Filosofie della storia – 4. Da Rousseau a Marx

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 13.02.2023]

È a partire dal ‘700, il secolo dei Lumi, che in Europa si viene formando una coscienza storica (e filosofica) che mette insieme quei salti temporali e spaziali che avevano preparato l’epoca moderna: l’idea, cioè, di un tempo lineare e progressivo e di uno spazio geografico globale, insieme al problema crescente della relazione tra le diversità culturali ed antropologiche, trovano una prima grande sistemazione concettuale nei filosofi a cavallo tra XVIII e XIX secolo, in un arco che va da Rousseau a Marx. Già Vico, poco prima, aveva chiamato non a caso “scienza nuova” la storia – l’unica scienza rigorosa possibile: se è vero che verum e factum corrispondono, e che la natura è fatta da Dio e solo Dio può conoscerne le leggi interne, allora ciò deve valere per la storia in relazione agli uomini, che proprio perché la fanno possono conoscerla dall’interno. Manca ancora un passo, che verrà fatto solo nel secolo successivo: poiché gli uomini fanno la storia, possono eventualmente anche disfarla e deviarne il corso.
Non è poi un caso che proprio nel ‘700 nasce il termine filosofia della storia, usato per la prima volta da Voltaire, che intitola così una sua opera. Ma quella di Voltaire è in verità una visione piuttosto pessimistica della storia: non consegue, cioè, dall’uso di quell’espressione alcun senso continuativo, organico, progressivo ed ottimistico del procedere storico. Prevale semmai l’idea che si tratti di un cumulo di insensatezze, crimini, guerre, superstizioni, mentre solo qua e là emerge qualche momento che lo storico può ascrivere ai “progressi” umani: Pericle, Augusto, il Rinascimento e il secolo di Luigi XIV. Poco altro.
Ciò non toglie che Voltaire abbia in mente una sorta di paradigma di uomo naturale – da intendersi aristotelicamente come uomo compiuto, che persegue un proprio télos, un fine – e che lo veda, non a caso, nelle tipologie rappresentate da Locke e Newton, dalla borghesia bianca, colta, occidentale, come abbiamo visto la volta scorsa. Una sorta di “wasp” ante litteram.

