«La mia più intima missione, quella cui per quarant’anni
avevo dedicato tutte le mie energie,
tutte le mie convinzioni – un’Europa unita e in pace –
era fallita.»
L’ultimo capitolo de Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo – l’autobiografia, di un’epoca ben più che individuale, che Stefan Zweig consegna ai posteri il giorno prima del suicidio – si intitola L’agonia della pace. Garzanti ne ha recentemente pubblicata una versione nella collana i piccoli grandi libri, immagino non a caso in questi tempi in cui la guerra torna a fare capolino in Europa – e che a non pochi osservatori rievoca un nuovo 1914: la fine, cioè, di un’epoca di relativa stabilità, e l’affacciarsi di un ignoto che annuncia possibili immani disastri.
Zweig vede nell’epoca da lui vissuta in prima persona (dagli inizi del secolo agli anni ‘30), tutti i chiari segni e sintomi della tragedia che sta per compiersi.
Vede il venir meno dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’umanitarismo; la crisi dell’idea di progresso; l’ipocrisia sociale, la crescita delle disuguaglianze, l’avvento del totalitarismo.
Vede il diffondersi di un certo genere di “complottismo”: l’impressione più che fondata che i giovani mobilitati e armati (ad esempio nella Spagna del ‘36) siano manovrati dai burattinai che siedono in misteriosi circoli e grandi aziende, e che possono captare e mettere al servizio della propria “volontà di potenza” il candore giovanile.
Vi sono alcune interessanti pagine londinesi su Freud (dal 1934, dopo che i suoi libri erano stati bruciati in Germania, Zweig era diventato un esule, prima in Europa poi in America): il “grande disvelatore”, l’”intransigente”, anch’egli in esilio, vecchio e ammalato, condivide con la comunità ebraica l’incapacità di comprendere quel che sta avvenendo. Zweig annota che fino al XIX secolo l’antisemitismo era “comprensibile”, gli ebrei sapevano di che cosa erano accusati e quale fosse la loro “colpa”. Ma nel XX secolo tutta questa costellazione di significati salta per aria – e nemmeno Freud, la mente più lucida dell’epoca, seppe rispondere.
Zweig pre-sente (soffre prima, nell’immaginario) quel che sta per avvenire, annusa chiaramente la catastrofe. Nel 1938 arriva persino a provare sollievo per la morte della madre, al riparo ormai da quel che sarebbe accaduto: già a Vienna, in quell’anno, le panchine sono vietate agli ebrei, e il solo pensiero che l’anziana madre, in una delle sue ultime passeggiate, non potesse sedere in un parco cittadino, era per lui intollerabile.
Vorrei anche ricordare alcune curiose riflessioni circa la “criminalizzazione” del viaggiatore europeo: schedato, vaccinato, burocratizzato, fino ad essere “umiliato”: sono assurde piccolezze, lamenta Zweig, ma piuttosto rivelatrici delle trasformazioni (irreversibili) arrecate dal Novecento. Quella che gli intellettuali democratici sognavano come l’avvento di un’epoca di libertà e cosmopolitismo, si è presto involuta in una totale perdita di dignità umana, in cui i soggetti sono trattati come oggetti: il timbro sul passaporto diventa un vero e proprio “marchio infamante”, e l’aria europea si va facendo per tutti più cupa ed asfittica, ogni più piccolo sintomo è lì a dircelo (chissà che cosa avrebbe detto oggi del famigerato green pass).
Lo scrittore austriaco avverte come il già pessimo clima europeo, a partire dalla metà degli anni ‘30, subisca una brusca accelerazione: la sequenza delle politiche di appeasement e l’Anschluss portano dritti ad una nuova catastrofe, dopo quella del ’14-’18, una catastrofe sia generale sia della comunità ebraica – e tutto ciò è particolarmente disperante, perché vissuto in corso d’opera, in fieri, con estrema lucidità, e, ancor più, perché descritto dall’angolo della morte nel quale via via Zweig si sentiva spinto e confinato: non sono cioè i ricordi di un sopravvissuto alla catastrofe, ma di un morente nella catastrofe. L’autobiografia si chiude non a caso il 1° settembre 1939, allo scoppio della guerra, segnando il bilancio di un fallimento, sia epocale che biografico: tutto quello in cui Zweig aveva creduto negli anni successivi alla grande guerra, crolla miseramente. E il crollo è ancor più doloroso – e soggettivamente definitivo – poiché nel 1942 prende la forma della decisione, insieme alla seconda moglie, di suicidarsi – il giorno dopo aver consegnato al suo editore lo scritto con le memorie.
Le cupe vampe che si alzano in Europa distruggono ogni cosa, ogni destino individuale e collettivo. La speranza è morta. Tutto precipita nell’abisso.
Ciononostante una concessione di tipo dialettico Zweig ce la vuole comunque lasciare, in punta di penna e di compimento biografico: da una parte il cielo azzurro e la bellezza estiva che cozzano contro la follia umana in quell’agosto del 1939 (come erano cozzati egualmente nel ‘14), e dall’altra l’inevitabile legge storica del susseguirsi di luce e tenebra, chiarezza e ombre, guerra e pace, splendore e decadenza. Di questo è fatta la vita, sia individuale che storico-collettiva. E noi non faremo eccezione.
Interessante lettura che ci riporta un po’ ai giorni nostri.