L’ultimo scorcio del Novecento sembra chiudersi filosoficamente con una sorta di resa della ragione che ha fondato la modernità: il filosofo francese Lyotard pubblica nel 1979 La condizione postmoderna, lo scritto con il quale si apre l’epoca della fine delle grandi narrazioni (le ideologie totalizzanti e unificanti, l’universale, l’assoluto, ecc.) – e però entra in crisi lo stesso asse portante del “moderno”, la moda e il modo dell’ora, del recente, del nuovo, l’ideologia del progresso infinito.
La medesima idea di filosofia della storia, di storia universale, di un’evoluzione storica unitaria entra in crisi: potremmo dire che si apre l’epoca della crisi per antonomasia interna al mondo occidentale (krisis è parola greca che indica un apice di forza e di tensione che occorrerà risolvere in un senso o nell’altro, ma che nella lotta che lo contraddistingue resta incerto nel suo esito).
A partire allora da questa irreversibile consapevolezza critica – e di disincanto – proveremo a mettere in scena alcune tesi di filosofia della storia elaborate nel corso del ‘900, secolo quantomai storico se non storiolatrico, le cui certezze però vanno in crisi proprio al suo volgere: il secolo forse più denso di storia che si sia mai dato, se non altro per le tragedie storiche che vi si sono svolte, e che non hanno precedenti, si chiude con un senso di totale irresolutezza riguardo al futuro.
1. Occorre premettere alcuni elementi senza i quali non si capirebbe questo affollamento di significati storici: in primo luogo una nuova dimensione di massa che mai c’era stata prima, in termini di mobilitazione totale (categoria usata dal filosofo Jünger per la prima guerra mondiale, ma che potrebbe essere estesa ad ogni fatto storico del Novecento): società di massa, messa al lavoro generalizzata, progressione demografica, società urbana sono i nuovi fenomeni di questa mobilitazione sociale generale e perenne.
Due guerre mondiali, un paio di rivoluzioni di portata enorme, il processo di decolonizzazione (o di ricolonizzazione), una guerra fredda con una lunga serie di guerre più o meno locali sparse in ogni continente – con alcuni picchi drammatici: il genocidio armeno, l’imperialismo nazista, il terrore stalinista, la shoah, i bombardamenti angloamericani sulle città tedesche, le bombe atomiche sul Giappone, alcuni grandi stermini in Asia e in Africa (Indonesia, Cambogia, Ruanda, per citarne solo alcuni).
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il progresso scientifico e tecnologico che ha aumentato la potenza devastatrice delle guerre in modo esponenziale, al punto che ogni guerra appare come la prova sperimentale della seguente.
E così, l’Ottocento che prometteva – nei due campi ideologici principali, il liberalismo e il socialismo – progresso e benessere universali, viene tragicamente smentito nel corso del Novecento.
Certo, dal secondo dopoguerra si registrano in alcune aree del pianeta, e poi via via in gran parte dei paesi, imponenti progressi: sanitari, materiali, culturali, demografici, ecc. Tuttavia, proprio questi progressi, resi di nuovo possibili dalla tecnoscienza, rischiano di mettere a repentaglio la stessa esistenza umana e l’equilibrio ecosistemico del pianeta.
Questo, il quadro generale – al di là di ogni ideologia o filosofia della storia – così come ci appare empiricamente a grana grossa nel presente – reduci da una pandemia e in preda al ritorno di una guerra imperialista sulla scena.
Indipendentemente da progressi o regressi, tragedie o evoluzioni, l’attuale quadro ci parla di una storia affollata, potenzialmente multipolare, con l’ingresso a partire dagli anni ‘50 di nuovi soggetti storici – la vera novità della storia più recente – che metteranno sempre più a repentaglio il primato occidentale, in particolare quello americano. Esiste una storia generale, ma esistono anche molte storie macroregionali o locali che si intrecciano e che non rendono possibile un’immagine di progresso universale ed unidirezionale o un unico spazio globale della storia – se non, forse, in termini tecnoscientifici. Ovvero: l’attuale fase storica sembra mettere in discussione gli assetti spaziotemporali della modernizzazione-civilizzazione occidentale, europea prima, americana poi.
