di questo abbandonarsi, lasciarsi, che solo pochi intendono. Ma non c’è differenza tra io e dio, nella visione mistico-dialettica di Silesius: l’uomo, alternandosi con dio, esce, muore, non fa nulla, non è nulla – si abbandona. Ed è solo chi si abbandona – e chi è abbandonato – ad essere libero. Non solo, in uno dei suoi versi più belli, Silesius scrive:
Troppo non occorre per essere felici.
Vuoi essere felice eternamente?
Basta un’erba soltanto: l’abbandono.
Un esempio estetico (che è anche ontologico) di questo eclissarsi – della Gelassenheit, fin quasi al dissolvimento – è dato dalla chiusa dell’Adagio finale della Nona Sinfonia di Mahler (e più in generale dall’intera produzione mahleriana degli ultimi anni): i suoni delle ultime note dei violini e delle viole si fanno sempre più struggenti, per poi spezzarsi, frantumarsi, illanguidirsi, fino a diventare trasparenti e a confondersi con ogni cosa.
Si potrebbe interpretare questa Gelassenheit, questo abbandono e ritrarsi dai rumori del mondo, questa melancholia esistenziale, come una forma radicale di rinuncia – l’autoeclissarsi di un’anima che non è più in grado di reggere il peso del mondo.
Siamo di fronte ad un suono e a una forma musicale inauditi, che aprono il Novecento, nel tentativo di descrivere uno stato d’animo – quello che dalla mente, dai nervi e dal cuore malfunzionante di Mahler, attraverso un complicatissimo sistema di rielaborazione/produzione/affinamento, quasi una serie infinita di alambicchi, arriva infine al nostro orecchio, al cuore e al cervello – un distillato musicale purissimo e rarefatto. A dirci la frammentarietà, la bellezza struggente, la melancholìa dell’esistenza. Che si dissolve, alla fine, in quell’Adagio che – come ha scritto Webern in una lettera a Schönberg – «propriamente non si conclude; sempre più lento, sempre più ampio, sempre più tenero, senza fine». «Un pianissimo di infinita delicatezza, una disgregazione e rarefazione tesa alle soglie del silenzio […] Le ultime note sembrano quasi suoni isolati che svaniscono nel nulla» (P. Petazzi, Le sinfonie di Mahler).
O che, potremmo dire, sfociano in un altisonante silenzio – l’ossimoro insostenibile che talvolta ci squassa l’anima. Quel silenzio estremo e leggerissimo da cui, forse, un giorno, risorgerà ancora un suono nuovo e diverso – ma che per ora ci tiene sospesi alla bacchetta del direttore d’orchestra che non s’abbassa, e non sembra intenzionata a farlo. Come se presentisse che quella è l’ultima nota, l’ultimo suono, il limite estremo del cerchio dell’esistenza, superato il quale sarebbero il nulla e l’insensatezza a vincere.
Ma, di nuovo: apprendere l’arte della dissolvenza significa pulsare e risplendere insieme ai viventi di questo pianeta, agli enti e agli esseri tutti. Sdraiarsi sull’erba verdissima dell’abbandono – alla medesima altezza di tutte le creature.
Misticismo
C’è ovviamente un pericolo che serpeggia nella selva oscura e fascinosa di questo linguaggio misticheggiante: dietro il mistero, l’abbandono, l’ignoto, la quiete della notte, il dileguarsi, l’inazione – fanno capolino la rinuncia e la rassegnazione.
Il mondo è pesante, saturo, ingombro, complicato, irriformabile, ed è dunque più semplice rinunciare a cambiarlo: un perfetto esempio di pensiero reazionario – oggettivamente reazionario, a prescindere dalla volontà soggettiva. Una riproposizione, per altri aspetti, di pensiero debole.