Del tutto opposta è la visione che di questi “progressi storici” e del compimento umano ha Rousseau, su cui ci fermeremo ora un momento. È il concetto di natura e di uomo naturale ad essere dirimente nell’analisi antropologica del filosofo ginevrino – che proprio il grande antropologo Lévi-Strauss ritiene il fondatore delle scienze umane e dell’etnologia – analisi che si innesta alla ricerca storica sul processo di “civilizzazione”.
Il suo Discorso sull’origine della disuguaglianza (1755) è innanzitutto una ricognizione del processo che ha portato fino ai progressi della modernità, a partire da uno stato originario di “natura”, servendosi come modello degli stadi intermedi di altre società e culture (tra cui quelle cosiddette “selvagge”) al fine di verificarne la dinamica: si tratta soprattutto dello sforzo di andare all’origine dell’umano per ripercorrerne gli sviluppi e gli eventuali deragliamenti o snaturamenti (cosa di cui Rousseau è fermamente convinto). Le questioni che egli pone sono cruciali, poiché vertono sul senso della storia, del tempo e del progresso umano, sul rapporto tra natura e cultura, su che cos’è naturale e che cosa artificiale, ed è in particolare una riflessione sulla “natura umana”: per capire, cioè, che cosa ha portato a questa espansione inizialmente sorda, poi sempre più ampia dell’umano sul globo, Rousseau chiede all’uomo di rientrare in sé, e riflettere su che cosa egli sia. E lo fa servendosi della più poderosa diversità venuta alla luce fino ad allora, emersa proprio con la scoperta di nuovi mondi e nuove forme culturali e di vita, non certo riducibili alla primordialità o all’uomo primitivo.
Ciò che Rousseau auspica è che la filosofia cominci finalmente a viaggiare, anziché lasciare questo monopolio alle merci e ai cannoni: tutto è importante in questa ricerca che, osservando le diversità, porta il filosofo-viaggiatore  a riflettere su ciò che è comune a tutti gli umani. In particolare il linguaggio (cui dedicherà un saggio), ma anche la tecnica, la razionalità, l’emotività, i rapporti parentali, la religiosità, le forme politiche, ecc.
E alla radice dell’umano Rousseau crede di rinvenire alcune caratteristiche, universali sì ma più potenziali di quanto non siano compiute e definite una volta per tutte: oltre alle forme biologiche originarie del suo essere parte del vivente (amor di sé e pietà), due facoltà in particolare fanno dell’uomo naturale un possibile uomo storico, ovvero libertà e perfettibilità. Le “carenze” umane diventano così il motore della sua uscita dallo “stato di natura” e dalla sfera dell’animalità.
Ma proprio in virtù della tipologia di queste facoltà originarie, senza le quali l’uomo non è uomo, Rousseau pensa che non sia possibile definire un unico arco di sviluppo, un unico corso possibile nella storia umana, che – come pensava Voltaire, e come l’ideologia coloniale ed eurocentrica andrà sempre più teorizzando – porta dai primitivi direttamente all’uomo “civilizzato”. Per Rousseau l’appellativo di “civile” ha un significato ambiguo, quando non addirittura riferibile allo snaturamento e alla negazione delle facoltà umane: nel suo schema storico, tra l’altro, non regnano leggi necessarie, quanto piuttosto il caso o la contingenza (hazard): sarebbe potuta andare diversamente, nulla era predeterminato e prescritto, proprio perché libertà e perfettibilità sono i paradigmi dell’uomo naturale.
Questo uomo naturale – che non è riducibile alla figura del primitivo, e nemmeno a quella del “buon selvaggio” (anche se Rousseau solidarizza con i popoli barbari o selvaggi volentieri) – diventa così nel pensiero roussoiano una idea regolativa, se non addirittura una figura utopica, o un concetto-progetto, come sostiene Luciano Parinetto, il quale la avvicina ad altri pensatori di questo periodo, che preparano la “filosofia della storia” rivoluzionaria di Marx: lo stato di natura è uno stato che «non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai» – è uno stato, cioè, quantomai utopico.

Herder, giusto per fare il nome di un illuminista atipico, con tratti  decisamente romantici (ma è abbastanza ozioso trovare caselle ai pensatori), condivide con Rousseau questa idea di rientro in interiore homine. Uno dei progetti a cui si dedica costantemente nella sua vita di studioso è un affresco totalizzante della storia umana: prima dei suoi testi più maturi, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità è il titolo di un breve scritto del 1773 che vorrebbe mettere a fuoco un tema prediletto quanto ambizioso, la “storia dell’umanità”. In questo affresco abbozzato, troviamo gli ingredienti essenziali di una visione quantomai interessante – e controcorrente – della storia umana:
-il pellegrinaggio ideale nei “mondi scomparsi”
-il ritorno alla natura più intima e profonda dell’uomo (in linea con Rousseau)
-la centralità delle lingue nel definire le culture umane, la loro anima ed essenza
-l’idea di Bildung, di perenne formazione dell’umanità
-ma nello stesso tempo la critica serrata ad ogni omologazione ed imposizione dall’alto (la lingua francese dei lumi, il cosmopolitismo illuministico vengono così letti come un livellamento estraneo, un rullo compressore sulle culture: che direbbe Herder oggi dell’anglicismo, del “pensiero unico” e della lingua neoliberale?)
-la ricerca della tipicità umana nelle comunità antiche o “selvagge”, al riparo dall’omologazione, soprattutto nell’elemento della poesia e dell’arte (un’attenzione meno presente in Rousseau)
-il “ritorno al passato” – il recupero del mondo biblico, civiltà barbariche o del Medioevo – ha in Herder una valenza di radicale critica del presente: la meccanizzazione del mondo (anche politica, con stati dispotici), l’urbanizzazione, l’alienazione moderna già così precocemente individuata, in particolare nelle città simbolo di civilizzazione.

