
(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 13 dicembre 2021)
Ci sono due modi fondamentali di considerare la morte: diciamo, per semplificare, uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo guarda la morte da lontano, come un fenomeno naturale, nel suo intreccio necessario con la vita e con il variare delle sue forme (ciò di cui ci siamo occupati la volta scorsa). È un guardare la morte come se non ci riguardasse: è una finzione consentita proprio dalla nostra facoltà cognitiva, dalla capacità di astrarre. Anche dal modo di funzionare della coscienza, dalla sua capacità di duplicazione – di scindere se stessa dal mondo, io dal non-io. In verità è un atteggiamento tipico della filosofia, ereditato poi dalla scienza nell’epoca moderna. Vedremo stasera come la filosofia degli inizi, in particolare quella dei presocratici, si occupò della morte in questi termini, come un elemento dialettico del divenire e dei processi naturali.
Dell’altro lato, invece, quello soggettivo, quello che ci terrorizza, che ci crea ansia, ci occuperemo nel prossimo incontro: sarà la volta della morte più “individualizzata”, la morte dei nostri cari, la morte come destino di tutti gli individui, la “mia” morte – anche se vedremo che questa morte più vicina, la “mia” morte, è la morte più imprendibile e più assurda, poiché della propria morte nulla è possibile dire.
Ma partiamo dalla “morte oggettiva”, dalla dialettica vita/morte come fenomeno universale, quasi alla base di ogni considerazione del mondo e dell’essere, se si vuole.
Proviamo ad occuparcene esemplificando con diversi punti di vista teorici, ma che tutti hanno in comune questa “freddezza”, oggettività, indifferenza, questa lontananza dello sguardo (che a suo modo è già forse una cura, uno stratagemma per togliere di mezzo la morte nella sua dimensione quotidiana e soggettiva, nella sua drammatica vicinanza).
Partiamo da un esempio che ho forse citato la volta scorsa, e che ha molto a che fare con tutto il discorso della dialettica vita/morte (per ora diamo per scontato il significato del termine dialettica, ovvero capacità di afferrare in un unico sguardo gli opposti, in questo caso i fenomeni della vita e della morte, e di mantenerli in tensione, nel loro contrasto, reggerne la contraddittorietà): il biologo e medico Jean-Claude Ameisen aveva scritto una ventina di anni fa un testo molto illuminante a proposito di questa dialettica: Al cuore della vita, e indovinate un po’ che cosa c’è al cuore della vita, nel suo centro? Proprio lei, la morte: il sottotitolo del testo è “Il suicidio cellulare e la morte creatrice”. Qui addirittura l’evoluzione creatrice – l’opera più importante del filosofo francese Bergson – ha come soggetto la morte: il titolo francese è ancora più preciso e suggestivo di quello italiano, perché suona La sculpture du vivent. La mano che plasma e scolpisce la vita è proprio la morte – la morte cellulare, l’ordinato succedersi dei processi che riguardano questi mattoni costitutivi della vita, nonché le sue forme e gli organismi complessi – i grandi “condomini di cellule”. Paradossalmente, è proprio quando si inceppa il meccanismo della morte “programmata” delle cellule – il “suicidio cellulare” – che cominciano i guai per gli organismi, e dunque per noi: tumori e malattie degenerative sono dovute proprio all’inceppamento di quel meccanismo.
Ma non solo: l’intera storia dell’evoluzione della vita, oltre che dalle circostanze – dalla “contingenza” e dalla variabilità casuale – è stata governata proprio dalla morte, dal suo scolpire la vita dall’interno, dal suo sfoltirla o modificarla nelle sue innumerevoli forme.
«L’evoluzione della vita – conclude Ameisen – da quattro miliardi di anni, costituisce un meraviglioso modello di costruzione della complessità. Ma essa ci svela anche il prezzo della sua splendida efficacia: un’indifferenza cieca e assoluta al divenire, alla libertà e alla sofferenza di ciascuna delle sue componenti».
Si noti la terminologia: meraviglioso, splendida, indifferenza cieca e assoluta. Quantomai dialettica e senza soluzione di continuità…
Ma retrocediamo: il secondo esempio sta un paio di secoli prima, in Goethe (ci occuperemo più approfonditamente di Goethe nell’incontro sul respiro e i vegetali, per ora vi accenniamo solamente). Il cuore della filosofia della natura goethiana è l’idea di metamorfosi: e la metamorfosi non può compiersi se non in una dimensione dialettica, di mutamento continuo delle forme, e dunque di un alternarsi perenne di vita e di morte. Anche qui, senza l’azione scultorea della morte – senza la variazione, il toglimento, il cambiamento – non potremmo contemplare sempre nuove e sorprendenti forme di vita. Goethe arriva a dire che la morte è uno “stratagemma per ottenere molta vita” (da cui il titolo di questa nostra serata: in realtà la frase è del teologo Tobler, che Goethe adotta con entusiasmo).