Tradizionalmente, le correnti di pensiero marxiste, socialiste, comuniste, rivoluzionarie, e più in generale l’ideologia del progresso – del progresso sociale, materiale e culturale che riguarda tutta l’umanità, non certo solo una sua parte privilegiata – guardavano con sospetto ogni corrente misticheggiante, bollandola di irrazionalismo, e di intelligenza col nemico.
Oggi le carte si sono parecchio rimescolate, e dio solo sa se è chiaro che cosa si debba intendere per progresso, reazione, destra e sinistra. Ma proverò a riprendere brevemente questo discorso più specificamente politico nell’ultima parte di questo scritto, servendomi di alcune suggestioni di Simone Weil (anch’essa, non a caso, approdata ad un esito mistico del suo pensiero).
Il misticismo è stato visto per lo più, almeno in epoca moderna, come una via di fuga dal reale, dal razionale, dalla materialità dell’esistenza, e anche dalla partecipazione alla storia collettiva delle sue trasformazioni. Il misticismo è una forma radicale di isolamento, di solitudine, uno sprofondare in sé senza alcun esito che non sia una meditazione compulsiva e inconcludente. Vero è che la via mistica – una via di radicale alleggerimento, che ingloba in sé gran parte dei discorsi fatti fin qui – è innanzitutto una via singolare, una pratica individuale, un’ascesa da solo a solo, come viene indicata, tra i primi, da Plotino.
Ma è di nuovo Silesius a risolvere in pochi essenziali versi i nostri dubbi in proposito:
Nulla è per se stesso.
Non per sé l’acqua piove o il sole illumina:
non per te sei creato, ma per gli altri.
Se è quindi vero che “i beni terrestri sono un peso”, che il mondo è fardello, che noi e i nostri desideri siamo carcere a noi stessi; che occorre fluire e trasmutarsi, e che senza questa trasmutazione ed elevazione – questo esser luce – restiamo piombo e merda; che il lavoro essenziale deve essere fatto dentro noi stessi, scoprendoci, scalandoci, sprofondando in noi, interiorizzando, guardando dentro prima che fuori, concentrandoci sull’essenziale; se tutto questo è la premessa, anzi la strada che ci conduce a noi stessi, non finisce tutto in noi, ma nell’essere ponti ed arcate verso gli altri. Non per te sei creato, ma per gli altri: l’amore divino ed umano – era anche l’insegnamento di Spinoza – trova il suo compimento nella socialità, nel con-essere, nella comunanza profonda con tutti i viventi.
Il misticismo è una via al comunismo.
Impersonale
Un pensiero che mette radicalmente in discussione le categorie politiche della modernità è quello “impersonale” di Simone Weil. Poco sopra ho espresso tutto il mio scetticismo – che in verità non è mio, ma condiviso da molti – nei confronti del “politico”; eppure una via alternativa ci viene indicata da Simone Weil, proprio nel mezzo della duplice tempesta nella quale si compie la sua breve vita, una meteora nel corso della prima metà del Novecento: la guerra intorno a lei, la svolta mistica in lei.
È interessante notare come proprio il percorso mistico abbia consentito alla Weil di rilevare l’inconcludenza, se non il fallimento, della politica rivendicativa – quella dei “diritti” – portata avanti dai partiti, dai sindacati, dai movimenti, nati proprio per risolvere una volta per tutte la questione dell’ingiustizia e della disuguaglianza.
