Va bene cuocere la pasta a fuoco spento, va bene stare a 19 gradi d’inverno (io già stavo a 18, quindi c’ho il bonus di un grado), va bene immaginare – come stanno facendo degli amici – di attuare una forma di nomadismo comune e solidale, in caso di ristrettezze, e condividere le case a turno nel corso dell’inverno. Va bene. Fa bene (alla salute e all’ambiente) e fa parte del capitolo adattamento.
Ma poi c’è l’altro piano, quello della critica sociale: è l’intero sistema ad essere sull’orlo del collasso, e tutte le cazzate propinate fanno parte della solita strategia mimetica e cosmetica: non c’è alcun futuro per questo stile di vita, siamo al capolinea e prima lo comprendiamo meglio è. Ma non basta comprenderlo, occorre passare all’azione e far scoppiare le bolle dei privilegi. Chi deve fare i sacrifici? Questa è l’unica domanda sensata.
Sopra il piano adattivo e sociale c’è quello ideologico, il più sottile e perverso, la sovrastruttura che non manca mai: creare ad arte, psicologizzare e far interiorizzare le crisi, scatenare fobìe, farci sentire in colpa (già durante la pandemia e ora, nel corso della più grave crisi energetica e militare scatenata dalle avverse avidità imperiali). Sei responsabile tu – dice il dito puntato del potere.
Disertare da questa corresponsabilità e contribuire ad accelerare il collasso sistemico, è l’unica via d’uscita che vedo. Sarà dura? Durissima. L’inferno (e l’inverno) nucleare sarebbe comunque peggio.
La speranza è appesa ad un filo esilissimo.
Categoria: CONATI
Bellissimi e hitleriani
Fascista/antifascista. Semplice. Uno di qua, l’altro di là, linea gotica a separare.
La Costituzione è antifascista. Semplice e chiaro. Ed è fondata sul lavoro – ovvero sull’attività materiale e spirituale che realizza ciò che è essenziale per gli umani. Anche questo è semplice. La Costituzione repubblicana si fonda quindi sul diritto universale al lavoro e alla realizzazione di sé, sia individuale che collettiva.
Qui le cose, però, cominciano a complicarsi. Perché ci sono di mezzo le relazioni sociali, le diseguaglianze, le ingiustizie, la “costituzione reale”, il mondo al di là della carta e dei principi.
Il lavoro – quello costituzionalmente garantito – non lo è più, perché si monetizza, si mercifica, si flessibilizza e precarizza, diventa quasi evanescente. Lavoro precario = vita precaria. Dovrebbe essere semplice, invece è complesso, e la Costituzione non copre più questa realtà del lavoro.
Ecco dunque che una parte crescente del mondo del lavoro – umiliato, precarizzato, compresso per decenni (almeno dalla sconfitta della Fiat nel 1980), impoverito anche quando il lavoro ce l’ha – non ci sta più.
Durante il momento più duro della pandemia molti di questi lavoratori hanno continuato a lavorare per sostenere il paese, con un più alto rischio di contagio rispetto a chi se ne stava a casa.
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Sproloquianti
«Internet ha trasformato la “comunicazione” in una sbracata aggressività di sproloquianti su tutto e su tutti, e contro tutti invece che contro una parte: dal punto di vista del capitale e dei suoi più giovani e aggressivi rappresentanti, uno strumento fondamentale per “tener buone le masse” convincendole di un’indipendenza mentale, in realtà radicalmente manipolata e condizionata. La “cultura del narcisismo”, appunto…».
Goffredo Fofi è implacabile, e sommamente giusto. La frase è tratta dal suo saggio sul Fellini anarchico, uscito in dicembre da Elèuthera, ed è inserita in un discorso più generale in cui evoca i grandi sferzatori morali del secondo dopoguerra – i Pasolini, i Calvino, i Flaiano, i Chiaromonte, e poi Brancati, Moravia, Fortini e, ovviamente, lo stesso Fellini – tutti vissuti durante il fascismo, che hanno attraversato la guerra e che hanno contribuito alla ricostruzione del paese, almeno fino ai tardi anni ’70 (Fofi segna la fine di questo ciclo, non a caso, il 9 maggio del 1978). Après, le déluge.
La domanda sottesa, o per lo meno quella che ci ho visto io, è: ma dove sono, oggi, gli sferzatori morali, – e direi soprattutto le sferzatrici – di cui si ha un bisogno vitale? Probabilmente sommersi proprio da quel rumore di fondo, anzi dallo schiamazzo della “comunicazione” sproloquiante, che del Capitale è colonna portante.
Sulla mia pelle
Il film sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi è importante, non solo per la ricostruzione verosimile di quella che è stata una tragedia (evitabile) frutto di un’ingiustizia assurda, di un’anomalia o del malfunzionamento della macchina statale e giudiziaria, che anziché proteggere un suo cittadino fragile lo stritola e lo getta via come un oggetto inutile – ma perché ci dice qualcosa di essenziale, ben oltre la pelle o la superficie, sia del potere sia della china pericolosa che il clima sociale va prendendo in questo paese.
