“Innumerevoli forme e meravigliose”

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La vita ha qualcosa di inafferrabile. Fa parte di quella categoria di concetti che, per l’eccessiva generalità o profondità, sfuggono alla possibilità di essere definiti – un po’ come succede coi concetti di essere o totalità o natura: tutti sappiamo che cosa si intende con quei termini, ma volendoli definire ci si avvolge in difficoltà… tipicamente filosofiche. «Benché sperimentiamo la vita quotidianamente – scrive il chimico e divulgatore scientifico Jim Baggott – e siamo in grado di riconoscerla facilmente quando la vediamo, in effetti non sappiamo davvero che cosa essa sia».
Nel caso del fenomeno della vita, è stata la scienza a prendere il sopravvento in epoca moderna (già era successo con il mondo fisico, lasciando alla filosofia le briciole dei concetti poco interessanti per la vita pratica degli umani). Per la biologia moderna la vita diventa un problema da risolvere, mentre per la filosofia rimane un enigma che non può essere sciolto. Noi qui ci occuperemo innanzitutto del problema, lasciando ai margini l’enigma (e il fascino del mistero), anche se vedremo come nel linguaggio scientifico finiscano poi per ricorrere termini e categorie di ordine filosofico.

Proviamo ad evocare alcuni di questi termini utilizzati per catturare quel fenomeno particolare della natura (dell’essere o del mondo così come ci appare) che definiamo vita, a partire soprattutto da una opposizione con ciò che non è vita (l’inerte, l’immobile, l’inorganico, il disorganizzato, l’artefatto, ecc.), e da una strategia squisitamente riduzionistica.

1. Meccanicismo
A tal proposito il fenomeno della vita viene costantemente ridotto ai suoi elementi essenziali: atomi, particelle, molecole, cellule, geni, proteine, ecc. Questo processo riduzionistico, al di là dell’inevitabile semplificazione, ci dice però una cosa molto interessante: la vita è, in primo luogo, un processo unico e unitario, retto dalle medesime dinamiche in ogni suo aspetto: espansione e ripetizione, flusso costante di linee che però deviano verso continui mutamenti. Essa appare un unico meccanismo apparentemente ordinato.
Era quel che pensava Cartesio, che concepiva il corpo in termini di macchina-automa, e la coscienza come un’anima da innestare (e spiegare) successivamente: due sostanze, la materia estesa e quella invisibile e pensante, che costituiscono l’intero piano della realtà (ciò che permise ad esempio di ridurre i corpi di pressoché tutti i viventi, animali e piante, a puri meccanismi senz’anima).

2. Ordine
Se la fisica novecentesca ci presenta sempre più una realtà probabilistica, aleatoria, dominata dal disordine e dall’indeterminazione (per lo meno a livello atomico), la vita appare come una sorta di barriera a questo disordine, se è vero che sembra mettere in discussione (o tra parentesi) la seconda legge della termodinamica e l’inevitabile aumento di entropia dei sistemi, in favore di un equilibrio omeostatico.
Fu proprio il fisico Erwin Schrödinger nel celebre saggio Che cos’è la vita? (1944) a confrontare questi due livelli radicalmente diversi della realtà: le leggi della fisica, e del mondo infinitamente piccolo dell’atomo, sono leggi di tipo statistico che «hanno moltissimo a che fare con la naturale tendenza delle cose a passare in uno stato di disordine completo», laddove la vita, al contrario, sembra essere “un ordine basato sull’ordine”, un ordine interno che tende a conservarsi indefinitamente. La materia vivente, grazie alla sua capacità di alimentarsi di “entropia negativa” tramite il sistema dello scambio e del metabolismo, resiste al decadimento in uno stato di equilibrio inerte (uno stato di morte). La conclusione è che l’organizzazione si mantiene estraendo l’ordine dall’ambiente: i viventi hanno la sorprendente capacità di nutrirsi di ordine e di concentrare su di sé un flusso organizzato che impedisce loro di precipitare nel caos atomico.
Ciò che consente questo salto è l’organizzazione biochimica e molecolare.