2. Veniamo quindi alla prima tesi filosofico-storica, che compare alla fine del secolo, a cura del politologo statunitense Francis Fukuyama, che nel 1992 pubblica il celebre saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, che molto fece discutere. Era appena crollato il blocco sovietico e tutto faceva pensare che la storia potesse prendere un corso unidirezionale, verso la forma politica che appariva più efficace (o meno problematica), quasi una forma “finale” dello sviluppo umano, ovvero quella liberaldemocratica. Fukuyama appoggia questa sua tesi sul pensiero hegeliano, per lo meno su due pilastri di quel pensiero: anche Hegel pensava che il fine dello “spirito” (quel che noi oggi chiamiamo storia), fosse la “libertà”, da realizzarsi entro forme statuali che garantissero, insieme, la libertà individuale e la realizzazione etica e comunitaria.
Ma c’è un altro elemento essenziale che Fukuyama richiama, ovvero quello della lotta per il riconoscimento come motore della storia, sia individuale che collettiva: se, cioè, la parte razionale e il desiderio possono spiegare il successo materiale del sistema liberale e capitalistico, rimane incerto l’elemento del thymos, ovvero la parte di sé che richiede il riconoscimento sociale. Il politologo statunitense ritiene che tali elementi destinali dell’uomo – libertà e riconoscimento – possano essere meglio realizzati nei modelli liberaldemocratici occidentali, ben più che in altri modelli totalitari (ormai sconfitti dalla storia) o autoritari ed autocratici: a distanza di 30 anni è esattamente la divaricazione valoriale che si va riproponendo oggi nel nuovo scontro multipolare. Che però ci dice anche, piuttosto platealmente, che la tesi della “fine della storia” non sta affatto in piedi da nessun punto di vista; né in relazione al contesto internazionale, ma nemmeno per quel che riguarda il destino dello stesso occidente, la cui “democrazia” e la cui politicità appare sempre più svuotata in favore di altri soggetti che non siano i cittadini o i popoli: poteri finanziari, tecnocrazia, poteri mediatici, il crescente militarismo, la disaffezione dei cittadini alla politica fanno intravvedere la possibilità di una crisi esiziale dell’intera costellazione istituzionale del mondo occidentale, dalla potenza dominante d’oltre Atlantico (preda di un’enorme crisi esistenziale da decenni) fino ai tentativi contraddittori di una mai compiuta unificazione europea.
Più che di “fine della storia” occorre forse tornare a parlare di “tramonto dell’Occidente”, e della crisi della modernità di cui si parlava sopra.
3. È questa la tesi di Oswald Spengler, che pubblicò Il tramonto dell’Occidente, un voluminoso trattato storico-filosofico, tra il 1918 e il 1923, a ridosso di un momento particolarmente drammatico della storia europea.
Quest’opera, che ebbe un enorme influsso nella cultura tedesca ed europea dell’epoca, tratta la storia delle civiltà da un punto di vista radicalmente diverso da quello della linearità progressiva: sulle orme della morfologia goethiana le civiltà vengono concepite ed osservate come forme od organismi vitali, che dunque hanno una vita, una nascita, una giovinezza, un compimento ed una inevitabile decadenza.