In uno dei suoi ultimi saggi – La persona e il sacro [La personnalité humaine, le juste et l’injuste] scritto agli inizi del 1943, pochi mesi prima di morire – troviamo un vero e proprio manifesto etico-politico, una miniera del suo pensiero da esplorare con attenzione. Proviamo a riassumere per sommi capi i temi che qui ci interessano, a compimento del percorso fin qui fatto:
a) l’ambito politico non solo non risolve la mancata dialettica tra gravità e leggerezza (rispettivamente pesanteur e grace nel linguaggio weiliano), ma anzi ne amplifica la portata: tutti i movimenti di massa del ‘900 saturano la storia, il collettivo fagocita ogni istanza, e sussume in una dinamica totalizzante (non necessariamente totalitaria) l’individuale e il personale;
b) i diritti – derivanti dalla concezione giuridica romana – sottostanno ad una logica proprietaria e spartitoria, destinata ad escludere perennemente una parte di umani. Scambio, quantità, forza, prestigio sociale, privilegi: sono gli elementi essenziali della giuridicizzazione integrale dei rapporti umani, che racchiudono sempre “una guerra latente e destano uno spirito bellicoso”;
c) solo l’impersonale – una fuoriuscita radicale dal massivo e dal collettivo, ma anche dai correlati individuali – costituisce un’alternativa volta a prendere in carico il problema dell’umiliazione universale, del male, dell’irrelatezza, della disuguaglianza tra gli esseri umani (e gli esseri tutti);
d) prendersi cura dei singoli è fare in modo che essi non sprofondino nel collettivo, non vengano massificati e omologati, e che possano respirare e accedere alla dimensione del sacro e dell’impersonale;
e) ma che cos’è l’impersonale? e che cosa il personale in relazione all’impersonale? Weil vola alto: «La verità e la bellezza [ma anche la giustizia e la compassione] abitano questo ambito delle cose impersonali e anonime. Ed è questo ambito ad essere sacro». Interessante anche la scelta del termine “anonimo”: le cose alte non hanno nome, proprietà, possibilità di essere spartite o ridotte ad altro. L’impersonale-sacro (poco importa che abbia a che fare col divino) è ciò che è attingibile da chiunque. Ma come arrivarci? cosa occorre fare per favorire la crescita e la germinazione dell’anima impersonale?
f) esattamente il contrario di quello che fanno la società, lo stato, i partiti, i sindacati, le chiese, le organizzazioni collettive della modernità – essenzialmente demagogiche e propagandistiche. Affinché le persone – e massimamente i miseri e gli sventurati – possano esprimere se stessi, liberare quella loro particella intima e conculcata da ingiustizie millenarie, hanno bisogno di:
-avere spazio intorno a sé – cosa che nelle società affollate, sempre più sature, risulta pressoché impossibile
-avere “tempo libero”, laddove tutto diventa tempo di lavoro, di produzione e di consumo
-gradi di attenzione sempre più elevati: che fine ha fatto oggi la capacità di concentrarsi, di meditare, di ritrarsi dal chiasso e dal chiacchiericcio?
-solitudine e silenzio – il compendio dei punti precedenti
-ma, conclude Weil, soprattutto occorre che la persona «sia avvolta dal calore, affinché l’afflizione non la costringa a sprofondare nel collettivo». E come controesempio cita l’esperienza – che lei conosce in prima persona – della fabbrica, col suo gelido tumulto non lontano dalla soglia dell’orrore;
g) è l’idiota, il puro, il bambino, lo sventurato a poter oltrepassare la soglia dell’impersonale, ed è questo il vero genio, diverso dal talento e dall’intelligenza: «non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento; senza aver soggiornato a lungo in uno stato di estrema e totale umiliazione». Il richiamo all’ascesi mistica è qui più che evidente: sventura, umiliazione, annichilimento: «tutti gli sforzi dei mistici hanno sempre mirato a ottenere che nella loro anima non vi fosse più neppure una parte che dicesse “io”».
Weil non ha da offrire un programma politico articolato, anche perché ricadrebbe inevitabilmente nella logica spartitoria dei diritti; ma ha in testa idee chiarissime sul punto di vista radicalmente altro che occorre assumere. Ce ne offre alcune suggestioni attraverso vere e proprie metafore della leggerezza: le immagini evangeliche del granello di senape o del lievito nella pasta, oppure quella del grammo che su un braccio lunghissimo della bilancia può sovrastare il chilogrammo.
