[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 14.11.2022]
1. Quella che si vuol condurre in questo ciclo di incontri è un’indagine sulla storicità, ovvero il tentativo di andare a vedere quali sono i fondamenti della propensione umana a fare storia, a muoversi su linee del tempo, trasformando se stessi, gli ambienti naturali, le organizzazioni sociali.
La storicità è un portato “ontologico”, “naturale” dell’essere umano? Una sua facoltà costitutiva ed originaria, così come il suo essere politico per Aristotele? Oppure esistono culture senza storia, civiltà che della storia hanno fatto il loro fulcro e civiltà immobili, società fredde e società calde, per usare la distinzione dell’antropologo Lévi-Strauss?
Ovviamente non potremo non chiederci che cos’è la storia, anche se è alle sue spalle (o alle sue radici) che proveremo a muoverci, con la consapevolezza che proprio lo storicizzare, il concepire cioè ogni manifestazione umana e naturale come “storica”, sia parte essenziale della nostra mentalità (nella fattispecie della civiltà occidentale, che ha inevitabilmente condizionato gran parte delle culture e civiltà moderne): dunque ci chiederemo da storicizzati che cos’è che storicizza e rende storico il modo di guardare al mondo, un’operazione ai limiti dell’equilibrismo.
Ma proprio l’Occidente, che ha fatto della storia una sorta di emblema del suo modo di essere, un modo di stare al mondo irrequieto, che del divenire più che dell’essere ha fatto la sua cifra, proprio quell’Occidente iperstorico ne ha proclamato recentemente la fine: e non solo perché uno studioso statunitense ha scritto 30 anni fa, a ridosso del crollo sovietico e della caduta del muro di Berlino, un testo celebre, con quell’espressione che ha trovato sia entusiasti che critici – la fine della storia – ma perché nella classe e nell’ideologia dominante questa idea si è fatta parecchio strada, anche se con alti e bassi, modi trionfali e ritirate, in concomitanza proprio con i movimenti tellurici della storia.
La sensazione cioè che il modello occidentale, indubbiamente di successo per ragioni materiali oltre che culturali, sia una sorta di vertice, e che i “valori” europei e americani – democrazia, libertà, diritti civili, ecc. – siano una sorta di umanità compiuta, è tornata a manifestarsi con forza proprio in questi ultimi anni.
È questa una tendenza di lungo periodo della storia occidentale – già Voltaire, come vedremo, ne aveva parlato – ma che trova spesso modi contingenti di manifestarsi: è il caso dello scontro multipolare in atto, di cui la guerra ucraina è solo un episodio. E se proprio questa guerra, e una serie di episodi traumatici di quest’ultimo ventennio – dall’attacco alle Torri Gemelle, alle crisi economiche, dalla pandemia alla nuova stagione di confronto geopolitico – costituiscono la più radicale smentita delle tesi di Fukuyama: la storia è tutt’altro che finita, si è tutt’altro che compiuta, non solo, la storia non è unidirezionale né unipolare; nello stesso tempo, tutti questi eventi traumatici hanno trovato l’Occidente in declino subito pronto a riabbracciare quella ideologia suprematista e “finalista” che aveva nello slogan della fine della storia (e del suo fine) proprio il suo cuore.
L’oggetto di questa indagine vorrebbe però avere un respiro più generale e filosofico: che cosa rende storici gli umani? A questa domanda proveremo a rispondere a partire da un loro bisogno fondamentale, in gran parte a prescindere dalle specificità culturali: il lasciar tracce, memoria di sé – poco importa se in uno spaziotempo limitato o più ampio, se attraverso memorie orali o scritte, immagini o archivi. Il terrore degli umani (di tutti gli umani?) è quello di essere risucchiati nel nulla, nell’oblio: la memoria, la storia, la scrittura, le tracce di sé e il proprio riconoscimento – che, come vedremo, implica anche dure forme di lotta – sono le modalità attraverso cui gli individui e le loro organizzazioni collettive si sottraggono al vortice del nulla e dell’oblio.
E allora le parole essenziali su cui indagheremo, oltre a storia, non potranno che essere tempo, memoria, oblio, durata, permanenza… E proprio per la nostra costituzione storica, che però proveremo sempre a decostruire, non potremo evitare di farlo con un dialogo serrato tra presente e passato (ma anche il futuro sarà essenziale) – se è vero che, come dice lo storico inglese Edward Carr, è proprio questo dialogo perenne a costituire la storia.