3. Origini
Si pone qui il problema delle “origini” della vita e del salto ontologico che questo ha comportato. Il corposo saggio di Baggott Origini, edito in Italia nella collana scientifica di Adelphi (2017), ce ne fornisce un interessante quadro, anche perché l’intero lavoro si articola su tutti i passaggi cruciali dell’origine della realtà in tutte le sue stratificazioni, dal Big Bang (origine di spazio, tempo ed energia), fino all’origine della coscienza, un lungo processo nel quale l’origine della vita occupa un significativo posto e un aspetto quantomai enigmatico. Ma la scienza, come sappiamo, non ragiona per enigmi, e prova ad immaginare soluzioni logiche anche in assenza di prove definitive: il problema è che noi non abbiamo mai assistito, nemmeno in laboratorio, alla nascita della vita (un grande sogno letterario), e possiamo solo fare supposizioni e costruire ipotesi. Il tassello mancante riguarda proprio la cosiddetta abiogenesi, «ovvero la generazione spontanea della vita a partire dalla chimica complessa non vivente», evento che dovrebbe essere capitato tra i 3,5 e i 4,4 miliardi di anni fa. “Capitato”, prima espressione significativa; 900 milioni di anni, lasso temporale altrettanto significativo: la vita è nata per caso in un arco di tempo enorme, per noi quasi inconcepibile. Il come è oggetto di strabilianti congetture (quella delle bocche idrotermali, in fondo agli oceani, è una delle più plausibili al momento, mentre ha perso punti la tesi esogena, ovvero l’arrivo della vita dallo spazio, che comunque rinvia la spiegazione: come nasce la vita su un altro eventuale pianeta?).
Baggott ritiene però che il caso qui c’entri poco: la probabilità statistica che nascesse la vita era comunque elevata e, soprattutto, una volta nata dal brodo chimico primordiale, i suoi elementi organizzativi l’hanno resa una sorta di “imperativo cosmico” (il termine è del biochimico René). Dall’essere non si torna indietro.

4. Contingenza
Ciò sembra concordare con le conclusioni di un altro grande biologo, Jacques Monod, che vede nel fenomeno della vita una straordinaria occorrenza di caso e necessità: se è cioè ragionevole sostenere che la vita sia sorta per caso (non a caso, visto il suo rigoroso retroterra chimico-molecolare), o meglio, per ragioni contingenti date – una volta formatasi si mostra come una organizzazione ferrea. Un vero e proprio ordine generato da un lancio chimico-molecolare di dadi. Lo sfondo “metafisico” di questa concezione mette radicalmente in discussione ogni idea “animistica” o “spiritualistica”: Monod conclude il suo saggio scientifico con alcune considerazioni sull’angoscia e la solitudine nel quale la scienza moderna ha inevitabilmente gettato l’uomo, uno “zingaro” che si trova ai margini di un universo gelido e indifferente. Non c’è alcun piano, non c’è alcun disegno, nemmeno quello di un’intelligenza o di una forza cosmica – come ad esempio pensava Anassagora, con la sua idea di nous.

5. Organismo
Ciò non toglie che Monod abbia della vita una visione deterministica: in primo piano – specie con la biologia molecolare, la biochimica o la genetica – si stagliano i concetti di organismo e di teleonomia: la vita, cioè, si autoorganizza in vista di un fine (telos, in greco), di un disegno che se non è preformato o prestabilito dall’esterno (da un dio o da una forza intelligente), ha però un suo ordine meccanico determinato. Il genoma, secondo questa visione, è il codice pre-scritto che ordina la vita, le dà una forma, un’organizzazione, una direzione: esso sembra essere lo scrigno che ci rivela il suo segreto più profondo, un segreto che non ha nulla di spirituale, ma che è banalmente biochimico.

6. Forma
Senonché negli ultimi anni si stanno facendo avanti teorie critiche di questa visione essenzialistica, che cioè vede nella vita un processo ordinato, determinato: vi sarebbe cioè dietro questo modo di vedere la vita (e più in generale la natura) un “peccato ontologico originario” che deriva dalla visione aristotelica: è il concetto di forma che deve essere messo in discussione, e che dopo oltre due millenni perdura, specie in ambito biologico.
Aristotele può essere ritenuto il primo grande biologo della storia occidentale: nel corso della sua vita di studioso e dell’attività nel Liceo da lui fondato, sono molte le testimonianze di questo profondo interesse per le creature viventi, gli animali e i loro organi, la catalogazione delle piante, la fisiologia, l’incredibile varietà e ricchezza della vita, e così via.
Aristotele dà una spiegazione dei processi naturali attraverso quattro cause: efficiente, materiale, formale e finale. Se la prima è stata l’unica che si è trasmessa alla fisica moderna, secondo il biologo ed epistemologo Jean-Jacques Kupiec i concetti di forma e di causa finale sono invece sopravvissuti e tuttora alla base di molte delle concezioni della biologia moderna. Sia in termini di classificazione delle specie, sia in termini di organizzazione finalistica dei processi vitali, i biologi fanno ancora uso, magari inconsapevolmente, delle categorie aristoteliche e della mentalità tipica dell’ordine organico.

