(traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 14 marzo 2022)
Mai come per l’argomento di questa sera – medicalizzazione della vita e rimozione della morte – è valido un approccio di tipo complessivo e dialettico: inquadrare la mutazione del fenomeno-morte nelle nostre società implica la necessità di guardarlo da lontano, e soprattutto in relazione con diversi piani, categorie, strutture. Ciò che è una modalità tipica dello sguardo filosofico: penetrare al di là della superficie, andare a vedere le molteplici cause, risalire alle radici, trovare le connessioni, individuare gli sviluppi e i loro intrecci. Ciò che qui possiamo solo provare a fare schizzando un quadro e offrendo degli spunti per ulteriori analisi e riflessioni.
1.
Partiamo da uno scritto di Leonardo Sciascia del 1983, a proposito del termine “medicalizzazione della vita” utilizzato dallo storico medievista francese Ariès: lo scrittore siciliano rinviene questo passaggio anche nella sua terra, e ne riporta un’esperienza diretta, risalente agli anni ‘30 e ‘40: l’interdetto della morte, la sua espulsione dalla dimensione domestica e il confinamento delle persone malate in strutture ospedaliere comincia a mostrarsi anche nella Sicilia di quel periodo. Un processo che si è poi realizzato lungo tutto il Novecento e che nella nostra epoca è ormai giunto a pieno regime: non c’è aspetto della vita che non sia medicalizzato, e non c’è morte (o dolore, o malattia) se non in termini di un suo integrale confinamento nell’ambito medico. Intendiamoci: non si vuole dare un giudizio di valore (tantomeno negativo) a questo processo – sono ben cosciente dei “progressi” sanitari fatti, della salute come bene comune, del miglioramento e dell’allungamento della vita, ecc.
Ciononostante, questo processo e questo progresso hanno anche portato ad una trasformazione profonda del significato della morte (così come della vita) e più in generale ad una sua rimozione.
Sciascia trova un documento di questo passaggio fondamentale nella società borghese occidentale, nel celebre racconto di Tolstoj La morte di Ivan Il’ic, dove il protagonista, un giudice all’apice della sua carriera, che ha costruito la sua intera esistenza attorno ai valori borghesi del “decoro” e del perbenismo, vede irrompere all’improvviso nella sua vita l’ignoto – l’intruso: il cancro incurabile (e innominabile) che lo porterà in breve tempo alla morte.
Ma questa irruzione, non solo sconvolge la sua vita, ma ci mostra come la reazione dell’ambiente sociale – a partire dalla sua famiglia – sia quella di uno strano fastidio, di una sorta di occultamento, fin quasi ad arrivare all’ostracismo. Non solo: lo stesso Ivan Il’Ic viene sempre più identificato con l’intruso, con la malattia (è questa una caratteristica essenziale della medicalizzazione della vita, denunciata tra gli altri dal filosofo-medico Canguilhem e dal sociologo Ivan Illich, curiosa questa assonanza di nomi) – che dunque deve essere espulsa dalla normalità del quotidiano, come una condizione di cui avere vergogna.
Gli ultimi giorni – terribili – ci rivelano proprio questo suo isolamento “a doppia mandata”, con le urla che diventano intollerabili per la famiglia (e che sarebbero ben presto state trasferite nel corso del ‘900 dall’ambiente domestico a quello ospedaliero). Nello stesso tempo, alla figura del prete si viene sostituendo quella del medico che, come nel caso del giudice, della legge e dell’imputato, applica astrattamente all’individuo le categorie medico-scientifiche, sacrificando ogni sua specificità e singolarità. Il corpo diventa un corpo astratto, normato, sovradeterminato.
2.
Ma non comprendiamo a fondo questo processo, se non lo inseriamo in un contesto più ampio, di più lungo corso, che attiene all’intera modernità. E che attiene al rapporto tra i corpi (dei sudditi, degli individui e poi dei cittadini) nella loro forma di organizzazione sociale, in particolare con lo strumento politico più importante a partire dal ‘600, ovvero lo Stato.
