Puu-tii-uitt

Insieme a La vita e il tempo di Michael K di Coetzee, Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut è senz’altro tra i migliori romanzi antimilitaristi mai scritti. Fin dalle prime pagine l’autore dichiara quel che pensa della guerra: «Quelli che odiano di più la guerra erano quelli che avevano combattuto per davvero» – detto da chi in guerra, oltretutto, ci era andato volontario, per la giusta causa dell’antinazismo.
Ma il bombardamento della città di Dresda del febbraio 1945, dal quale si salva per miracolo dopo essere stato fatto prigioniero e rinchiuso in un mattatoio, costituisce il secondo grande trauma della sua vita (dopo quello della crisi del ‘29 e della depressione che porterà al suicidio la madre): come scrivere della guerra, dopo averne visto da vicino l’orrore? Questo il problema etico ed estetico, di forma e di contenuto, che Vonnegut dovrà risolvere – e che di fatto non risolve nemmeno con questo romanzo pubblicato molti anni dopo, nel 1969, dato che quel che noi veniamo a sapere del bombardamento è solo il riflesso del paesaggio “lunare” che produce e poco più, ovvero che ha provocato 130mila morti (dato, peraltro, falsificato in eccesso: gli accertamenti storici più recenti riducono – si fa per dire – le vittime a non più di 25.000) e che il giorno dopo, bucando la crosta lunare, «furono aperte, qua e là, centinaia di miniere [!] di cadaveri».
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Dalla conoscenza più nera

«Perfino dopo la prima guerra mondiale era ancora possibile per certi scrittori contentarsi di respirare e di molare cristalli. Ma oggi, dopo la seconda, dopo le camere a gas e le bombe atomiche, per essere uomini in mezzo alla minaccia estrema e alla degradazione si richiede di più. Bisogna rivolgersi a quella brutalità che sempre c’è stata e servirsene per indurirsi le mani e lo spirito. Bisogna affrontare l’uomo così come è, duro e oppresso. Ma non gli si può permettere di attentare alla speranza. Questa speranza dovrà sgorgare soltanto dalla conoscenza più nera, altrimenti diventerà beffarda superstizione e accelererà la fine, che minaccia sempre più da vicino».

(Elias Canetti, Appunti, 1960)

Filosofie della storia – 6. Il principio speranza di Bloch

1. Una filosofia della storia futura: quasi una contraddizione in termini.
La storia, il passato, la memoria, insieme alle condizioni materiali date, sono il complesso di elementi che pesa sulla vita degli umani, che sembra condizionarli, pre-determinarli, obbligarli su strade necessitate. Evocare quindi una filosofia della storia futura appare quantomai problematico, se si pensa alla forza di quei condizionamenti. Nello stesso tempo – basti pensare alla vita dei singoli – esiste pur sempre una controforza, una pulsione che spinge in direzione del nuovo, dell’inusitato, del non-ancora. Se c’è nell’individuo deve esserci anche in quell’individuo più in grande che è la collettività – fino probabilmente a spingersi all’intera umanità. Questa pulsione viene individuata dal filosofo tedesco Ernst Bloch nel principio speranza (Prinzip Hoffnung).
Principio, non solo affetto: Bloch pensa che la speranza non sia da restringere al campo sentimentale o soggettivo, ma che piuttosto costituisca una forza evolutiva presente a monte, ontologicamente, nell’essere, nella materia, nella vita stessa. Non solo: la speranza ha anche un significato cognitivo, è docta spes, una sorta di scienza utopica.

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Ribollire di utopia

L’uomo non è fitto è il titolo di un paragrafo del primo volume de Il principio speranza di Ernst Bloch, nel quale si discute, tra le altre cose, il significato utopico del marxiano sogno di una cosa e, più in generale, dei sogni ad occhi aperti. Bloch scrive a tal proposito:

«Che si possa veleggiare verso i sogni in questo modo, che i sogni a occhi aperti, spesso di tipo completamente scoperto, siano possibili, tutto ciò rende manifesto il grande posto che ha nell’uomo la vita ancora aperta, ancora incerta. […] Questo ribollire e mugghiare alla superficie della coscienza divenuta è il primo correlato della fantasia, all’inizio solo interiore, che si trova proprio nella fantasia stessa. Anche i sogni più sciocchi sono comunque esistenti come spuma da cui a volte è sorta una Venere. L’animale non conosce niente del genere; solo l’uomo, sebbene sia molto più desto, ribolle di utopia. La sua esistenza è per così dire meno fitta sebbene egli, paragonato alle piante e agli animali, esista molto più intensivamente».