7.  Variabilità
Kupiec ritiene invece che tale ordine sia stato definitivamente incrinato dalle teorie di Darwin, se correttamente interpretate e rilette alla luce delle scoperte più recenti. Il concetto di variabilità è incompatibile con quello di forma o di finalità.
La variazione bioevolutiva, con tutto il suo carico aleatorio, probabilistico, stocastico (stochos=bersaglio, mira, congettura) è alla base delle teorie di Darwin. Senonché essa rimane in secondo piano (considerata come una sorta di rumore di fondo), mentre in primo piano sono ancora i concetti di ordine e di forma. La biologia moderna avrebbe introiettato l’ordine genetico, lasciando ai margini le conseguenze più radicali del darwinismo.
La concezione anarchica del vivente di Kupiec è volta a mettere in discussione proprio il primato ontologico di ordine e di forma. E lo fa non solo da un punto di vista “filogenetico”, ovvero dei processi biologici di lunga durata, dove la variazione agisce in maniera casuale per dar luogo a linee di vita diversificate, una enorme moltitudine di forme di vita e di piani corporei (si vedano in proposito il periodo Cambriano, Burgess Shale e le tesi del paleontologo S.J. Gould: se ne era parlato qui); ma anche da un punto di vista “ontogenetico”, cioè al cuore stesso del funzionamento genomico e della costituzione dell’organismo: la variazione (di nuovo aleatoria e probabilistica) riguarda il modo stesso di funzionare dei geni e della codificazione proteica. Non solo le specie, ma anche gli individui e i cosiddetti organismi sono sottoposti alle “leggi” della probabilità e della variabilità.

8. Un esperimento mentale
Da ciò Kupiec ricava una visione della vita totalmente alternativa a quella aristotelica, essenzialistica, organicistica e teleonomica ancora vigente: se ciò che agisce in primo piano è la variazione e non l’ordine, se la variazione non è il rumore di fondo ma l’elemento essenziale della vita, allora cadono tutte le categorie con cui noi guardiamo i processi vitali: la specie, la forma, l’ordine organico, che vanno invece considerati come nostre proiezioni mentali, e non come elementi oggettivi.
Kupiec propone a tal proposito di modificare l’esperimento mentale che Monod suggerisce all’inizio di Caso e necessità, nel quale fa arrivare sulla terra un’astronave marziana che si trova di fronte al dilemma di distinguere tra viventi e artefatti, tra ciò che vive e le altre entità presenti sulla Terra: i sofisticati computer di questi alieni riusciranno progressivamente a distinguere tra viventi (macchine in grado di autoorganizzarsi in vista di un fine), e tutti gli altri oggetti, siano essi artificiali o naturali, rocce, cristalli o altro.  Queste menti aliene, però, a parere di Kupiec ricalcano fin troppo i caratteri umani. Dovremmo invece immaginare un vero alieno in grado di abbracciare in un solo sguardo lo spaziotempo della vita: la mente extraterrestre che fosse in grado di percepire la storia della vita nella sua unità e processualità durata tra i 3,5 e i 4 miliardi di anni, non vedrebbe affatto specie, forme e organismi vitali, ma un unico flusso formato da linee genealogiche in perenne metamorfosi. In primo piano ai suoi occhi ci sarebbe la variazione e non l’elemento stabile della vita: questa, anzi, gli apparirebbe come un perenne processo metamorfico, non riducibile ad alcuna base invariante (sia esso il Dna o le forme specifiche o gli organi individuali).

9. L’enigma filosofico della vita
Tutto ciò ci porta direttamente al discorso filosofico sulla vita – e all’enigma che vi sta dietro. Se cioè cadono – come succede da tempo grazie al sapere scientifico e al suo metodo riduzionistico – tutte le certezze finalistiche e deterministiche, e si fa avanti una visione aleatoria, casualistica, probabilistica, la vita non può che apparire sempre di più come un enigma impossibile da sciogliere.
La domanda – perché c’è e qual è il senso della vita? – e quelle connesse – perché esistiamo? perché c’è qualcosa anziché il nulla? – non possono più essere indagate nel campo della razionalità scientifica: se cioè il mondo della riduzione, del caso, del meccanicismo produce una serie di risposte ai problemi posti, rimane sempre sfuggente il significato più profondo di cui noi siamo alla ricerca: ciò di cui è impossibile parlare (con logica), resta silente, senza risposta. Ciò che l’emersione della coscienza dal processo vitale ci presenta in termini di domanda radicale, quasi fosse un’eccedenza, un sovrappiù cognitivo che va al di là della nostra capacità di comprensione, ma che non può essere tolto di mezzo una volta emerso dalla storia evolutiva – ebbene, tutto ciò rimane avvolto dal mistero: il territorio del mistico, come direbbe l’ultralogico Wittgenstein.
Con un ulteriore paradosso: la ricerca scientifica, figlia della millenaria ricerca filosofica di finalità e di ordine, dissolve quell’ordine come neve al sole: se la risposta alla domanda perché c’è vita? è: per un caso, esattamente come se si trattasse di una mano di dadi (come il tempo-bimbo che gioca a dadi in Eraclito) – lo sgomento in una mente abituata a ragionare in termini di fine, scopo, ordine, forma (specie in relazione a se stessi) non può che crescere ancora di più.

