Ritorna la guerra – ma in realtà non se n’era mai andata dalla scena. Scoppia apparentemente all’improvviso, ma è dalla struttura profonda, dall’intelaiatura delle nostre società e relazioni, dai nostri sistemi produttivi e di consumo, dal nostro rapporto con la natura, dal sistema violento e ingiusto della proprietà, dalla disuguaglianza crescente, dalla mancanza di conflitto sociale, dall’acquiescenza, dalla docilità e dall’autoaddomesticamento – che la realtà della guerra, con tutta la sua potenza distruttiva, riemerge in superficie. Ma il sottosuolo è sempre stato quello, la mentalità e il linguaggio non sono mai cambiati – come anche questi due anni di metafore pandemico-belliche ci hanno ricordato. Negli ultimi 20 anni la spesa militare nel mondo è raddoppiata: bastava guardare sotto la superficie, e le strutture profonde del militarismo si sarebbero rivelate, del tutto intoccate nonostante la retorica del nuovo millennio. Che invece si annuncia come il protrarsi di un antico ciclo storico: epidemie, guerre, carestie, migrazioni.
A tutto questo il pacifismo moralista non ha mai saputo opporre alcuna forma di critica radicale o di resistenza. Se non viene messo in discussione alla radice l’assetto ingiusto e avido e distruttivo delle società contemporanee (tutte dominate dal demone capitalista, poco importa se diretto dallo stato o dal mercato), la guerra e la violenza avranno sempre l’ultima parola. E all’inerme di Goya non resterà che continuare ad allargare le braccia, limitarsi a sentire tutt’attorno e sulla pelle i tristi presentimenti di ciò che deve accadere e sperare che le bombe cadano un po’ più in là.