Prima di passare a Marx e ad una idea di filosofia della storia che tiene presenti alcuni di questi tratti, soprattutto nella loro dimensione critica e di rottura con il tempo lineare, può essere utile spendere due parole su un breve scritto di Kant, meno noto del Progetto di pace perpetua, ma altrettanto interessante, ovvero Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784).
Kant premette sconfortato, come già Voltaire, che la storia umana è intessuta di idiozie, di vanità infantile, di cattiveria e smania di distruzione. Ciò nonostante, poiché si tratta di un essere razionale (l’unico sulla Terra), le sue disposizioni naturali sono destinate a dispiegarsi in un fine che, però, riguarda il genere, non il singolo. Anche Kant rileva la “scarsità” della dotazione naturale, come se il fine della natura fosse di obbligarci ad uno sforzo, ad una dialettica dell’ostacolo, ad una lunga fatica intergenerazionale. Non solo, gli uomini sono affetti da innato antagonismo, da insocievole socievolezza: anche questa conflittualità, che comprende la brama e l’avidità, è finalizzata ad uno scopo più alto e morale. E però, pur avendo gli uomini “bisogno di un padrone”, per quanto la guerra distolga energie dallo sviluppo interno delle società, pur credendosi essi civilizzati, in realtà sono ben lontani dall’essere moralizzati. Kant auspica l’avvio di un processo illuministico cosmopolitico: possibile che proprio la creatura razionale per eccellenza non possa portare a termine, anche se in un lontano futuro, ciò che è inscritto nella propria natura?