Retrocediamo ora al fondamento stesso di questo nostro modo di guardare alla vita e alla morte – ai fenomeni naturali e, direi, allo stesso essere. Ovvero la filosofia presocratica. Userò, per farlo, lo sguardo di un filosofo molto vicino al nostro tempo, che ha scompaginato la filosofia contemporanea, ovvero Nietzsche, il quale aveva studiato con molta attenzione i filosofi greci, e che aveva anzi considerato quella greca come una “filosofia tragica”, proprio per questa connessione necessaria di vita e di morte, di essere e nulla, rilette attraverso le categorie spirituali di “apollineo” e “dionisiaco” – l’elemento razionale e quello caotico ed informe.
Proviamo quindi a dare una scorsa ai filosofi presocratici, e alle loro idee in proposito…
Cominciamo senz’altro da Anassimandro, che in un frammento fulminante – di fatto l’unico che ci rimane – ci viene a dire che «Principio degli esseri è l’infinito (àpeiron)… da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Ovvero, che gli esseri, i viventi, le cose si generano e si dissolvono entro il medesimo principio originario – apeiron, che potremmo tradurre con l’illimitato o l’indeterminato, una sorta di caos informe da cui le forme si distaccano e a cui tornano, dissolvendosi: tutto questo avviene secondo necessità (katà to chreon), che qui è parola chiave, e secondo un dolente alternarsi reciproco di pena ed espiazione: noi – commenta Schopenahuer citato a sua volta da Nietzsche – espiamo la nostra nascita, in primo luogo con la vita, e in secondo luogo con la morte. Nietzsche vede al di là di queste parole-sentenze così antiche, “un’espressione di smorfia dolorosa sul volto della natura”, quasi un “lamento funebre senza fine in tutti i campi dell’esistenza”. Ciò che nasce, proprio perché nato, determinato, limitato, è destinato a divenire e a dissolversi. Solo l’illimitato è, tutte le forme e gli esseri mutano e divengono. Sembra non esserci alcuna redenzione dalla “maledizione del divenire”.
Tale “maledizione” diventa parossistica in Eraclito, nella cui concezione il divenire è la cifra di ogni cosa: è il tempo-gioco a governare gli esseri, ed esso come un bambino innocente costruisce per poi distruggere, crea torri di sabbia in riva al mare che vengono sempre dissolte, per poi ricominciare il gioco daccapo: “Il tempo è un bambino che gioca coi dadi: di un bimbo è il regno” scrive in uno dei suoi frammenti più celebri. E in un altro, ad esemplificare con grande efficacia la dialettica vita/morte, la rotazione e l’unità degli opposti: “Nome dell’arco significa vita; ma la sua opera è morte”, giocando con l’identità della parola bios per indicare sia l’arco che la morte, due significati del tutto divergenti. Ma solo dal contrasto può nascere l’armonia – addirittura stupenda armonia.
In tutto questo non c’è alcuna commozione o partecipazione emotiva, vige la più assoluta indifferenza conoscitiva (è il logos a parlare dentro le cose e dentro la nostra mente): Nietzsche descrive Eraclito e la sua filosofia come un “astro privo di atmosfera”.
Passiamo ora ad Empedocle, brevemente. Il filosofo siciliano ci parla di una natura quantomai irrequieta, che si svolge muta ed indifferente sotto lo sguardo dell’osservatore (come già succedeva per Anassimandro, ed ancor più per Eraclito):
«E queste cose interamente mutando non s’acquetano mai, a tempo convengono tutte quante nell’uno per opera dell’amicizia (philòteti); a tempo sono travolte al contrario, separatamente ciascuna, dall’inimicizia che nasce dalla contesa (nèikos)». [fr. 17].
Empedocle allarga lo sguardo all’intero cosmo, nel tentativo di fornire una spiegazione univoca, unitaria ed oggettiva – ecco di nuovo la lontananza cognitiva – di quei fenomeni naturali (e dunque del nostro stesso modo di essere) affetti da inquietudine, perenne mutamento, nascita e distruzione. Di nuovo la morte viene inquadrata sotto una luce cosmologica generale.
