Mi piacerebbe scrivere qualcosa di sensato sulla voce. O, meglio, sul corpo della voce. Sulla sua fisicità, tonalità, sul timbro, sull’intensità, la profondità, l’altezza, l’estensione. Sugli effetti che questo corpo sottile che emette suoni, sia articolati che inarticolati, causa negli altri. Ma in primo luogo in sé: ascoltare la propria voce è un’esperienza primigenia essenziale. Immagino che la voce venga poi plasmata, partendo da una base biologica, attraverso una serie di meccanismi legati alla socialità, all’educazione (il canto, la lettura a voce alta, l’ascolto di sé e degli altri, l’imitazione dei suoni, le onomatopee, ecc.).
Insomma, un processo di formazione di grande fascino e complessità.
Ma è quel che la voce genera nell’altro ad affascinarmi ancora di più: il corpo della voce si annoda ai sensi e all’emotività della persona amante o amata, agli amici, agli affetti, alla cerchia di persone con cui interagisci. Basti pensare al ruolo della voce, alla sua “impostazione”, nella comunicazione, nell’oratoria (e, ahimé, nella propaganda). Voce poetica, voce della sapienza filosofica (che un tempo si trasmetteva oralmente), voce dei saggi, degli anziani, voce del canto.
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