(semiserio sulla semiminaccia del semifascismo a venire)

Partiamo dai dati elettorali locali: nella mia ridente cittadina lombarda, che fa circa 14000 abitanti, sono andati a votare in 7400 degli 11000 aventi diritto, circa 2/3 (in linea con la media nazionale). Di questi poco più di 2000 hanno votato Fratelli d’Italia, un migliaio la Lega; alle Europee del 2019 la Lega prese da sola circa 3000 voti, e FdI 420: secondo me, a occhio e croce, son gli stessi elettori, centinaio più centinaio meno (anzi, parrebbe meno). Erano tutti già lì, e facevano parte del paesaggio socioantropologico paesano, quello che aveva introiettato lo slogan “prima gli italiani” (o prima la mia tribù, per semplificare).
3000 su 7400; 3000 su 11000 aventi diritto di voto – ma soprattutto 3000 su 14000. Poco più di 1/5 degli abitanti. Ovvero una netta minoranza. A me, al momento, non fanno nessuna paura, non danno particolari preoccupazioni (per lo meno non più di quelle che mi diedero 3 anni fa).
Certo, può sempre succedere che un “normale” cittadino subisca un’improvvisa mutazione e diventi un carnefice (è già successo in passato, lo sappiamo bene). Ma questo vale anche per gli altri 8000 (terrei fuori i bambini e i ragazzi, e, per il momento, gli adolescenti): nessuno può garantire che i candidati a diventare canaglie stiano tutti da una parte.

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Pòlemos

«In caso di attacco (non sporadica cannonata) al territorio russo, la Russia risponderà come ogni potenza nucleare risponderebbe nello stesso caso. Non è mai la prima opzione, per ovvi motivi, ma è una delle opzioni. Poi per carità, facciamo sempre finta che Putin sia un buffoncello che strilla a vuoto. Finora ciò che ha detto lo ha fatto. Io, a differenza di chi vuole chiamare il bluff sperando sia tale, spero che tutto questo sia propedeutico a un congelamento del conflitto. Io voglio che la guerra finisca, altri vogliono fare le gare».

Così lo storico Francesco Dall’Aglio.
Anch’io temo i folli che “vogliono fare le gare”. Che vogliono vincere. A tutti i costi.
Ma è la guerra – ora è chiarissimo, e non bisognerebbe mai dimenticarsene nemmeno negli apparenti tempi di pace – a costituire l’intelaiatura del mondo.
È modificabile questo mondo? Sì. Ma è dalla distruzione di quella tela malata – massima (ed eraclitea) espressione dell’ingiustizia e della dismisura – che occorre sempre ripartire.

Ci si adatta, ci si incazza

Va bene cuocere la pasta a fuoco spento, va bene stare a 19 gradi d’inverno (io già stavo a 18, quindi c’ho il bonus di un grado), va bene immaginare – come stanno facendo degli amici – di attuare una forma di nomadismo comune e solidale, in caso di ristrettezze, e condividere le case a turno nel corso dell’inverno. Va bene. Fa bene (alla salute e all’ambiente) e fa parte del capitolo adattamento.
Ma poi c’è l’altro piano, quello della critica sociale: è l’intero sistema ad essere sull’orlo del collasso, e tutte le cazzate propinate fanno parte della solita strategia mimetica e cosmetica: non c’è alcun futuro per questo stile di vita, siamo al capolinea e prima lo comprendiamo meglio è. Ma non basta comprenderlo, occorre passare all’azione e far scoppiare le bolle dei privilegi. Chi deve fare i sacrifici? Questa è l’unica domanda sensata.
Sopra il piano adattivo e sociale c’è quello ideologico, il più sottile e perverso, la sovrastruttura  che non manca mai: creare ad arte, psicologizzare e far interiorizzare le crisi, scatenare fobìe, farci sentire in colpa (già durante la pandemia e ora, nel corso della più grave crisi energetica e militare scatenata dalle avverse avidità imperiali). Sei responsabile tu – dice il dito puntato del potere.
Disertare da questa corresponsabilità e contribuire ad accelerare il collasso sistemico, è l’unica via d’uscita che vedo. Sarà dura? Durissima. L’inferno (e l’inverno) nucleare sarebbe comunque peggio.
La speranza è appesa ad un filo esilissimo.

Ismi

Enrico Letta parla di “emergenza democratica”, ma è un’espressione del tutto mal riposta se riferita a Giorgia Meloni (tra l’altro è specularmente lo stesso gioco utilizzato da Berlusconi a proposito del “pericolo comunista”). Niente di più falso, l’emergenza sta semmai da tutt’altra parte, e cioè nella totale impotenza della politica e dei governi che verranno nel fare o cambiare alcunché, materialmente, indipendentemente dal loro colore.
Chiunque vada al governo si troverà ingabbiato dagli -ismi nei quali ci siamo infilati da tempo: atlantismo, economicismo, produttivismo, scientismo, militarismo… E potrei continuare. Si tratta dell’ideologia-mondo alla quale abbiamo consegnato anche l’ultima cellula di psiche e di sovranità – e, direi, di costituzionalità. La Costituzione è stata svuotata dall’adesione acritica e pressoché automatica a tutte quelle gabbie e -ismi che appaiono ormai come irrinunciabili.
Ciò non vuol dire che occorra credere alla favola del “sovranismo” incondizionato: non esiste individuo, stato o comunità che sia del tutto autodeterminato e proprietario di se stesso. Ogni organismo – biologico o culturale – comparso sulla faccia della Terra dipende sempre e comunque da tutti gli altri.
Ciò non equivale però a rinunciare alla negoziazione della propria posizione nel mondo: e l’agire politico è – dovrebbe essere – proprio questa capacità di dialettizzare, confliggere, mediare e tessere relazioni e prospettare nuovi possibili intrecci. Soprattutto superare tutti quegli -ismi che perpetuano l’ingiustizia ed il privilegio. Ecco perché l’agire politico non è mai alienabile o delegabile in toto, pena la precipitazione in uno stadio subumano e superagito.
Se la politica non fa questo – se essa non è questo – diventa uno dei tanti -ismi: politicismo, tecnicismo, chiacchiericcio del tutto autoreferenziale e funzionale all’intoccabilità del sistema.
Questa è l’unica vera “emergenza democratica” che vedo.