Dio, verità, giustizia, amore, bene sono parole “pericolose”, laddove diritto, democrazia e persona sono più “comode”. Eppure non sembrano aver prodotto un ordine più giusto, anzi! L’ordine nuovo da ricercare – conclude Simone Weil – non può che essere impersonale e divino, e le istituzioni che lo possano incarnare devono ancora essere “inventate”, compito quasi impossibile ma indispensabile se vogliamo evitare che le anime vengano schiacciate e distrutte dalla pesantezza, dalla bruttezza e dalla menzogna.
Il pensiero di Simone Weil si chiude con la stessa ansia esistenziale di ricerca con cui si era aperto: la levità della grazia che tenta di ergersi sul destino della pesantezza, una goccia di splendore in un mondo tragicamente cupo, una vera e propria “irradiazione dello spirito”: «la materia pesante è in grado di salire e andare contro la gravità solo nelle piante, grazie all’energia del sole che, captata dal verde delle foglie, opera nella linfa». Come possiamo noi umani fare come gli alberi, radicarci in cielo?
Sazietà di giorni
Ma c’è un ulteriore passo da fare, sulla strada della leggerezza, il passo finale e definitivo: ravvivare e rilanciare la dialettica vita/morte – o comunque una visione dialettica, conflittuale, metamorfica, molteplice della vita e della storia – si traduce nel vivere l’esistenza come preparazione alla morte. O una morte come elemento imprescindibile del vivere: l’essere è traforato di nulla, è poroso, così come viene concepito da Lucrezio – ed è proprio il filosofo romano ad indicarci la strada di una equilibrata convivenza con la morte.
Se il suo maestro Epicuro, e successivamente Spinoza, vorrebbero mettere ai margini la morte, rendendola inesistente o alleggerendo la vita del suo peso – «L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte: e la sua saggezza è una meditazione della vita, non della morte», è la raccomandazione di Spinoza nell’Etica – Lucrezio è molto meno ottimista in proposito: è proprio sulla caducità delle cose che insiste nella sua opera, tracciando quella che ho sopra definito “leggiadria del disfacimento”. Le medesime forze invisibili che determinano la composizione e la nascita delle cose, che le fanno muovere ed evolvere, ne decretano anche la distruzione.
Chi è sazio di vita – la biblica sazietà di giorni – non dovrebbe affatto lamentarsi, e proprio questo appagamento dovrebbe indurlo ad accettare con serenità la finitezza della vita; di converso, chi dovesse avere in odio o in uggia la vita, perché mai dovrebbe volerne prolungare l’ingrato tramonto? Una delle forme di maggior pesantezza della contemporaneità è proprio il sogno ostinato dell’immortalità: quel che un tempo era materia letteraria, mitologica o fantastica, è divenuto oggi un desiderio realizzabile tramite la tecnoscienza. La medicalizzazione della vita ne è un potenziamento quantitativo indefinito, peraltro risibile ed inutile.
Abbiamo insomma rimosso la nostra profonda appartenenza alla natura e alle sue ferree leggi: «la vita – scrive Lucrezio – non è data in possesso ad alcuno, ma in uso a noi tutti», e ciò accade nel consumarsi di un attimo a fronte del duplice eterno che ci precede e che seguirà alla nostra scomparsa.
L’atto finale del nostro segnavia è così l’attesa della morte come forma apicale di leggerezza: se vivere è anche preparazione della morte, non può non accompagnarsi ad una costante sensazione di leggerezza, l’ironica consapevolezza che ci attende infine la massima forma di alleggerimento cui siamo destinati. Ciò che alcuni filosofi, poeti o scrittori hanno rappresentato come una vera e propria trasfigurazione della corporeità in luminosità – una luce che però non saprà resistere alle tenebre dell’indeterminato. Che pure non potrà impedire di vivere pienamente: anzi, è proprio questo sentirsi traforati dal vuoto, dalla coscienza della finitezza, dalla mortalità, ciò che rende la vita bella e degna di essere vissuta. Una traccia di luce e vento nel mezzo di un cosmo gelido ed insensato.