In questo rapporto viene in primo piano l’elemento della vita (che un analista della genesi della modernità come Foucault indicherà come biopolitica). Non solo: alla vita si sovrappone e si innesta sempre di più un elemento di tipo meccanico. Sia il corpo dello stato che il corpo del suddito sono macchine correlate: da una parte è Hobbes a definire lo Stato come un unico corpo totalizzante (un mostruoso Leviatano) costituito dai corpi e dalla forza vitale dei suoi singoli componenti. Dall’altra troviamo invece una chiara sovrapposizione tra corpo e macchina in Descartes, laddove l’anima (la parte razionale) viene in qualche modo contrapposta al corpo-macchina (e, come vedremo, destinata a separarsene del tutto e a dissolversi).
Senza questa riduzione del corpo a macchina – basti leggere le celebri pagine sul cuore del Discorso sul metodo – non è possibile comprendere il successivo processo di medicalizzazione (e potenziamento) della vita, in termini essenzialmente meccanici e materiali. Un’altra tappa teorica di questo cammino lo si trova in un breve testo del medico e filosofo illuminista La Mettrie che con L’uomo macchina (ma anche L’uomo pianta), segna il passaggio ad un sempre più radicale materialismo e meccanicismo nella concezione dell’umano.
Con la secolarizzazione (a partire specialmente dall’800) si assiste infine ad una riduzione dell’individuo a corpo: oggi la cosiddetta “singolarità” – un individualismo narcisistico spinto alle sue estreme possibilità – si riduce ad una corporeità in cui gli elementi spirituali (l’anima!) hanno ben poca importanza. La cura va principalmente al corpo-macchina, e anche quando si cura la psiche – la parte “immateriale” – lo si fa prevalentemente con strumenti meccanici e biochimici.
Parallelamente occorre seguire come si sviluppa il rapporto tra lo stato e l’insieme massivo di questi corpi: e qui ci viene senz’altro in aiuto Foucault, con la sua celebre tesi biopolitica, e in particolare con il concetto di “popolazione”. Con l’avvento di grandi stati, grandi masse, e di una poderosa crescita dell’intervento scientifico in tutti i campi della vita, è di natalità, fertilità, mortalità, morbilità che il governo si viene sempre più occupando: una nazione, uno stato vengono trattati in termini di organismo complessivo, non più come una somma di individui, bensì come un unico potente organismo che deve essere mantenuto in salute ed espandersi secondo un equilibrio di omeostasi e di benessere biologico.
Ecco perché la medicalizzazione e la sanitarizzazione degli ambienti e degli individui diventa prioritaria per lo stato. Questo passaggio ha comportato una trasformazione fondamentale del rapporto con la morte, un tempo ritualizzata e parte integrante (direi centrale) della vita sociale: la morte in epoca biopolitica diventa un tabù, viene rimossa, allontanata dalla scena sociale, reclusa negli ospedali, a sua volta medicalizzata, anestetizzata, resa essa stessa un fenomeno da gestire biopoliticamente: il potere ha quindi presa non tanto sulla morte, quanto sulla mortalità. Vita e morte diventano fenomeni essenzialmente statistici, matematici, quantitativi. Un discorso simile può essere fatto a proposito del dolore, sia fisico che psichico, anch’esso integralmente medicalizzato (e, soprattutto, anestetizzato): è il filosofo-sociologo Byung-Chul Han ad aver parlato, ad esempio, di una società senza dolore.
Chi nel ‘900 ha realizzato appieno questa modalità dell’organizzazione statuale e sociale è stato il regime nazista, con un ampio programma biopolitico (basti pensare a categorie “biologiche” come quelle di razza, o ad una concezione di guerra naturale e selettiva, se si vuole di disturbata ascendenza darwiniana; per non parlare del concetto di Lebensraum, spazio vitale) – che si rovescerà ben presto in un disastro tanatopolitico.
Ma se questo progetto è stato possibile, è perché camminava già da tempo nella storia, ed anzi è un aspetto congenito agli stati moderni, che dunque non sono mai esenti dalla deriva biopolitico-totalitaria. Su questo aspetto ha molto insistito Giorgio Agamben con i suoi concetti di homo sacer e di nuda vita – ben visibili nel campo di sterminio, anche se l’idea di campo non può essere confinata alla sola Auschwitz, anzi sarebbe inscritta nella stessa storia della modernità.
