Non vedo un “pericolo fascista” in Italia, anzi il rischio è che si gridi “al lupo al lupo”, e non si veda il vero pericolo che si staglia all’orizzonte, che potremmo definire della non-democrazia.
Siamo ormai da anni in presenza di nuove forme politiche degli stati, non più classificabili come democratici o autoritari o liberali o autocratici, ma come sempre più svuotati di partecipazione popolare e riempiti di tecnocrazia, dirigismo ed ora, sempre più chiaramente, di militarismo.
Ormai nelle vecchie democrazie chi governa viene per lo più scelto e controllato da élites che hanno a disposizione grandi risorse e un’enorme influenza mediatica, e sempre più esigue minoranze di cittadini si limitano a ratificarne il potere (così funzionano le elezioni presidenziali americane, ma non solo).
Hans Jonas prevedeva che le grandi crisi ed emergenze che si stavano profilando all’orizzonte, avrebbero richiamato nuove forme di autoritarismo: basti pensare al periodo pandemico e ai suoi dispositivi, su tutti l’obbligo vaccinale e il green pass, come effettive forme di sospensione dei diritti individuali, in nome di un’emergenza collettiva. Una prima prova generale di quel che avverrà, presumibilmente, con le crisi ecosistemiche, climatiche ed energetiche.
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Categoria: POLITICA
Fusione (del cervello)
Non è necessario essere un fisico o un esperto di fusione nucleare per capire che nella comunicazione degli scorsi giorni sul grande evento americano c’era qualcosa che non quadrava.
Basterebbe leggere qualche articolo scientifico per rendersene conto. Senza voler entrare nel merito, mi sono fatto le seguenti due idee generali: a) l’annuncio americano riguardava essenzialmente una faccenda di primato, potenza e confronto militare; b) non ci sarà nessuna conseguenza empirica e tangibile – forse nemmeno tra mezzo secolo – per quanto concerne le ricadute “civili” ed energetiche di quell’esperimento.
Detto questo, ciò che impressiona è la narrazione urbi et orbi di stampa e tv – con in prima fila i vari Mentana e Rampini: una sequela di enormi cazzate ad uso delle masse. Del resto è stato il loro stile nel corso di tutta la covid-pandemia, e dunque non c’è da stupirsene. Così come dal 24 febbraio assistiamo al medesimo film sulla guerra ucraina.
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Capatrena
Si continua a procedere per scissioni, disconnessioni, semplificazioni. Giorgia Meloni ironizza (e ideologizza) su “capatrena” e i suoi detrattori l’attaccano sulla questione dei diritti civili, mentre i suoi sostenitori (ma anche da sinistra) le danno ragione, perché il linguaggio sarebbe un puro formalismo, questione di lana caprina “e ci sono cose ben più importanti di cui occuparsi”. E poi c’è la questione dell’identità, il nuovo concetto (nuovo come il mondo) salito ora in auge!
Certo, le distrazioni di massa – specie in politica – esistono eccome, ma saper tenere insieme le cose, tesserle e intrecciarle è essenza dell’arte politica (per Platone simboleggiata proprio dalla tecnica della tessitura). Così come comprenderle, riuscire a gettare su di esse uno sguardo ampio, che le consideri in tutta la loro complessità e contraddittorietà. E dialetticità – cioè possibilità di movimento e di trasformazione.
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Il giardino europeo
L’alto rappresentante della politica estera UE (chissà poi perché “alto”) Josep Borrell, in occasione del vertice NATO dei ministri degli esteri, ha utilizzato una metafora molto interessante (anche se non particolarmente raffinata) a proposito di Europa e dei suoi rapporti con il mondo: noi saremmo un giardino, mentre là fuori c’è la giungla. Affinché fosse ancora più chiaro ed esplicito il pregiudizio eurocentrico di tutto il suo discorso, ha anche aggiunto:
«L’Unione europa è la miglior combinazione di politica, libertà, prosperità economica e coesione sociale che l’essere umano sia stato in grado di costruire».
Come a dire che l’uomo europeo è il vertice della storia e del progresso umano, il faro della civiltà, laddove fuori dalle mura del giardino ci sono barbari e selvaggi retrogradi (questo, a voler ben vedere, varrebbe anche per gli Stati Uniti, non solo per tutte le autocrazie e tirannidi del mondo africano o asiatico, e qui la cosa si fa davvero interessante).