Ciascuna civiltà ha dei caratteri propri, è un tutt’uno fatto di elementi materiali, ambientali, religiosi, artistici, giuridici, ecc., del tutto unici ed autonomi. Spengler si dedica in particolare alla descrizione morfologica delle due civiltà che più ci riguardano, ovvero quella classica e quella moderna occidentale – anch’esse radicalmente diverse e non assimilabili l’una all’altra. In particolare la civiltà antica sarebbe secondo lui del tutto astorica e passiva, laddove quella occidentale si manifesta per il proprio carattere faustiano, di perenne dinamismo spaziotemporale e di oltrepassamento di ogni limite: noi occidentali siamo essenzialmente, ontologicamente, costitutivamente storici. Ma, come ogni forma di civiltà, anche noi siamo soggetti ad un processo di decadenza, che Spengler vede già compiersi a partire dal XIX secolo, con l’avvento delle società di massa, la dittatura del denaro e della stampa, la meccanizzazione della vita, l’urbanizzazione, l’alienazione, ecc. Un pensiero francamente reazionario, ma di grande interesse per quelli che potrebbero essere gli eventuali sviluppi critici, sia interni alla civiltà (ormai “civilizzazione”) occidentale, sia per quel che riguarda un pensiero geopolitico di tipo multipolare – di grande attualità. Non solo: Spengler basa la propria descrizione morfologica delle diverse civiltà su una grande mole di dati e aspetti che richiedono uno sguardo profondamente multidisciplinare e non settoriale – ciò che avrà un certo influsso sui successivi studi antropologici.
4. Concludiamo questa “messa in scena” novecentesca, con uno dei pensatori più interessanti del ‘900, Walter Benjamin, che avvicinerei per originalità dirompente a Simone Weil – non a caso entrambi hanno un rapporto intensamente dialettico con la sfera religiosa e spirituale.
La diagnosi circa il pessimismo e la valutazione del progresso occidentale è assimilabile per alcuni aspetti a quella di Spengler, ma la consonanza finisce qui, e nulla ha a che vedere con l’eventuale cura: Benjamin scrive nel 1940 – altro periodo esiziale della storia europea – un breve densissimo testo di grande fascino ed importanza, con alcuni aspetti enigmatici, ovvero le tesi Sul concetto di storia, che ancora oggi risuonano come un pugno nello stomaco (e insieme un faro illuminante) a proposito del destino storico umano, del significato della storia, ma soprattutto del rapporto tra passato, presente e futuro.
Questa sua riflessione apre anche l’ultimo capitolo della nostra ricerca, che la prossima volta si concentrerà sul principio speranza di Ernst Bloch, partendo proprio dall’idea di rivoluzione di Benjamin, come “freno” della catastrofe imminente e rottura del tempo vuoto e lineare così come concepito dall’ideologia borghese del progresso. Senonché Benjamin, diversamente da Bloch, trova questo elemento rivoluzionario nel passato ben più che nel futuro, attraverso la figura storica dei vinti, degli oppressi di ogni epoca ed ansa del fiume impetuoso della storia, rileggendola in chiave messianica.
Proprio in Benjamin, cioè, quel che è stato talvolta attribuito all’ebreo Marx a proposito di un elemento teologico e di redenzione – la fede nel sole dell’avvenire, la realizzazione di una sorta di paradiso in terra (o di terza epoca di Gioacchino da Fiore) – trova una originale e raffinata articolazione teorica, eretica e proprio per questo marginalizzata, anche in seno alla tradizione marxista più ortodossa.