3. L’intruso
Naturalmente tutto questo processo secolare – che riguarda almeno 4 secoli della storia moderna, con una “grande accelerazione” successiva alla seconda guerra mondiale – andrebbe studiato ed approfondito, noi qui ne schizziamo solo un profilo incompleto, ma che credo denoti una delle questioni essenziali della “bioepoca”: ovvero il sogno di una vita sempre più potenziata e, al limite, immortale. Poiché l’anima – nonostante chiese e religioni siano ancora attive nelle civiltà umane – ha perso la sua centralità, a discapito del corpo, è proprio sul corpo, sulla vita biologica, che si concentrano tutte le attenzioni non solo politiche, ma anche scientifiche, mediche e tecnologiche. Il biennio pandemico ha mostrato per la prima volta nella storia umana quanto questo elemento della vita sia diventato centrale, ineludibile, totalizzante.
Ma vorrei concludere, lasciando sullo sfondo il quadro sistemico, per provare a seguire brevemente le riflessioni di un filosofo francese – Jean-Luc Nancy – su questo tema, il cui interesse maggiore sta oltre tutto nell’averlo egli vissuto in prima persona, con uno dei traguardi più spettacolari della medicina contemporanea, ovvero il trapianto del cuore.
Nancy ne scrive dopo alcuni anni: L’intruso è un documento straordinario perché costituisce un vero e proprio esempio di biografia filosofica, di innesto della riflessione nel corpo vivo della sofferenza e della fragilità.
La figura scelta per rappresentare questa intrusione dell’innaturale nel naturale è quella dell’estraneità – se si vuole dello straniero che viene, che si intromette, che quindi non è “naturalizzato”, non è familiare, e provoca una sorta di disordine dell’intimità.
L’intruso si affaccia sulla soglia (la soglia è un elemento fondamentale del rapporto dialettico vita/morte, ma ce ne occuperemo nel prossimo incontro).
Quando l’intruso irrompe – in questo caso un “cuore estraneo” – ciò che viene messo in discussione è il soggetto dell’intrusione: chi sono io? che ne è del mio cuore, ciò che era il più proprio, “naturale”, familiare, intimo?
L’intrusione, qui, non è soltanto quella del nuovo organo, ma anche di tutto l’apparato medico che ne accompagna l’intrusione: la ciclosporina che serve a prevenire il rigetto, e in generale l’intervento, l’apertura del petto (il “vuoto nel petto”), il decorso post-operatorio, l’esposizione immunitaria ai batteri, i farmaci, ecc.ecc.
In tutto questo processo l’identità si ricostruisce attorno a quel che si è come ammalati, all’identità ammalata (nel caso di Nancy: arrugginita, rigida, bloccata: naturalmente destinata a finire a 50 anni).
L’intruso è il nuovo cuore (e l’ombra del suo anonimo donatore), ma anche tutte le pressioni sull’io malato, ovvero, la classe medica, i familiari, gli amici – in fondo l’intera società, tutto quell’apparato ideologico che preme in vista di un prolungamento della vita – concordando sul fatto che ne valga la pena.
Ma qui “valerne la pena” è il convergere di molteplici motivi e spinte, non solo interne, ma anzi forse per lo più esterne: la sopravvivenza (resa possibile dalla biotecnologia: forse il più determinante degli estranei) è la tessitura di quella convergenza, di quella continua intrusione. In ciò diventa determinante l’aspetto quantitativo, ben più potente di quello qualitativo (si ricordi Seneca). A tal proposito scrive molto opportunamente Nancy:
«Non intendo disprezzare la quantità, né dichiarare che oggi sappiamo fare i conti solo con una durata della vita indifferente alla sua qualità. Sono pronto a riconoscere che anche un’espressione come “è sempre meglio di niente” voglia dire più di quanto non sembri. La vita non può che spingere alla vita. Ma essa va anche verso la morte: perché in me andava verso questo limite del cuore? Perché poi non l’avrebbe fatto?