Ma sarà solo la “filosofia della storia” di Marx, che riprende in termini critici quella hegeliana, e che mette a frutto il pensiero dei filosofi illuministi, a dispiegare interamente la propria agibilità politica. Marx lo annuncia con l’XI tesi su Feuerbach – i filosofi hanno finora interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo – mettendo così in primo piano lo stretto rapporto tra teoria e prassi, bussola che non abbandonerà mai.
Per la formazione di questo nuovo pensiero – il socialismo scientifico, o l’annuncio di una nuova visione della storia – sono cruciali gli anni ‘40 del XIX secolo: i Manoscritti economico-filosofici, L’ideologia tedesca, il Manifesto del partito comunista sono gli scritti in cui questa nuova visione si fa strada. Ma il corso della storia e la sua agibilità politica sarebbe incomprensibile senza la visione antropologica che vi sta dietro: così come Rousseau ritiene la perfettibilità una categoria “naturale” – da intendersi come facoltà operativa, non come essenza intangibile – allo stesso modo Marx parla di Gattungswesen (essenza specifica) e di onnilateralità degli esseri umani. Il “compimento” dell’uomo sta nel suo rimanere fluido e libero di autodeterminarsi in ogni direzione e di sviluppare ogni sua facoltà sensibile e spirituale. Certo, in tutto questo occorre sempre tenere presente il suo rapporto dialettico con la natura (Marx ne parla come del suo “corpo inorganico”). In tutto ciò la corporeità, la sensibilità, la stessa sessualità hanno un’importanza cruciale, contro tutte quelle ideologie reazionarie e religiose tendenti a conculcare o a offrire immagini dell’umano fissate una volta per tutte in modelli statici e funzionali al mantenimento dell’ordine sociale ingiusto. L’uomo totale e onnilaterale non è un essere umano compiuto e definito una volta per tutte, quanto piuttosto un essere in perenne divenire. Già nei Manoscritti economico-filosofici Marx giunge all’importante risultato che la storia è legata alla produzione e che l’uomo produce il proprio mondo, dunque la propria storia, ma solo togliendo l’alienazione (non teoricamente ma praticamente) sarà realmente libero ed emancipato. Se l’essenza umana è l’attività lavorativa, la sua mercificazione capitalistica comporta l’alienazione di ciò che è più proprio dell’uomo, la sua vampirizzazione. Ma è con L’ideologia tedesca, testo scritto a quattro mani con Engels negli anni 1845-6, che tale concezione viene formulata in maniera più chiara e, soprattutto, con definitiva consapevolezza storica.
Qui Marx stabilisce per la prima volta il primato della struttura sulla sovrastruttura, della vita sulla coscienza e sulla produzione ideologica, criticando così tutte quelle concezioni che astraggono dalle condizioni storiche date reali e che parlano di “uomo” anziché di “uomini storici reali”. Marx critica radicalmente le concezioni che naturalizzano e fissano per sempre (ipostatizzano) i dati storici e umani, cioè tutte quelle teorie e ideologie che parlano di Uomo, Natura umana, Essenza, Storia, ecc. Così come riprende più concretamente, applicandola all’organizzazione e alla divisione del lavoro, alla scissione in ruoli e alla riduzione meccanica, il tema dell’alienazione, della estraneazione e della reificazione: il capitale omologa gli umani e fa credere ad essi che l’ingiustizia e la disuguaglianza siano naturali e necessarie.
Il comunismo, di conseguenza, non può essere uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale a cui il reale deve conformarsi, non è un dover-essere. Chiamiamo comunismo – scrive Marx – il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Il comunismo è processo, perenne divenire, rivoluzione permanente, costante liberazione sociale e individuale di energie e di possibilità. Non solo: per la prima volta la storia è agita e non subita dal soggetto che Marx individua come il volano del suo nuovo corso liberatorio e di rottura, un soggetto che non può più essere un astratto e metafisico “spirito” o una generica umanità, bensì una classe sociale, quale è quella del proletariato, storicamente determinata e fino ad ora assoggettata, sfruttata, asservita.
Nasce però qui un problema, che sarà cruciale per la storia futura del marxismo e del comunismo: se la lotta di classe, la dialettica e le contraddizioni, la negatività sono il motore e l’energia della storia, la loro eliminazione con la depoliticizzazione e l’instaurazione di una società senza classi non comporterà la fine della storia? E questo non è in contraddizione con le premesse, cioè con la perenne storicità degli esseri umani e delle società da loro costruite?
Non vi è cioè il rischio che una filosofia fluida della storia si ipostatizzi in una filosofia necessitante, dogmatica e deterministica? Non è stato forse questo – insieme all’economicismo – il grande problema dei tentativi novecenteschi di instaurare il comunismo? Marx parlò, è vero, di una preistoria, regno dell’ingiustizia e delle lotte di classi, e dell’avvento della storia solo con il comunismo, ma ciò non fuga affatto i dubbi, se anche dovessimo considerare i tentativi (per lo più falliti) ancora parte di una fase arretrata della civilizzazione, formazione ed unificazione umana.
D’altro canto dire con Hegel che la storia umana – l’avventura dello spirito – è la realizzazione della libertà vuol dire tutto e niente: qual è il contenuto di quella libertà? Marx, cioè, non accetterebbe mai una disconnessione di teoria e prassi: la storia modifica se stessa a partire dalla propria dialettica materiale, non le si possono imporre dogmaticamente principi o idee, che sono a loro volta produzioni storiche determinate. Questo valeva per il comunismo, ma vale a maggior ragione per il neoliberismo: pensare che esso sia il fine naturale della storia umana è pura ideologia – produzione ideologica di chi ha interesse a conservare assetti sempre più ingiusti e diseguali (e ormai insostenibili per il nostro “corpo inorganico”: nel Manifesto viene non a caso citata la ballata goethiana dell’apprendista stregone e la capacità di incantamento del capitale, che però finisce per non saper più controllare le potenze evocate).
La domanda che possiamo farci oggi è se possa ancora esistere una qualche forma di filosofia della storia, un’idea di Bildung e di formazione dell’umanità, un progetto comune, una tensione alla trasformazione – evitando però ogni forma di colonizzazione ed omologazione. Rousseau raccomandava a tutti i repubblicani del mondo di resserez les limites, rientrare nei limiti e nei confini: sembra un grido disperato in un presente in cui i meccanismi statali, le grandi macchine globali (le “potenze estranee” di cui parla Marx nel Capitale), macinano ogni differenza, distruggono intere culture (i genocidi di cui parlava Pasolini), fanno della storia tabula rasa.
Il linguista Harald Haarmann, così come i già citati paleontologi-antropologi Graeber e Wengrow, parla in una sua interessante ricerca di “culture dimenticate” che, come i “mondi scomparsi” di Herder e le tesi antropologico-storiche di Rousseau, ci danno degli indizi su come la storia – o, meglio, le storie al plurale – avrebbe potuto marciare diversamente. In questo momento la filosofia della storia vincente è quella dello sviluppo a senso unico e a tutti i costi, del consumo infinito e dell’aumento indeterminato del PIL, una storia puramente quantitativa che annuncia disastri: esiste un’altra storia possibile, o il destino umano è già segnato?