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(semiserio sulla semiminaccia del semifascismo a venire)
Partiamo dai dati elettorali locali: nella mia ridente cittadina lombarda, che fa circa 14000 abitanti, sono andati a votare in 7400 degli 11000 aventi diritto, circa 2/3 (in linea con la media nazionale). Di questi poco più di 2000 hanno votato Fratelli d’Italia, un migliaio la Lega; alle Europee del 2019 la Lega prese da sola circa 3000 voti, e FdI 420: secondo me, a occhio e croce, son gli stessi elettori, centinaio più centinaio meno (anzi, parrebbe meno). Erano tutti già lì, e facevano parte del paesaggio socioantropologico paesano, quello che aveva introiettato lo slogan “prima gli italiani” (o prima la mia tribù, per semplificare).
3000 su 7400; 3000 su 11000 aventi diritto di voto – ma soprattutto 3000 su 14000. Poco più di 1/5 degli abitanti. Ovvero una netta minoranza. A me, al momento, non fanno nessuna paura, non danno particolari preoccupazioni (per lo meno non più di quelle che mi diedero 3 anni fa).
Certo, può sempre succedere che un “normale” cittadino subisca un’improvvisa mutazione e diventi un carnefice (è già successo in passato, lo sappiamo bene). Ma questo vale anche per gli altri 8000 (terrei fuori i bambini e i ragazzi, e, per il momento, gli adolescenti): nessuno può garantire che i candidati a diventare canaglie stiano tutti da una parte.
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Ismi
Enrico Letta parla di “emergenza democratica”, ma è un’espressione del tutto mal riposta se riferita a Giorgia Meloni (tra l’altro è specularmente lo stesso gioco utilizzato da Berlusconi a proposito del “pericolo comunista”). Niente di più falso, l’emergenza sta semmai da tutt’altra parte, e cioè nella totale impotenza della politica e dei governi che verranno nel fare o cambiare alcunché, materialmente, indipendentemente dal loro colore.
Chiunque vada al governo si troverà ingabbiato dagli -ismi nei quali ci siamo infilati da tempo: atlantismo, economicismo, produttivismo, scientismo, militarismo… E potrei continuare. Si tratta dell’ideologia-mondo alla quale abbiamo consegnato anche l’ultima cellula di psiche e di sovranità – e, direi, di costituzionalità. La Costituzione è stata svuotata dall’adesione acritica e pressoché automatica a tutte quelle gabbie e -ismi che appaiono ormai come irrinunciabili.
Ciò non vuol dire che occorra credere alla favola del “sovranismo” incondizionato: non esiste individuo, stato o comunità che sia del tutto autodeterminato e proprietario di se stesso. Ogni organismo – biologico o culturale – comparso sulla faccia della Terra dipende sempre e comunque da tutti gli altri.
Ciò non equivale però a rinunciare alla negoziazione della propria posizione nel mondo: e l’agire politico è – dovrebbe essere – proprio questa capacità di dialettizzare, confliggere, mediare e tessere relazioni e prospettare nuovi possibili intrecci. Soprattutto superare tutti quegli -ismi che perpetuano l’ingiustizia ed il privilegio. Ecco perché l’agire politico non è mai alienabile o delegabile in toto, pena la precipitazione in uno stadio subumano e superagito.
Se la politica non fa questo – se essa non è questo – diventa uno dei tanti -ismi: politicismo, tecnicismo, chiacchiericcio del tutto autoreferenziale e funzionale all’intoccabilità del sistema.
Questa è l’unica vera “emergenza democratica” che vedo.
Destituzione
Non ho mai simpatizzato con le concezioni della storia che mettono in primo piano le figure individuali, anziché i processi. Anche perché nella discussione apertasi ieri in concomitanza con la morte di una di queste figure – più un liquidatore che un innovatore, in verità – emergono chiaramente due elementi: a) personalizzare equivale quasi sempre a semplificare; b) mai come nel caso di Gorbačëv c’è stata una netta divaricazione tra le intenzioni soggettive e l’ineluttabilità di quei processi (a meno che non lo si voglia accusare, come peraltro qualcuno ha fatto, di “tradimento” – nel qual caso si ricadrebbe nel punto a).