Ed è dunque questo il senso del nostro “programma” di ricerca: la grecità, la classicità, il cristianesimo hanno costituito una certa immagine di temporalità e di storicità che non può non condizionare ciò che siamo. D’altra parte l’allargamento allo spazio mondiale – la costituzione di una vera e propria geostoria – sono altrettanto importanti: e dunque i viaggi che inaugurano la modernità, i rapporti con l’Oriente, con l’Africa e col Nuovo Mondo.
“Filosofie della storia” saranno poi quelle di cui ci occuperemo nello specifico a cavallo di ‘700 e ‘800, quando cioè si crea un circolo di pensatori europei che si chiede che senso abbia questa storia di “civilizzazione”, da dove viene e qual è il suo destino. E dunque Rousseau, Lessing, Herder, Kant, Marx… Fino alla messa in crisi di questa idea nel Novecento, dove il futuro – sia in termini foschi e “distopici” sia in senso emancipatorio – diventerà cruciale. Ecco allora Walter Benjamin con un’idea retrovolta, insieme irredenta e messianica della storia e Ernst Bloch che rifonda un’idea di storia e di emancipazione sulla base di un principio-speranza inscritto nella materia stessa e nei nostri corpi e desideri.
2. Credo però che potrà servire ad inquadrare meglio – e a dargli maggior concretezza – il senso della nostra ricerca e dei suoi concetti chiave, il confronto che proverò a mettere in scena tra due filosofi determinanti per la nostra contemporaneità, del tutto divergenti nelle loro idee sul tempo e sulla storia: l’uno – Hegel – arriva a sacralizzare la storia, a farne un vero e proprio idolo (una storiolatria, potremmo dire), laddove l’altro – Nietzsche – dissacra questa religione e giudica l’eccesso di storia una malattia della nostra epoca.
Ma proviamo ad entrare nel merito di questo confronto, che trova una chiarezza plastica nel testo di Nietzsche Sull’utilità e il danno della storia per la vita (la seconda delle Considerazioni inattuali, del 1874, parte di un ciclo di scritti sulla cultura europea, e in particolare tedesca, dell’epoca).
I termini del confronto sono già evidenziati nel titolo: storia e vita, peso del passato e perenne flusso vitale. Ed è Nietzsche stesso ad evocare, come oggetto critico ed antitetico al suo modo di intendere tale rapporto, la filosofia hegeliana, una filosofia che si fonda sull’idolatria del fatto, sul successo dei vincitori, su un’oggettività a suo giudizio pietrificata.
Ma per comprendere la critica nietzscheana dobbiamo prima evidenziare qualche aspetto della filosofia della storia di Hegel, il filosofo che più di ogni altro ha messo al centro del suo pensiero la storia umana e la storicità. Una centralità che viene più volte ribadita in opposizione alla pretesa superiorità della natura sullo spirito umano: più che nella natura il nucleo ideale del mondo si manifesta nelle realizzazioni storiche dello spirito umano.
Hegel individua proprio nel motore tempestoso (dialettico, negativo) della storia, la leva affinché l’uomo si realizzi: fine dello spirito umano è la libertà, ancor di più sapersi liberi, sapersi ciò che nelle proprie opere manifesta il senso profondo della razionalità del mondo. Ecco perché Hegel arriva a dire che ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale: non nell’idealismo soggettivo, nell’utopismo, nel sentimentalismo o nel narcisismo umano del “dover essere” sta il senso della storia, quanto piuttosto nella sua oggettività e realtà razionale. In tale realizzazione – Hegel non esita a dirlo – si manifesta anche il “mattatoio” della storia, dove “i periodi di felicità sono pagine vuote” e non pochi fiori innocenti vengono calpestati.
Ora, sulla libertà umana potremmo dire che, almeno apparentemente, tanto Hegel quanto Nietzsche convergono: né l’uno né l’altro pensano alla storia come a una “teologia” di tipo deterministico, in cui le cose accadono per necessità. Se però è vero che il fine è la libertà, è su che cosa si debba intendere per libertà che i due filosofi divergono: in Hegel la libertà degli individui può realizzarsi solo all’interno di strutture spirituali (come lo Stato), laddove per Nietzsche sono proprio queste strutture (compresa la memoria) ad impedire la libera realizzazione di sé – il cui soggetto non è lo spirito, quanto piuttosto la vita.