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Autore: md

Laureatosi in Filosofia all’Università Statale di Milano con la tesi "Il selvaggio, il tempo, la storia: antropologia e politica nell’opera di Jean-Jacques Rousseau" (relatore prof. Renato Pettoello; correlatore prof. Luciano Parinetto), svolge successivamente attività di divulgazione e alfabetizzazione filosofica, organizzando corsi, seminari, incontri pubblici. Nel 1999, insieme a Francesco Muraro, Nicoletta Poidimani e Luciano Parinetto, per le edizioni Punto Rosso pubblica il saggio "Corpi in divenire". Nel 2005 contribuisce alla nascita dell’Associazione Filosofica Noesis. Partecipa quindi a un progetto di “filosofia con i bambini” presso la scuola elementare Manzoni di Rescalda, esperimento tuttora in corso. E’ bibliotecario della Biblioteca comunale di Rescaldina.

2 pensieri riguardo “Filosofie della storia – 4. Da Rousseau a Marx”

  1. pregevole articolo; tuttavia nella parte finale ove si parla di capitalismo
    c’è un fraintendimento di fondo comune a tutte le critiche al nostro sistema; il capitalismo ed il libero mercato vengono trattati e discussi
    alla stregua di ideologie; vi sono indubbiamente ideologie che si innestano
    sul capitalismo ed il libero mercato,come ad esempio il neoliberismo che è in molti aspetti a mio avviso da ricusare , ma capitalismo e libero mercato sono tecniche di produzione e distribuzione di merci con l’obiettivo di una efficienza sempre migliorabile ; il fatto che siano tecniche è dimostrato dalla loro adattabilità ed elasticità ,qualità che spesso le ideologie non hanno ,tanto che esiste un capitalismo di stato che in Cina ha prodotto
    performance economiche invidiabili e creato una ricchezza impensabile fino a 40 anni fa ; altre forme di capitalismo di stato si intrecciano con forme di capitalismo privato in varie gradazioni sia in stati democratici sia in autoritari ; identificare il capitalismo come tecnica significa che ogni critica deve essere accompagnata da una proposta di una nuova tecnica di produzione e distribuzione e quindi di creazione di ricchezza che almeno eguagli la vecchia .
    Non si vedono proposte alternative all’orizzonte e quelle praticate in passato hanno causato miseria e oppressione; mi viene il dubbio che
    nessuno abbia proposte alternative ma solo migliorative e che il trattare
    come ideologia il capitalismo sia un modo per contrapporgli appunto un’ideologia in mancanza di altro…

  2. Giusta distinzione. D’altra parte già operante in Marx che da una parte fa una “critica dell’economia politica” – se si vuole di una delle forme ideologiche che si accompagnano al sistema produttivo – e dall’altra non ha mai immaginato di retrocedere da quella tecnica, ma di renderla un bene comune. È d’altro canto vero che questa tecnica parte da un assunto insostenibile sul lungo periodo, ovvero un’accumulazione ed un’estensione indeterminata, e un’integrale mercificazione di natura, umani ed essere in generale. Dal che l’urgenza di mettere sotto controllo queste forze dalla politica. Una via cinese, riveduta e corretta, sarà probabilmente una necessità anche per l’Occidente, se non vuole collassare

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