Il cosmo pulsa con un unico battito che ha in sé sia l’armonia che la disarmonia, sia l’unione che il conflitto, l’amore e l’odio: Empedocle caratterizza la contesa come funesta (oulòmenon, il termine che anche Omero utilizza per descrivere l’ira di Achille in apertura dell’Iliade, traducibile anche con “rovinosa”), ma non si deve pensare ad una valutazione di tipo psicologico o morale. Tant’è che ci viene consigliato di guardare queste cose “con la mente”, senza lasciarsi “sbigottire dagli occhi”, dunque amicizia e contesa vanno intese come processi necessari che stanno alla base del funzionamento del cosmo e della vita, ed è solo il pensiero filosofico che in tal modo le può realmente considerare, superando e lasciandosi alle spalle l’inganno dell’apparenza.
Vi è dunque un “ritmo cosmologico” che vede dominare ora l’amore ora l’odio, ora la composizione ora la scomposizione, ora la nascita ora la morte. Ma anche nella fase di primaverile rinascita, il neikos, la discordia, non viene mai completamente emarginata (e viceversa: questa concezione dialettica ricorda, tra le altre, quella taoista dello yin e dello yang).
Entro questa dialettica acquista una certa importanza il concetto di mortalità: Empedocle sembra insistervi proprio mentre descrive la dinamica che dà luogo alla generazione per successive benefiche mescolanze: «gli uni agli altri pacificamente saldandosi da tutte le parti; quando poi sono mescolati, innumerevoli spargono stirpi mortali». Le forme delle cose cui la dialettica amicizia/contesa dà luogo, prendono coscienza della propria mortalità («e subito appresero d’essere mortali le cose che si generavano»), pur essendo prodotte da meccanismi prima immortali (gli elementi, le leggi della mescolanza). Il regno dell’odio, che non viene mai completamente emarginato, sembra avere una parte essenziale in tutto ciò, se è vero che durante il suo dominio «ogni cosa ha forma distinta e sta separata». Anche qui la concezione identitaria già tipica di Anassimandro sembra ben delineata: la mescolanza di elementi primigeni e indeterminati permette alle forme e alle cose di avere tratti ben distinti che, nel loro contrapporsi ad altre cose e forme, le fa consistere.
Di nuovo fa capolino l’idea – che attraversa tutta la civiltà occidentale – di una funzione “plasmatrice” della morte.
In conclusione, le concezioni cosmologiche presocratiche sono sì essenzialmente conflittuali e polemologiche (il mondo per funzionare non può non contenere il conflitto, il contrasto, la rotazione – nascita/morte – degli enti), ma necessitano comunque di un’armonia, di una compresenza continua di tutti gli elementi. Se solo uno venisse meno, o fosse irreversibilmente alterato, l’armonia della physis (la “stupenda armonia da contrasti” di Eraclito) ne sarebbe irrimediabilmente compromessa.
Sembra che a dominare tutto questo sia una sorta di pensiero della distanza, della lontananza, dell’indifferenza – quello che fa dire a Parmenide – in opposizione radicale alle cosmologie del divenire ma del tutto in linea con il metodo del distacco cognitivo – che solo l’essere è, e il non essere, il nulla non è, che anzi il nulla è pura follia anche solo pensarlo: in tal senso il meccanismo della morte e della distruzione degli esseri non può riguardare l’Essere, ma le sue articolazioni interne. E quel che a noi sembra una morte nullificante è in realtà una morte ri-generante. La morte e la vita pulsano all’interno dell’unità del tutto, della natura come essere.
L’essere è il concetto più distante, più indifferente, più onnicomprensivo, più algido che ci è dato pensare per vincere la paura della morte. Nel pensiero che pensa l’essere – che è l’essere stesso, come dice Parmenide – quella paura, quei sentimenti non trovano alcuno spazio.
Si fa strada infine nella filosofia greca – in particolare in pensatori successivi come Anassagora e poi Democrito – l’idea dell’aggregazione e della disgregazione di elementi permanenti: i semi o gli atomi (le particelle di cui è fatta la materia) sono eterni, mentre il loro ritmo dialettico dà luogo alle forme o ai viventi: a ben pensarci questa idea anticipa di oltre 2000 anni la biologia cellulare, quella che fa della cellula la base dell’organismo, semplice condominio soggetto a nascita e a morte. Anche le cellule singolarmente lo sono, ma è il loro principio ad essere quasi “eterno”. La cellula è l’atomo della vita, ciò che ne garantisce stabilità e continuità, laddove i meccanismi di composizione e di scomposizione cellulare – la nascita e la morte degli organismi – sono il divenire incessante e metamorfico della vita. Senza morte questo ritmo si incepperebbe, nulla di nuovo nascerebbe, e non ci sarebbe nemmeno una coscienza a farsi le domande che ci stiamo facendo qui, stasera…
La domanda è la medesima che si fecero i presocratici: siamo qui per puro caso? (Democrito) o per un disegno intelligente? (il nous di Anassagora).