La contrapposizione non può essere più netta: basti pensare alle figure o alle metafore utilizzate da Nietzsche nel suo saggio, che pure parte dall’importanza della storia nelle sue tre forme (monumentale – esempio per gli attori del presente; antiquaria – finalizzata al radicamento, al sentirsi parte di qualcosa; critica – in grado cioè di sganciarsi dal condizionamento del passato), ma che non perde occasione per dare la sua preferenza alla vita piuttosto che alla storia.
E così, l’uomo moderno si porta in giro un’enorme quantità di indigeribili pietre del sapere; noi siamo “enciclopedie ambulanti”;
latori di storie, senza nessun evento;
compendi incarnati, astrazioni concrete, macchine per pensare/scrivere/parlare;
affetti dalla superstizione di essere epigoni;
uomini che nascono con i capelli grigi, dall’innata canizie;
passivi, retrospettivi, popolo di discendenti; ecc.ecc.
Per Nietzsche ciò che è vivo deve avere intorno a sé un orizzonte, un’atmosfera, una misteriosa sfera vaporosa – ma questa atmosfera si fa asfittica se saturata dal peso della storia, della memoria, del passato. Il problema è l’eccesso di storia e di storicità, più della storia in sé.
Hegel non può che incarnare agli occhi di Nietzsche la statolatria, l’idolatria del fatto, la tirannia del reale, di ciò che proprio perché realizzatosi viene ritenuto razionale, necessario. Tutto ciò appare come antivitale, contrario alla gioventù e al perenne rinnovarsi del mondo, negatore della possibilità: ciò che mina e sradica i più forti istinti della gioventù, ossia l’ardore, l’ostinazione, l’oblio di sé e l’amore. Infine: la forza e l’arte di poter dimenticare.
In Hegel l’oblio non è ammesso – o, meglio, è rappresentato dalla parola chiave Aufheben – superamento ma insieme conservazione, una sorta di pacificazione conoscitiva; in Nietzsche l’oblio è la forza vitale ed anarchica che si libera del peso della storia e del passato.
Naturalmente vi è qui una semplificazione eccessiva, anche perché Hegel ritiene che la passione, e dunque gli istinti vitali, siano essenziali per lo svolgimento storico: “nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione” (Lezioni sulla filosofia della storia, I vol.). Ma i singoli, i popoli, persino i continenti vengono fatti a pezzi dalla storia, usati e poi gettati: eppure non si tratta di una eterodirezione, non c’è alcun dio o meccanismo esterno a dirigere gli eventi, è proprio il modo di funzionare dello spirito umano, la sua libertà di autorealizzarsi – il suo modo dialettico di dispiegarsi.
Il filosofo, però, giunge solo al termine del processo. Qui Hegel è molto chiaro: così come non sono gli ideali soggettivi o il dover essere, ma la concretezza oggettiva dell’accadere storico a costituire il contenuto della libertà, sarà solo a posteriori, quando ormai tutto è accaduto, che ne risulterà chiaro il senso.
La conoscenza non potrà che essere “la rosa nella croce”, l’unica consolazione sulla strada della “fredda disperazione”: la pacificazione con la realtà non avviene mai nel cuore della battaglia, ma solo a cose fatte: «è una pace più calda con essa, quella che la conoscenza fa avere […] Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo» (Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione).
Ma questo “inginocchiarsi ai fatti” – obietta Nietzsche – questo «prendere tutto obiettivamente, non incollerirsi di nulla, comprendere tutto: come rende mansueti e flessibili tutto questo!»: il venire a patti con la realtà, comprenderla, farsi carico di un passato irremovibile, è quanto di più antivitale ed autorepressivo ci possa essere. Natura naturans! – esclama Nietzsche alludendo a Spinoza e alla sua idea generativa e onnilaterale di natura. Le vere nature storiche sono quelle che lottano contro la storia, che non si curano dell’è così, preferendogli il dev’essere così, il così voglio che sia. Ovvero, l’esatto rovesciamento della concezione hegeliana – e di ogni concezione oggettiva, fattualistica, realistica della storia. Dunque di ogni filosofia della storia.
Credo che questo serrato confronto, che ci ha consentito di schierare tutte le questioni scottanti relative alla storicità – il ruolo dell’individuo, il fine della storia, il rapporto tra passione e ragione (l’hegeliana astuzia della ragione), il concetto di libertà (e, direi, di umanità), la visione del tempo, della memoria e dell’oblio – non abbia ancora trovato una soluzione.
È sul filo di tali questioni più che mai aperte, che proveremo a condurre la nostra ricerca.