Com’è giusto che sia, The Whale (la balena, come l’inafferrabile Moby Dick!), è un film ostico, in parte irritante, claustrofobico, che non può non far discutere.
Sull’interpretazione di Brendan Fraser non si discute, è semplicemente clamorosa; sulla storia registica di Aronofsky anche, i suoi film sono fatti per inquietare.
C’è un primo elemento problematico, ovvero il passaggio dalla scena teatrale a quella cinematografica: camera immobile, formato 4:3, tutto pensato per mettere al centro Charlie e il suo corpo strabordante. Ogni tanto, però, qualcosa si inceppa, nella trasposizione, nei dialoghi, nella sceneggiatura, e qualcosa risulta sopra le righe. Ma alla fine anche queste sbavature sono forse funzionali allo scopo della messa in scena: come rappresentare una storia di tentata redenzione di un corpo fuori controllo e di un’anima spezzata?
Devo dire che la parte “anima spezzata” mi ha preso meno, mentre è la rappresentazione dell’obesità, il corpo che esce dai propri limiti, e le conseguenze che ciò comporta nei gesti quotidiani anche minimi, che ho seguito con più interesse. Non so se con partecipazione, ma certo con sofferente curiosità.
In un’epoca che talvolta non sa nemmeno trovare le parole per nominare il disagio o, ancora di più, i soggetti di questo disagio (in stato di ontologica minorità, spesso indotta, che comporta l’impossibilità di autonominarsi ed autodeterminarsi), non è una sfida da poco provare a rappresentarlo con le immagini di un corpo che esce dallo schermo, e finisce per mettere a disagio chi guarda. E a interrogarlo con radicalità sulla sua stessa umanità, prima che sull’altrui.
E allora, come mi pare abbia detto l’attore protagonista in qualche intervista, la sfida maggiore del film è quella di mettere a fuoco il problema della relazione (e dunque dell’irrelatezza come male, cosa di cui qui si è parlato spesso): come ci si rapporta a quel disagio? a quel “lasciarsi andare” del corpo? (e già l’espressione lasciarsi andare – che riguarda tutti – andrebbe analizzata meglio). Siamo sicuri di essere così umani e democratici e corretti ed eguali ed empatici da saperci mettere in relazione con ogni disagio, corpo (anche “disgustoso” – nota: il disgusto è una delle emozioni primarie ed ineliminabili), con ogni sofferenza, differenza, alterità?
Teoricamente sì, se pensiamo che io è un altro – io stesso diventerò l’altro, il mio corpo che si fa estraneo, che si decompone e si ricongiunge con l’inorganico e il deforme, e nel quale non mi riconoscerò più. Ma praticamente? Charlie si libera ed innalza da tutto questo a modo suo, costruendo una propria strada di redenzione che abbandona il corpo al suo destino, lo alleggerisce e trasfigura in un lascito spirituale e in una scommessa di riconoscimento (la figlia abbandonata, perduta e rabbiosa) – cosa resa possibile dalla sua lucidità. Ma quando anche la mente si smarrisce nel labirinto dell’insensatezza e dell’irrelatezza?
Per restare nell’ambito del cinema, chiudo con un aneddoto in proposito (lo avevo già richiamato qualche tempo fa in una retrospettiva su Fellini): Goffredo Fofi racconta di un problema relazionale di Fellini con la figlia di Flaiano, affetta da gigantismo e da un ritardo cognitivo, un imbarazzo al limite dello spavento, che probabilmente incise sulla loro rottura. Il più grande regista italiano, bravissimo come pochi altri a rappresentare freaks, ne aveva un sacro terrore…