Come osserva giustamente Amitav Ghosh, c’è una strana spirale che riguarda il rapporto tra militarismo e transizione ecologica: la guerra e l’apparato militare-industriale del Novecento si fondano essenzialmente sui fossili, e sulla loro impronta sul pianeta; si tratta di una delle macchine più inquinanti e pericolose, non solo quando la guerra si fa, ma anche quando semplicemente incombe, dato che la megamacchina militare deve essere perennemente alimentata, oliata, rinnovata. Le guerre guerreggiate sono anche funzionali a questo continuo rinnovamento. Vi è poi il capitolo del nucleare e della guerra atomica, con le sue frenate e riprese dalla guerra fredda in poi.
Nel contempo è proprio la “scienza militare” l’avanguardia non solo tecnologica, ma anche “ecologista”, che prende coscienza dell’impatto ecosistemico del sistema di cui fa parte e che è deputata a difendere, compreso il cambiamento climatico (i primi carotaggi nel ghiaccio dell’Artico furono eseguiti dalle forze armate statunitensi già negli anni ‘50). E gli effetti dell’innalzamento oceanico, della desertificazione, degli eventi estremi interessa da vicino le stesse basi militari, non solo quelle poste sul mare. Paradossalmente è dunque l’intero blocco militare-industriale deputato a conservare gli attuali assetti geopolitici ed energetici (e dunque l’impronta fossile con le sue gerarchie), che nello stesso tempo si troverà costretto a guidare la transizione energetica: non è forse un caso che il militarismo, dopo un’apparente ritirata dalle scene (solo apparente in verità) è tornato protagonista, proprio perché le contraddizioni da gestire sono immani, ed è possibile che richiedano soluzioni autoritarie. (Basti ricordare che a gestire la vaccinazione di massa in Italia venne chiamato un generale, per di più da un governo tecnocratico emergenziale).
Già un gran numero di scienziati negli anni ‘90 avvertiva che occorresse operare una scelta drastica tra spendere le risorse in funzione della guerra, della distruzione e della violenza, o in alternativa per difenderci dalle catastrofi ambientali. Se non si pone un “freno” alla deriva militarista e produttivista, che vanno insieme (e al nichilismo che le regge), avremo la guerra su entrambi i fronti, quello storico-sociale e quello naturale. Ecco perché l’antimilitarismo e la coesistenza dei diversi – sia localmente che globalmente – è l’unica strada politica percorribile.
La rivoluzione oggi equivale a desistere, “risparmiare” il mondo, frenare i processi.