Ho finalmente visto l’ultimo film di Terrence Malick, La vita nascosta (A Hidden Life). Non esito a definirlo, insieme a La sottile linea rossa e a The Tree of Life, tra i capolavori della cinematografia del XXI secolo.
Sono due le parole che utilizzerei come filo conduttore: turbamento (ciò che provoca in noi spettatori), forza (il motore segreto che muove i protagonisti).
Il film si ispira alla vicenda di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che dopo l’Anschluss (per la quale fu l’unico del suo villaggio a votare no), decide di obiettare al servizio militare e di opporsi al regime nazista, fino ad essere ghigliottinato a Berlino il 9 agosto 1943.
La sua scelta è radicale, ispirata dalla fede (che condivide fortemente con la moglie Franziska), e che non cede alle pressioni sociali, né all’ostracismo della comunità e nemmeno alle mediazioni ecclesiastiche. Di fronte a quello che riconosce come il male assoluto, Franz è intransigente e sceglie il martirio (verrà poi beatificato nel 2007).
Ora, di fronte ad una vicenda così drammatica e complessa, Malick non si sottrae e investe tutte le sue energie, il suo inconfondibile stile cinematografico, lo scavo interiore espresso dalla voce fuori campo, il linguaggio dei volti e dei corpi, l’estetica dell’immersione naturalistica, il suo profondo antimilitarismo e amore per la vita – al fine di costruire un’intensa rappresentazione insieme visiva e filosofica, per parlarci della responsabilità di fronte a cui ogni umano sempre si trova quando deve scegliere tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso.
La fede, la morale, l’etica possono anche essere divergenti nell’argomentare a proposito di ciò che è male e bene, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto; ciò non toglie che c’è un momento in cui si è chiamati a scegliere, a non dubitare, a dire sì o no. Ed è proprio una pensatrice contemporanea a Jägerstätter ad averlo detto nel modo più limpido e profondo: il breve saggio su La persona e il sacro di Simone Weil sembra proprio un commento filosofico esemplare alla vita (esemplare) di colui che resiste al male perché lo sa riconoscere.
Ma che cos’è il male? E, soprattutto, che cos’è il sacro – l’inviolabile, ciò che non deve essere toccato – in una persona? È ciò che si chiede la filosofa francese, che identifica questo nucleo profondo ed essenziale come “qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano” che “si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”. Jägerstätter e sua moglie Franziska sembrano saperlo a priori: la fede conferisce loro una visione speciale di tutto ciò, sanno ciò che pulsa in fondo ai loro e agli altrui cuori, ed è per loro un comandamento inaggirabile non commettere mai ingiustizia, o mettersi nelle condizioni di poterla commettere, così come è sempre preferibile subirla. Perché – per dirlo ancora con Weil – “il bene è l’unica fonte del sacro”, ma ciò non ha a che fare con i singoli, né con la collettività, bensì con l’impersonale, un’entità sfuggente, che sta sopra ogni cosa (poco importa che sia dio o la natura o altro).
Ma la domanda più urgente, a mio parere, riguarda una parola che spesso i protagonisti evocano, sia nel linguaggio verbale che in quello del corpo o degli occhi: la forza. Che cosa dà loro la forza di affrontare il male e l’ingiustizia? O le urla crescenti degli aguzzini, dei gerarchi, dei burocrati (lasciate da Malick in lingua tedesca, come fossero un’espressione sonora e informe della violenza)? O la forza di rinunciare all’Eden cui Dio li aveva destinati, un idillio fatto di natura, campi e orti rigogliosi, di figlie e di amore? Da dove viene questa forza sempre invocata e ricercata?
Si potrebbe rispondere facilmente: la fede, Dio. Ma Dio sembra assente da tutta questa vicenda, è lontano e distratto. La comunità – conforme – volta le spalle inorridita dallo scandalo dei “traditori”. Anche la terra sembra rivoltarsi. Franz è solo, la sua resistenza è singolare, isolata, e uno dei giudici – interpretato da Bruno Ganz, l’ultimo ruolo prima della morte – gli dice chiaramente che della sua azione eroica non resterà nulla, nulla di nulla. Anche se nel dirlo prova disagio – turbamento.
Donde viene la forza di resistere? Sarebbe facile rispondere: dall’amore o dall’interiorità. Da ciò che è dentro di sé – il “sacro” di cui si è detto sopra. Ma questo “dentro di sè” va meglio indagato e identificato.
Forse ci viene ancora incontro Simone Weil quando parla del “calore”, di questo nucleo della persona che, nonostante tutte le avversità, il male, la violenza, l’umiliazione, resiste ad ogni forma di disumanizzazione. Che è poi forse quel che aveva più impressionato Primo Levi, quando vede cedere anche quel nucleo così intimo nel campo. Non solo: Weil evoca anche una “forza altra”, totalmente diversa da quella del diritto o della storia, una “irradiazione dello spirito” rinvenibile nell’idiota del villaggio, nell’innocente, nel genio, nel santo, nel puro di cuore.
Franz e Franziska attingono la loro forza da lì, e poco importa che il loro gesto di resistenza non verrà riconosciuto, o sparirà nel gorgo dell’insensatezza della storia umana: quella forza esiste, è dentro di loro, anche se non si sa bene da dove venga, ed è ciò che li fa esseri umani integrali, “persone” dai valori non negoziabili. «La giustizia – dice Weil – consiste nel vigilare che non sia fatto del male agli uomini. Viene fatto del male a un essere umano quando grida interiormente “Perché mi viene fatto del male?”».
È forse irrazionale quella forza, perché non accetta mediazioni – le mediazioni della politica o dell’accomodamento ecclesiastico; non accetta di essere commisurata con il metro dell’utile, né con calcoli, interessi o formule redistributive. Ma una persona non è mai utile – Kant dice che è piuttosto un fine in sé.
In coda al film Malick mostra il brano della scrittrice inglese George Eliot, che gli ha suggerito il titolo: «Il bene a venire del mondo dipende in parte da azioni di portata non storica; e se le cose per voi e per me non vanno così male come sarebbe stato possibile lo dobbiamo in parte a tutti quelli che vissero con fede una vita nascosta, e riposano in tombe che nessuno visita».
Ecco, quella forza è sotterranea, segreta, ma esiste e qualche volta ci salva dal male e dall’ingiustizia. È come il granello di senape della parabola evangelica – è ancora Simone Weil ad evocarlo al termine del suo scritto, che a questo punto sembra proprio essere una co-sceneggiatura interiore dell’opera di Malick.
Grazie per la tua riflessione. Mi premuro di vedere al più presto il film di cui avevo sentito parlare.
Sono reduce dalla lettura di alcuni passi di Bonhoeffer, anche lui tra quelli che non si piegarono al nazismo.
Belle e significative le citazioni della Weil e della Eliot.
Mi permetto di ricopiarti la mia…
” L’essenza dell’ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica a sè”. ( Dietrich Bonhoeffer)