Ma vediamone brevemente gli elementi principali, a partire dalle tesi e da alcune folgoranti metafore, o meglio, allegorie:
-partiamo dalla prima tesi, che mette in scena una celebre allegoria catturata dal racconto di Edgar Allan Poe Il giocatore di scacchi di Maelzel: esiste un automa, vestito alla turca, in grado di vincere qualunque giocatore di scacchi, che però, in realtà, nasconde al suo interno un nano gobbo, vero artefice della sua invincibilità. L’automa è il materialismo storico (o, meglio, la versione che ne danno sia i comunisti che i socialdemocratici convinti della necessità storica), il nano la teologia. Non c’è possibilità di una rivoluzione automatica, senza la sua vera anima, ovvero la capacità di redenzione del messianismo: Benjamin intende la storia e la rivoluzione come un piano intrecciato di elementi materiali (le condizioni date, la lotta di classe) e di elementi “spirituali”, il messianismo della tradizione ebraica secolarizzato;
-la tesi VII è fondamentale: Benjamin evoca il sentimento dell’acèdia (in greco è l’indifferenza), base di una particolare forma di tristezza, quella del fatalismo che accetta l’accadere storico per quello che è. Ma tale accettazione è sempre una forma di conformismo nei confronti dei vincitori, di chi porta in processione il carro del trionfo con i suoi bottini culturali, che sono sempre “documenti di barbarie”. Il fatalista acedico, nel chinare il capo di fronte all’ineluttabilità storica, non fa altro che diventare un servo e un cortigiano dei potenti. Il materialista storico rivoluzionario per davvero, fa invece il contropelo alla storia e si pone il compito di “organizzare il pessimismo”, a partire proprio dalla barbarie dei vincitori contro i vinti e da quei “documenti” che non devono essere cancellati per nessuna ragione;
-la tesi IX è senz’altro la più celebre, poiché contiene l’allegoria basata sul quadro di Klee, un acquarello che Benjamin aveva acquistato nel 1921, che val la pena rileggere:
«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».
Il progresso è qui rappresentato come un’infernale ed inarrestabile ripetizione dell’identico (come per Sisifo o la catena di montaggio), che si rivela un cumulo di disastri e di macerie: guerre, ingiustizie, sfruttamento, torti subiti. L’angelo vorrebbe sostare per “destare i morti e ricomporre l’infranto” (di nuovo lo spirito messianico che si affaccia), ma non può perché è trascinato inesorabilmente verso il futuro che non vede ma che ripete il medesimo copione distruttivo. C’è un’altra tesi, la XI, in cui Benjamin richiama anche la distruttività del capitale nei confronti di una natura asservita.
-terminiamo con le tesi XIV e XV che evocano il concetto di Jetztzeit, dell’ “adesso” come rottura rivoluzionaria del tempo storico lineare, così come Benjamin lo intende in Marx: la Rivoluzione è proprio l’arresto del tempo vuoto ed omogeneo, è la miccia del passato irredento che mette in discussione la continuità dei vincitori – che fa saltare per aria i loro carri di trionfo. Nella rivoluzione del luglio 1830 gli insorti parigini spararono non a caso sugli orologi – laddove il “nuovo calendario” coi giorni di festa della rivoluzione ha proprio la funzione della rammemorazione. Non commemorare (e consegnare ad un passato museale), ma rammemorare per rovesciare il tempo dell’ingiustizia.
Possiamo sintetizzare queste brevi tesi, con le allegorie e i riferimenti teologici, in un potente manifesto di una filosofia della storia di rottura, rivoluzionaria – e che dunque nega alla radice la possibilità stessa di una filosofia della storia, se la si intende come deterministica, o come un processo “naturalistico”, così come sembra in taluni passi del Capitale pensarla Marx, il cui pensiero è però leggibile come una tensione tra queste due idee del corso storico, su cui non ha invece dubbi Benjamin. La rivoluzione è un arresto messianico dell’accadere (una sua possibilità, non una necessità), la chance della lotta a favore del passato oppresso: si tratta, dunque, di estrarre la vita e il seme rivoluzionario dal tempo storico. A tal proposito Benjamin conia un’altra formidabile metafora: noi ci troviamo sempre di fronte alle “stanze del passato”, e abbiamo però il potere, conferitoci dall’attimo, di aprirle. L’azione politica è l’ingresso in una di quelle stanze. Il passato si compone di schegge anteriori nell’adesso, mentre il futuro è solo una piccola porta da cui può entrare il messia.
Lo stesso Benjamin suicidatosi nel 1940 in fuga dal nazismo – a sua volta un vinto della storia – vive in una di quelle stanze.