Isolare la morte dalla vita, impedire che l’una sia intimamente intrecciata con l’altra, ecco ciò che non bisogna mai fare».
Ma ecco che dopo dopo alcuni anni arriva il cancro, un altro intruso, il linfoma che deriva dall’abbassamento delle difese immunitarie (i trapianti e la prevenzione del rigetto necessitano di questo intervento sul sistema immunitario, che in alcuni casi può provocare il cancro).
Nuova cura, nuovo trapianto – auto-trapianto di cellule staminali – nuova sensazione di intrusione e di estraneità.
Si esce squassati da tutto ciò, l’io non si riconosce più, o meglio è ora integralmente un io-malato, l’io-penso diventa io-soffro, lunga metamorfosi in un’altra identità: «Io finisce/finisco per non essere altro che un sottile filo che va di dolore in dolore e di estraneità in estraneità… un regime permanente dell’intrusione».
Nasce un nuovo io che si colloca ad una distanza infinita da tutto ciò, una “nicchia inespugnabile” – ma che è in realtà, insieme al corpo, la cifra estrema dell’esposizione, della vulnerabilità. E in questa nuova condizione l’uomo si fa il tecnico più terribile e inquietante, colui che snatura e rifà la natura.
***
(in forma di epilogo)
Dovrebbe ora risultare chiaro come la vita e la morte siano del tutto integrate in un sistema complesso, che ha a che fare con l’organizzazione politica, con le teorie scientifiche e biologiche, con lo sviluppo tecnologico, con la mentalità, la cultura e le ideologie dominanti, con le strutture economiche. Quel che definiamo “io”, la vita incarnata in un corpo cui applichiamo un nome e un’identità – è un processo stratificato, ai limiti del labirintico. Un rebus da decifrare, un mosaico da comporre e scomporre, nonostante stia sotto la nostra pelle e la nostra testa. Chi sono io? Che cosa è umano? Sono domande sempre più complicate, cui risulta difficile rispondere.
Simone Weil, a proposito del rapporto tra persona, collettivo e impersonale, rileva come cifra della nostra epoca lo sprofondare nel collettivo da parte degli individui, e la loro reificazione a causa della guerra: i soggetti si tramutano in oggetti, macchine, meccanismi.
Ciò di cui gli individui hanno invece bisogno è il “calore”. Weil ne parla sia ne La persona e il sacro, sia ne L’Iliade o il poema della forza. In entrambi questi scritti evoca non a caso il calore (i “bagni caldi”) – calore che manca in una società resa anonima, calore che viene sottratto a chi è costretto alla guerra, calore che manca nei corpi-macchine.
La condizione dell’umano si fa così “meccanica” sotto diversi punti di vista – quello politico e statuale, quello sociale, quello storico e militare, cui potremmo anche aggiungere il punto di vista medico: i corpi diventati macchine devono essere curati e rese efficienti, addirittura potenziati, anche attraverso una massiccia intrusione tecnica e chemiomeccanica. A quale scopo? Altra domanda che dobbiamo farci, e che ha forse a che fare con il modello di sviluppo e con l’antropologia del Capitale, che richiede corpi sempre più efficienti, produttivi, consumanti, performanti, omologati. Macchine felici che producono e consumano – consumando irreversibilmente la natura.
Vien da chiedersi che ne è delle anime o dell’essenziale dell’umano tramandato nei millenni in tutto questo: dove sta oggi la spiritualità, dove il sacro, dove il calore? Dov’è l’impersonale – quella costellazione di idee e di universali da realizzare – dopo la fuga di tutti gli dèi e di tutte le utopie dal nostro orizzonte?
Davvero molteplici e densi gli spunti e le ” connessioni” che rampollano da questa tua bellissima riflessione.
Personalmente, essendo reduce da letture socio-filosofiche- antropologiche , tra cui Han, ho rispolverato miei appunti e scambi sul senso del sacro. E ho seguito nuove tracce da te suggerite.
Ti ringrazio di cuore e ti auguro una buona domenica.
grazie cara Enza, a te buone letture e buona settimana!