Nell’uomo qualcosa è rimasto cavo, un vuoto di possibilità ancora inespressa. Ma è la stessa vita ad essere altrettanto incompiuta: l’effettuale è processo, dove il divenuto non ha mai vinto completamente. La speranza e l’utopia hanno, dunque, un fondamento ontologico, nella vita e nella materia stessa, ben al di là del loro essere sentite ed esperite emotivamente.

 

Ecomilitarismo

Come osserva giustamente Amitav Ghosh, c’è una strana spirale che riguarda il rapporto tra militarismo e transizione ecologica: la guerra e l’apparato militare-industriale del Novecento si fondano essenzialmente sui fossili, e sulla loro impronta sul pianeta; si tratta di una delle macchine più inquinanti e pericolose, non solo quando la guerra si fa, ma anche quando semplicemente incombe, dato che la megamacchina militare deve essere perennemente alimentata, oliata, rinnovata. Le guerre guerreggiate sono anche funzionali a questo continuo rinnovamento. Vi è poi il capitolo del nucleare e della guerra atomica, con le sue frenate e riprese dalla guerra fredda in poi.
Nel contempo è proprio la “scienza militare” l’avanguardia non solo tecnologica, ma anche “ecologista”, che prende coscienza dell’impatto ecosistemico del sistema di cui fa parte e che è deputata a difendere, compreso il cambiamento climatico (i primi carotaggi nel ghiaccio dell’Artico furono eseguiti dalle forze armate statunitensi già negli anni ‘50). E gli effetti dell’innalzamento oceanico, della desertificazione, degli eventi estremi interessa da vicino le stesse basi militari, non solo quelle poste sul mare. Paradossalmente è dunque l’intero blocco militare-industriale deputato a conservare gli attuali assetti geopolitici ed energetici (e dunque l’impronta fossile con le sue gerarchie), che nello stesso tempo si troverà costretto a guidare la transizione energetica: non è forse un caso che il militarismo, dopo un’apparente ritirata dalle scene (solo apparente in verità) è tornato protagonista, proprio perché le contraddizioni da gestire sono immani, ed è possibile che richiedano soluzioni autoritarie. (Basti ricordare che a gestire la vaccinazione di massa in Italia venne chiamato un generale, per di più da un governo tecnocratico emergenziale).
Già un gran numero di scienziati negli anni ‘90 avvertiva che occorresse operare una scelta drastica tra spendere le risorse in funzione della guerra, della distruzione e della violenza, o in alternativa per difenderci dalle catastrofi ambientali. Se non si pone un “freno” alla deriva militarista e produttivista, che vanno insieme (e al nichilismo che le regge), avremo la guerra su entrambi i fronti, quello storico-sociale e quello naturale. Ecco perché l’antimilitarismo e la coesistenza dei diversi – sia localmente che globalmente – è l’unica strada politica percorribile.
La rivoluzione oggi equivale a desistere, “risparmiare” il mondo, frenare i processi.

Filosofie della storia – 5. Post-moderno, fine della storia e messianismo

L’ultimo scorcio del Novecento sembra chiudersi filosoficamente con una sorta di resa della ragione che ha fondato la modernità: il filosofo francese Lyotard pubblica nel 1979 La condizione postmoderna, lo scritto con il quale si apre l’epoca della fine delle grandi narrazioni (le ideologie totalizzanti e unificanti, l’universale, l’assoluto, ecc.) – e però entra in crisi lo stesso asse portante del “moderno”, la moda e il modo dell’ora, del recente, del nuovo, l’ideologia del progresso infinito.
La medesima idea di filosofia della storia, di storia universale, di un’evoluzione storica unitaria entra in crisi: potremmo dire che si apre l’epoca della crisi per antonomasia interna al mondo occidentale (krisis è parola greca che indica un apice di forza e di tensione che occorrerà risolvere in un senso o nell’altro, ma che nella lotta che lo contraddistingue resta incerto nel suo esito).

A partire allora da questa irreversibile consapevolezza critica – e di disincanto – proveremo a mettere in scena alcune tesi di filosofia della storia elaborate nel corso del ‘900, secolo quantomai storico se non storiolatrico, le cui certezze però vanno in crisi proprio al suo volgere: il secolo forse più denso di storia che si sia mai dato, se non altro per le tragedie storiche che vi si sono svolte, e che non hanno precedenti, si chiude con un senso di totale irresolutezza riguardo al futuro.

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