Il dramma di Cucchi preannuncia, cioè, con alcuni anni di anticipo la precipitazione cui la paranoia securitaria può portare un’intera società in assenza di conflitto e di diffuse istanze libertarie e di emancipazione (del resto lo si era già visto a Napoli e a Genova nel 2001, e che qui si sia trattato di un fatto “privato” e non politico non cambia di una virgola la sostanza dei processi in corso).
Stefano Cucchi appare cioè come una figura sociale scomoda e marginale, del tutto sacrificabile sull’altare dell’ordine borghese da ristabilire – insieme a tutta la consimile feccia sociale, siano essi drogati, vagabondi, rom, poveri, immigrati, profughi e sbandati vari. Chi è al governo oggi, e non parlo solo della Lega ma anche dell’anima più forcaiola dei suoi alleati pentastellati, si è nutrito di questo risentimento sociale, del livore e del fastidio per i diversi.
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I selfie del potere, la pancia del popolo (e la stupidità della sinistra)
Sto cercando di decifrare questa immagine, scattata durante i funerali pubblici per le vittime del crollo del ponte di Genova. Credo sia importante decodificarne il significato, anche se può sembrare marginale rispetto al compito primario di interrogarsi sul perché periodicamente questo scellerato paese debba fare i conti con le sue fragilità e debolezze endemiche: geologiche, strutturali ed infrastrutturali, economiche, istituzionali, culturali… l’elenco potrebbe continuare a lungo, a conferma di quel che un tempo si diceva di un’Italia insieme pre-moderna e post-moderna (e forse mai modernizzata davvero).
C’è qui una relazione immediata (o apparentemente tale) tra il sovrano e il suddito, che vengono amorevolmente ritratti insieme, laddove un tempo i potenti si facevano ritrarre in perfetta solitudine, a distanze siderali dal popolino (o dal popolaccio) – che in genere ricambiava detestandoli. Perfetta rappresentazione di quel che oggi viene definito “populismo”, peraltro quasi sempre con una certa sufficienza e approssimazione analitica.
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Meme nero
Qualche giorno fa, leggendo due cose molto diverse tra loro, ho pensato a quanto il clima sociale in 30-40 anni sia radicalmente cambiato, fin quasi a diventare irriconoscibile.
Prima la rievocazione di un giovane insegnante di filosofia dei suoi anni di liceo, della sua maturità, e della solidarietà di cui aveva memoria – e si trattava di solo una decina di anni fa, praticamente ieri; poi la “tempesta di merda” evocata da Bifo, in occasione di una sua recensione sulla destra alternativa americana – la Alt-Right – con il pressoché totale rovesciamento dell’antica egemonia (culturale e politica) della sinistra, in un rancoroso, cinico, sarcastico, oscuro pensiero (e umore) di destra che soffia sulle società occidentali, e che potrebbe portare a nuove forme di violenza, guerra e sopraffazione.
Queste due visioni, che evocavano tempi del passato in cui certo non regnava il migliore dei mondi possibili, ma vi era comunque un discorso pubblico, una mentalità, una visione critica delle cose che si era andata affermando con una certa autorevolezza, e che misuravano e registravano nel tempo social-internettiano – un battito di ciglia – una drastica trasformazione del mood (per usare l’espressione di Revelli) – queste due visioni, dicevo, mi hanno fatto venire in mente il clima socioculturale della mia giovanile formazione, all’incirca tra la metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘80.
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Lettera aperta ai compagni di koinè
Care compagne, cari compagni,
la prima domanda che mi viene è dove siamo finiti? La seconda: com’è che siamo arrivati a questo?
Mi pare evidente che il processo in corso – un governo che, secondo le categorie tradizionali, si colloca all’estrema destra, sostenuto da un’ampia maggioranza non più silenziosa, anzi piuttosto scompostamente loquace – sia un’onda che al momento appare inarrestabile.
Come ogni onda passerà, ma nel passare non sappiamo che cosa travolgerà, né quali macerie o detriti lascerà sul terreno.
L’impressione generale è che vi fosse una diga, già da lungo tempo crepata, e che ora il livore trattenuto nell’inconscio, e dalle ultime vestigia dell’antico pudore sociale, stia dilagando senza più freno alcuno.
Come sempre succede nelle vicende storiche si tratta anche in questo caso di contingenza: l’accumulo, cioè, di una serie spesso diversa e talvolta contraddittoria di evenienze e spinte sociali che ad un certo punto convergono verso una direzione unitaria.