10. Meraviglia
Occorre a questo punto chiedersi quali siano le conseguenze di una visione probabilistica e antifinalistica della vita. Se, come ritiene Kupiec, quella concezione implica la messa in discussione di un’intera costellazione di significati (ordine, forma, organismo, specie, individuo), e, conseguentemente, un radicale cambio di paradigma che intende la vita come un flusso perenne di linee variabili, senza alcuna predeterminazione o scopo – ciò non può non riflettersi anche nelle nostre brevi vite individuali e sociali, e nel rapporto con il vivente in generale. Se l’essenziale della vita non è l’individuo o la specie, ma il suo incedere metamorfico, dovremmo forse rivedere alcune nostre categorie e priorità. Anche in relazione alla morte (ciò di cui ci occuperemo nei prossimi incontri). D’altro conto occorre anche vigilare sui rischi che sempre comporta il trasferimento di categorie biologiche in ambito sociale – ciò che in passato ha generato immani disastri.
Essere appesi al filo della contingenza (del caso probabilistico, dell’aleatorietà, della variazione che sempre più appaiono come il nostro orizzonte ontologico) può generare angoscia, rispetto ad una visione più ordinata e finalizzata del cosmo (dove l’ordine e il fine eravamo sostanzialmente noi e la nostra coscienza). Ma quell’ordine non regge più da molto tempo. D’altro canto l’angoscia può anche rovesciarsi nel suo opposto, nel massimo di meraviglia: altro non siamo che una delle “innumerevoli forme, bellissime e meravigliose”, scrive Darwin in conclusione della sua Origine delle specie. E questo ci dovrebbe quanto meno stupire.
Ma ci basta?

***

Ne approfitto, in chiusura, per rilevare una strana consonanza tra la concezione di un biologo contemporaneo e quella di un grande romantico tedesco, amante e studioso della natura, in particolare del mondo vegetale: Goethe – il poeta-scienziato-pittore-filosofo-alchimista, nonché autore de La metamorfosi delle piante, si pone come obiettivo primario quello di cogliere il vivente in quanto vivente, nella sua concreta dinamicità, nel mutare continuo delle forme (metamorfosi) – evitando di ridurlo ad una morta ed astratta classificazione.
La visione goethiana è olistica, panteistica, totale: gli umani fanno parte di un flusso metamorfico che non ha scale o gerarchie; è questa una concezione “rizomatica” della vita (sarà il filosofo francese Deleuze ad immaginare un pensiero plurale ed orizzontale, simile al rizoma, ovvero quella radice di riserva che si sviluppa in modo alternativo alla verticalità dell’albero). Tanto è vero che Goethe preferisce il termine Bildung (formazione) a Gestalt (forma), proprio per descrivere la processualità ed inafferrabilità del vivente come un tutt’uno.
Ciò non toglie che sia anche alla ricerca della “forma originaria” (da qui il suo interesse per le piante e per la Urplantz, forma originaria del vegetale, individuata nella foglia), ovvero quell’unico principio che nel flusso metamorfico darà poi origine alla moltitudine di forme viventi.
Non mi pare che Kupiec lo citi, ma la convergenza teorica a oltre due secoli di distanza è quantomai sorprendente, e conferma oltretutto un suo assunto critico: non esiste pratica scientifica che non abbia anche un retroterra filosofico. Quando gli scienziati dicono “è filosofia”, pensando che si tratta di chiacchiere inutili, hanno torto: essi «non si rendono conto di praticare la filosofia in continuazione, proprio come non si rendono conto che non possono sfuggirle, perché c’è sempre un’ontologia nelle loro teorie, anche se non ne sono consapevoli» (Kupiec, La concezione anarchica del vivente, eléuthera, p. 249).

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

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