Il corpo della voce

Mi piacerebbe scrivere qualcosa di sensato sulla voce. O, meglio, sul corpo della voce. Sulla sua fisicità, tonalità, sul timbro, sull’intensità, la profondità, l’altezza, l’estensione. Sugli effetti che questo corpo sottile che emette suoni, sia articolati che inarticolati, causa negli altri. Ma in primo luogo in sé: ascoltare la propria voce è un’esperienza primigenia essenziale. Immagino che la voce venga poi plasmata, partendo da una base biologica, attraverso una serie di meccanismi legati alla socialità, all’educazione (il canto, la lettura a voce alta, l’ascolto di sé e degli altri, l’imitazione dei suoni, le onomatopee, ecc.).
Insomma, un processo di formazione di grande fascino e complessità.
Ma è quel che la voce genera nell’altro ad affascinarmi ancora di più: il corpo della voce si annoda ai sensi e all’emotività della persona amante o amata, agli amici, agli affetti, alla cerchia di persone con cui interagisci. Basti pensare al ruolo della voce, alla sua “impostazione”, nella comunicazione, nell’oratoria (e, ahimé, nella propaganda). Voce poetica, voce della sapienza filosofica (che un tempo si trasmetteva oralmente), voce dei saggi, degli anziani, voce del canto.
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Non-democrazia

Non vedo un “pericolo fascista” in Italia, anzi il rischio è che si gridi “al lupo al lupo”, e non si veda il vero pericolo che si staglia all’orizzonte, che potremmo definire della non-democrazia.
Siamo ormai da anni in presenza di nuove forme politiche degli stati, non più classificabili come democratici o autoritari o liberali o autocratici, ma come sempre più svuotati di partecipazione popolare e riempiti di tecnocrazia, dirigismo ed ora, sempre più chiaramente, di militarismo.
Ormai nelle vecchie democrazie chi governa viene per lo più scelto e controllato da élites che hanno a disposizione grandi risorse e un’enorme influenza mediatica, e sempre più esigue minoranze di cittadini si limitano a ratificarne il potere (così funzionano le elezioni presidenziali americane, ma non solo).
Hans Jonas prevedeva che le grandi crisi ed emergenze che si stavano profilando all’orizzonte, avrebbero richiamato nuove forme di autoritarismo: basti pensare al periodo pandemico e ai suoi dispositivi, su tutti l’obbligo vaccinale e il green pass, come effettive forme di sospensione dei diritti individuali, in nome di un’emergenza collettiva. Una prima prova generale di quel che avverrà, presumibilmente, con le crisi ecosistemiche, climatiche ed energetiche.
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Filosofie della storia – 4. Da Rousseau a Marx

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 13.02.2023]

È a partire dal ‘700, il secolo dei Lumi, che in Europa si viene formando una coscienza storica (e filosofica) che mette insieme quei salti temporali e spaziali che avevano preparato l’epoca moderna: l’idea, cioè, di un tempo lineare e progressivo e di uno spazio geografico globale, insieme al problema crescente della relazione tra le diversità culturali ed antropologiche, trovano una prima grande sistemazione concettuale nei filosofi a cavallo tra XVIII e XIX secolo, in un arco che va da Rousseau a Marx. Già Vico, poco prima, aveva chiamato non a caso “scienza nuova” la storia – l’unica scienza rigorosa possibile: se è vero che verum e factum corrispondono, e che la natura è fatta da Dio e solo Dio può conoscerne le leggi interne, allora ciò deve valere per la storia in relazione agli uomini, che proprio perché la fanno possono conoscerla dall’interno. Manca ancora un passo, che verrà fatto solo nel secolo successivo: poiché gli uomini fanno la storia, possono eventualmente anche disfarla e deviarne il corso.
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La forza di Leningrado

L’Orchestra sinfonica di Milano ha eseguito ieri la Settima sinfonia di Shostakovich, nota come Leningrado, una delle sinfonie più amate ed entusiasmanti del musicista russo (ma mi verrebbe da dire “sovietico”).
Per quanto la parola “entusiasmo” sia del tutto fuori luogo, poiché si tratta di una sinfonia diventata il simbolo della resistenza umana e culturale sotto l’assedio delle armate naziste cominciata con l’invasione del 1941.
Le vicende che riguardano l’opera hanno un carattere inevitabilmente epico, sia per quanto riguarda la sua genesi, sia per le vicissitudini: la disperata ricerca per raggiungere l’organico necessario di 100 elementi, la prima prova durata solo un quarto d’ora per eccessiva debolezza dei musicisti, il viaggio rocambolesco della partitura fino a New York, dove venne eseguita dall’antifascista Toscanini e glorificata dagli alleati americani (salvo rimuoverla nel dopoguerra a causa della guerra fredda), l’applauso di un’ora dei cittadini di Leningrado, dove la sinfonia venne eseguita solo il 9 agosto 1942, con tanto di altoparlanti diffusi in città, i soldati tedeschi frastornati…
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Letture filosofiche: Il manifesto

Le straordinarie pagine del Manifesto del partito comunista sull’avvento dell’epoca borghese: desacralizzazione di ogni cosa, evocazione di potenze inaudite, precarizzazione del mondo, omologazione ed incantamento.
Ancor più vere oggi le parole di Marx ed Engels, dopo un secolo e tre quarti.