Il primo governo Salvini de facto – perché di questo si tratta, e non sarà certo l’ultimo – ha fatto da catalizzatore e dato la stura a questo coacervo di tensioni, di malesseri, di disagi che covavano da anni, che già si erano mostrati unificati nell’esito del Referendum del 4 dicembre 2016, e che ora hanno trovato una sintesi. Provvisoria? Fragile? Di cartapesta? Non saprei. L’impressione, però, è che non sia così transeunte e passeggera. La mia impressione è anzi che stia emergendo una vera e propria ideologia comunitaria, sorretta da un crescente senso identitario – la nazione, l’italianità, la sovranità, il popolo – tutte categorie che richiamano un ordine politico di stampo organicistico, che definirei un vero e proprio parabiologismo.
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Un paese dove è bello vivere
Non so se sia frutto dell’educazione popolana impartitami dai miei genitori, o dalla frequentazione assidua di amici anticonformisti e sessantottardi, o da quella ancora più assidua con i filosofi – ma annuso l’ipocrisia a un miglio di distanza. Mi sbaglierò, ma la social-indignazione che da qualche tempo imperversa nel paese dove vivo e lavoro (similmente ad altri), a causa della piaga dello spaccio di droga, puzza di ipocrisia.
Sgombro subito il campo chiarendo che: non mi piacciono le sostanze, specie se se ne diventa dipendenti (l’unica Sostanza con la maiuscola che amo è quella di Spinoza), anche se so bene che ciascun umano, nessuno escluso, fa uso di una qualche sostanza (con la minuscola) per lenire il dolore di vivere – e vale tutto, dalle droghe psichedeliche pesanti agli psicofarmaci alla ludopatia alla dipendenza dai videogiochi al cioccolato alla cannetta della buonanotte alle sigarette ai socialnetwork all’infinita varietà di alcolici e misture derivate (che, fino a prova contraria, fanno ancora il maggior numero di morti).
Né tantomeno mi sfugge il problema che questa pletora di sostanze implica, quando impatta sulle menti fragili degli adolescenti – che, però, devono gestirsi la droga più pesante di tutte, ovvero quella di essere al mondo (daccapo: la sostanza di Spinoza).
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Automata
«Per chi non ha niente da offrire all’economia se non i muscoli, il cuore o il sesso, stanno arrivando tempi difficili. Non dubito che chi trae beneficio da questo stato di cose sarà in grado di convogliare la rabbia dei disoccupati cronici sugli immigrati o su altri comodi capri espiatori, ma alla fine anche loro saranno costretti a cercare un qualche tipo di modus vivendi». (Adam Greenfield, Tecnologie radicali).
Gastrocucinismo
La Coca-Cola costituisce una minaccia
assai più letale di al-Qaida.
(Y.N. Harari)
Nelle sue Lezioni di storia della filosofia, Hegel irride coloro che, come Cicerone o Diogene Laerzio, ritengono Socrate un grande filosofo solo perché «avrebbe fatto scendere la filosofia dal cielo in terra, nelle case, nella vita quotidiana degli uomini» o nel mercato – che equivarrebbe a considerarla un utensile domestico, sì da trasformarla in una insulsa e un po’ cialtronesca filosofia popolare, se non addirittura in una “filosofia da cucina”.
Mi ha sempre divertito questa espressione – filosofia da cucina – che pare tra l’altro attagliarsi perfettamente all’epoca attuale. Sicuramente Hegel l’avvicinerebbe alla modaiola pop-filosofia, ma a me è venuta in mente a proposito di quello strabordante fenomeno cui quotidianamente assistiamo in tv (per chi ha ancora il fegato di guardarla), nei social, nella pubblicità, nell’editoria: ovvero il proliferare di chef e di masterchef, ricettari e gente in grembiule che passa l’intera giornata dietro ai fornelli (e, si presume, a tavola) e l’imporsi di un immaginario – e di un discorso – che ruota ossessivamente attorno al cibo, alla cucina, ai sapori di una volta, alla tavola, al gusto, all’enogastronomia, al turismo gastronomico – ad ogni gastrocosa – dimenticando che, dopotutto, stiamo parlando di un tubo aperto su due lati – e di processi di assimilazione, digestione, espulsione. Tutto ciò ci parla insomma di un’ideologia diffusa che definirei del “cucinismo”.
Che è poi perfettamente in linea – faccia nascosta della medaglia – con i dati squilibrati di un pianeta che non soffre più di fame (o ne soffre molto meno di un tempo), quanto piuttosto di bulimia e sovralimentazione crescenti.
I dati globali ci dicono infatti che se ancora 850 milioni di umani sono malnutriti, lo sono anche, per ragioni opposte, i 2 miliardi in sovrappeso, dato destinato a crescere fino ad interessare il 50% della popolazione mondiale in pochi anni. Nel 2012 i morti di diabete erano 1,5 milioni, 12 volte di più di quelli dovuti alle guerre.
Hegel troverebbe tuttavia molto pericolosa questa prospettiva, se è vero che le pagine della storia si scrivono con il sangue, e non con i ricettari – medici o culinari che siano.