Ma la sostanza non cambia: il fatto di essere qui comporta anche il fatto di andare via da qui. La presenza contiene in sé il germe dell’assenza. Compariamo e scompariamo allo stesso tempo. Siamo e non siamo. Siamo appesi al filo di una contraddizione. Ma che cos’è il nostro “esserci”? C’è forse qualcosa di eterno in noi? O la distruzione sarà l’unico destino possibile?
Jankelevitch dice «Colui che è stato non può più non esser stato: questo fatto misterioso e profondamente oscuro d’aver vissuto è ormai il suo viatico per l’eternità».
E Mahler conclude il suo viaggio sulla terra – il suo canto della terra – con il congedo (Der Abschied) del viandante che, dopo aver percorso le tappe della vita – la giovinezza, la bellezza, l’ebbrezza, le fioriture primaverili, le infinite possibilità, e dopo l’addio struggente al compagno di viaggio – si reca in solitudine verso l’inevitabile destino finale, nelle azzurre lontananze che echeggiano in quell’ewig – eternamente – ripetuto più volte dal contralto, che pare non voler finire mai, ma che è destinato a dissolversi in una vita sempre più rarefatta, più trasparente, più sfuggente… Ma a questo punto ci siamo spinti ben oltre la razionalità: comincia qui il territorio del mistico, di cui nulla si può dire.
Una conclusione su questa strategia di “cura”, questo sguardo di lontananza e di indifferenza nei confronti della morte, potrebbe riguardare la sua profonda democraticità ed orizzontalità: essa non riguarda solo me, ma tutti gli esseri, senza eccezione alcuna, proprio perché ogni cosa diviene, è sottoposta alla legge della finitezza (se si vuole, della fallibilità) – la fragilità e la provvisorietà sono le qualità comuni dei viventi e degli enti. In questo non c’è alcuna differenza o gerarchia, e sempre viene ripristinata la legge dell’assoluta eguaglianza di Anassimandro. Un’indifferenza che dovrebbe guarirci dall’angoscia. Dovrebbe…
Un argomento “ultimo” che ci arrovella senza risposte.
I riferimenti filosofici del confronto, sono interessanti, belli e affascinanti, fuor da banalità, quale ritengo tutta la filosofia presocratica. Immaginare che dal dissolvimento di ogni cosa vivente, si generi vita biologica, è un pensiero a cui affidarsi? Essere seppelliti nella nuda terra, è un desiderio di molti quanto essere ridotti in cenere da disperdere in oceani, montagne, deserti…proprio per questo, per questa intima congiunzione con il ciclo incessante universale.
Si ci può acquietare della vita perenne in altre forme? Se fossimo foglie, fiori, non ce lo chiederemmo neanche. Ma in noi c’è il nous che ci interroga, ci interpella sul senso dell’esserci e dell’essere. Non aggiungo altre parole al tuo post. Troppo lungo e complesso il tema.
Ho perso persone fondamentali della mia vita. Non ci sono più, semplicemente. Questa la realtà con cui va avanti il mio tempo.
Posso rigirarla come voglio, ma sono sola di loro. Altre persone mi completano ma loro non più.
Concludo con Jankélévitch da te citato, scusandomi per la insufficienza di questo mio commento, così di getto.
Una buona giornata, caro Mario.
“A forza di ripetere, di far cozzare l’una contro l’altra tutte le parole della morte, finiremo forse per far scaturire qualche barlume ? Queste parole impotenti, questi truismi statici non formano un discorso! Ma una tale ripetizione, che è soprattutto vanità delle vanità, manifesta anche la volonta di non sottrarsi alle evidenze del senso comune. Tra l’impossibilita di negare e l’inutilità della protesta da una parte, il bisogno di spiegare dall’altra, la coscienza resta impietrita. Lo spirito é vuoto. La morte assomiglia a un furto con scasso portato fino all’estremo limite dell’inspiegabile.”
un abbraccio cara Enza