Partiamo dall’evidenza storica e sociologica dell’assoluta prevalenza del collettivo sul personale – che, come dice Simone Weil, è un fatto meccanico, come la prevalenza del chilogrammo sul grammo di una bilancia.
Ma, appunto, si tratta di una prevalenza quantitativa, di un fenomeno materiale, non spirituale. Per quanto l’anima bella non possa nulla contro il corso del mondo, salvo autoeliminarsi e confermare una volta di più la propria ininfluenza, vi sono forme e gradi diversi di “resistenza” (o “resilienza” come è ora di moda dire) che attengono a tattiche o strategie di adattamento.
Adattamento è diverso da adeguamento o conformazione-conformismo – è un gesto di un maggior grado di coscienza, e se è vero che il suo ambito specifico è quello della biologia, in ambito sociale ha la forma di una resa vigile e provvisoria con diverse tipologie di manifestazione: dall’attesa alla sospensione del giudizio (epoché) fino alla soluzione estrema del rifiuto di Bartleby.
Ovviamente stiamo parlando di posizionamenti individuali, necessitati dalla mancanza di resistenze collettive organizzate: quando il singolo di una comunità è convinto che in quella comunità non ci siano possibilità di modificare l’ordine sociale, perché quell’ordine è stato in grado di assorbire e di far sprofondare in sé la quasi totalità degli individui, allora si rivolge a sé e cerca in se stesso risorse ed energie straordinarie per resistere alle pressioni dell’omologazione. In attesa che:
a) si aprano crepe nell’ordine dato
b) emergano forme collettive di resistenza con prospettive di cambiamento.
Naturalmente c’è sempre la possibilità che nel frattempo il singolo dissenziente soccomba o decida di rassegnarsi. Ecco: l’adattamento (e le forme di resistenza alla Bartleby) sono del tutto scevre di sentimenti ed emotività, anche perché generate da una scissione empatica con la comunità (persino con la sfera affettiva più intima).
Rassegnarsi, adeguarsi, conformarsi oppure ribellarsi, comportano posizionamenti emotivi determinati: scoramento, depressione, rabbia, disperazione, indignazione, indifferenza, noia, indolenza, ecc. – mentre l’adattamento tattico, la sospensione vigile dell’azione e del giudizio, sono forme acuminate di pura razionalità.
All’estremo opposto vi è il destino di Bartleby, anch’esso di grande interesse in questo frangente. Il suo “preferirei di noi” (I would prefer not to), è una forma di negazione obliqua, sfuggente e spiazzante, non catalogabile e, in ultima analisi, priva di senso. Senonché è piuttosto un radicale disadattamento: Bartleby è il disadattato che finisce per farsi fuori.
Mentre l’adattamento, proprio per la sua profonda origine biologica, appare connesso ad un solido sostrato ontologico – è il flusso vitale che muta metamorficamente in relazione agli ambienti, sia naturali che sociali, sia esterni sia interni a quel condominio di cellule che è l’organismo individuale. Come sostiene Darwin, non è la specie più forte o più intelligente a sopravvivere, ma la più adattiva e predisposta al cambiamento. Certo, le specie, o meglio le linee vitali hanno tempi dilatati, mentre le società dei sapiens si muovono secondo archi temporali brevissimi, battiti di ciglia se paragonati ai tempi biologici. Nel caso umano è però la coscienza che prova a forzare e a dirigere questo flusso, compatibilmente con le forze e gli ostacoli e gli stati necessitanti: l’esito non è tanto che sopravviverà il più adatto, ma che dall’adattamento potranno sorgere motivi ed energie insospettabili. Un’accumulazione silente di risorse che potrà dar luogo a scenari inediti, persino a una nuova idea di comunità. O anche ad uno scacco definitivo: ci si muove sul filo della possibilità.