Non c’è dubbio che la liquidazione dell’URSS, indipendentemente dalla volontà di Gorbačëv, ci abbia portato qui – con nel mezzo la vittoria (ora relativa) della globalizzazione neoliberista, la dissoluzione (e la terribile guerra civile) della Jugoslavia, la guerra del Golfo (con le sue repliche), forse persino l’espansione del jihadismo – di certo l’espansione aggressiva della NATO e degli USA, che hanno condotto anche alla guerra in Ucraina (ma ci metterei anche la resistibile ascesa di Putin, dopo la svendita dei gioielli di famiglia). Tutto questo non può certo filare dalle intenzioni di un singolo, ma, appunto, dai processi.
Impronte globali
Qualche considerazione sparsa sullo Strategic Concept NATO 2022.
1) Ne vien fuori una sorta di documento ideologico-strategico a tutto campo, nel quale si sostiene – in soldoni – che di qua c’è il bene e di là c’è il male. Noi siamo benigni, loro sono maligni. I nostri sono i valori buoni, i loro no.
2) In prima istanza “loro” sono i cattivi del momento (Russia – descritta come il nemico numero 1, il grande destabilizzatore dell’ordine internazionale – a seguire una non meglio specificata minaccia terroristica, Iran, Corea del Nord, insomma i soliti stati-canaglia, cui aggiungere a piacere varie entità non-statali).
3) Ma l’articolo 13 del documento – che indica nella Repubblica Popolare Cinese la principale sfida sistemica – ne esplicita il cuore: “La RPC usa una vasta gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta globale (global footprint)” – anche se (sottinteso: a differenza nostra che siamo trasparenti) il suo progetto strategico resta opaco.
Per Cloe
«Oggi la mia libera morte, così tutto termina di ciò che mi riguarda. Subito dopo la pubblicazione di questo comunicato porrò in essere la mia autochiria, ancor più definibile come la mia libera morte. In quest’ultimo giorno ho festeggiato con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l’ultima volta vini e cibi che mi piacciono. Questa semplice festa della fine della mia vita è stata accompagnata dall’ascolto di buona musica nella mia piccola casa con le ruote, dove ora rimarrò. Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderla con lo stesso stile. Qui finisce tutto. Addio. Se mai qualcuna o qualcuno leggerà questo scritto».
Evidentemente siamo in tanti a leggere questo scritto. Che non ci può non turbare. Se fosse la libertà che va cercando / come sa chi per lei vita rifiuta di dantesca memoria, potremmo solo sostare rispettosi sulla soglia di una scelta estrema. Ma così non è. Anche se da quelle – bellissime – parole vengono evocate la libertà e la festa, l’epicureo bicchiere di vino mentre si fa un ultimo bagno caldo (il calore di Simone Weil!) – esse ci parlano di una tragica solitudine, di una terra bruciata cresciuta negli anni.
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Sfumature
Qualche sera fa, nel corso di un incontro “antagonista” su salute pubblica, pandemia, guerra, scienza e controllo sociale, nel dibattito seguito alla relazione è emerso il tema delle “sfumature”.
La relatrice – l’amica Nicoletta Poidimani – aveva evocato nel suo lungo e articolato intervento la questione del riduzionismo: in questi mesi di delirio guerrafondaio si è parlato spesso di “complessità” e del rischio di semplificare il reale, fino a renderlo incomprensibile (o una pappa sentimentale fatta di buoni e cattivi).
Nel biennio pandemico – sindemico e pandelirante – abbiamo assistito e vissuto sistematicamente a fenomeni di riduzione binaria, contrapposizione amico/nemico, simulazione di guerre civili, creazione di capri espiatori, streghizzazione, militarizzazione (nel linguaggio e nella prassi: occorre ricordare che la vaccinazione di massa in Italia è stata gestita da un generale).
Poi la guerra, che cova sempre, anche se da qualche altra parte, è arrivata. E allora il binarismo, lo stare di qua o di là, il bianco e nero, lo schema guelfi/ghibellini, si è riproposto pari pari.