Selvaggi e degenerati

La spocchia liberale e il supposto primato dell’Occidente hanno una lunga storia e sedimentazione nella mentalità, sia intellettuale che corrente.
Francis Bacon, che vedeva nelle vele e nei cannoni un simbolo di progresso, sostiene ad esempio in Ad Advertisement Touching an Holy War che così come esistono persone da mettere al bando, esistono nazioni da mettere al bando, ovviamente per legge di natura o volere divino. Questi paesi riottosi sono piuttosto «orde e branchi, dal momento che sono genti del tutto degenerate rispetto alle leggi di natura», ed è dunque legittimo se non doveroso «eliminarli dalla faccia della terra».
Alla fine del ‘700 il giurista Emer de Vattel, uno dei codificatori del diritto internazionale, scrive senza peli sulla lingua che «le nazioni sono giustificate nell’unirsi come unico corpo allo scopo di punire, e perfino sterminare, genti così selvagge».
Se ne ricava che paesi “civili e ordinati” possono legittimamente distruggere paesi “canaglia” degenerati e indegni di vivere nel consesso delle nazioni.

[fonte: Amitav Gosh, La maledizione della noce moscata]

 

Retrospettiva pasoliniana

[Ho rivisto tutti i film di Pasolini, in ordine cronologico. Man mano ho scritto degli appunti, che ho raccolto qui]

Accattone (1961) è ancora vivissimo: le camminate dialoganti sullo sfondo delle borgate, il coro dei ragazzi al bar che sottolinea i passaggi del dramma del protagonista, l’invivibilità dei luoghi, ma soprattutto le riprese dei corpi, dei volti, degli occhi del sottoproletariato romano (niente attori professionisti!) – sono un vero e proprio manifesto estetico, etico ed antropologico, derivante ovviamente dalle sue precedenti prove letterarie e dai suoi “ragazzi di vita” (e meno male che Pasolini non padroneggiava la tecnica – come ebbe a dire Fellini, che infatti non gli produsse il film).
Ma è sulle figure femminili che, questa volta, ho concentrato l’attenzione: Maddalena la prostituta reietta, la moglie di Accattone e, soprattutto, l’innocente Stella. Sono le donne, per lo più, a lavorare e a dover sbarcare il lunario – mentre l’eroe sottoproletario, libero dalla fatica del lavoro, non riesce a sottrarsi al suo destino tragico: “ora sto bene”, dice morente contro il marciapiede.
Accattone è vivissimo, ma solo una dozzina di anni dopo Pasolini avrebbe detto che non sarebbe stato più possibile girarlo: il “genocidio” di un’intera cultura si era già compiuto.

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Alienazione strategica

Quel che dovrebbe turbare di più quando si parla di guerra – di questa guerra in particolare, ma vale per ogni guerra – è la presa di distanza, l’astrazione, la disumanizzazione con cui per lo più se ne parla. Sia la visione geopolitica, più o meno cinica o brutale, sia quella militare, propagandistica, ideologica – tutto concorre a rappresentare il fenomeno guerra come un dispositivo, una megamacchina, di cui gli umani – i soldati, gli arruolati a forza, spesso i civili – sono solo dei “pezzi” (Stücken, come i nazisti nominavano gli ebrei internati nei campi).
Era stato Hegel ad evocare ed elogiare il “progresso” della guerra moderna, tramite la polvere da sparo, verso una forma di astrazione che nascondeva il volto e il corpo del nemico: la guerra non è più (ammesso lo sia stata in qualche epoca) una faccenda eroica del “corpo a corpo”, ma diventa un enorme meccanismo di cui i combattenti (e nel Novecento i civili come “mobilitati totali”) sono solo ingranaggi.

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Il meccanismo della guerra

«Considero gli uomini non civilizzati come una moltitudine di meccanismi sparsi e isolati. Senza dubbio, se capitasse a qualcuno di questi meccanismi di urtarsi, l’uno o l’altro, o entrambi si romperebbero. Per ovviare a tale inconveniente, un individuo di profonda saggezza e di genio sublime riunì questi meccanismi e costruì una macchina, e in questa macchina – detta società – tutti i meccanismi furono resi attivi, reattivi fra loro, logorati senza sosta. E se ne ruppero più in un solo giorno sotto lo stato legislativo, di quanti se ne rompessero in un anno sotto l’anarchia naturale. Che fragore! Che rovina! Che enorme distruzione di piccoli meccanismi, quando due, tre, quattro di queste macchine enormi vennero a urtarsi con violenza».

(D. Diderot, Ritorno alla natura. Supplemento al viaggio di Bougainville)