Retrospettiva pasoliniana

[Ho rivisto tutti i film di Pasolini, in ordine cronologico. Man mano ho scritto degli appunti, che ho raccolto qui]

Accattone (1961) è ancora vivissimo: le camminate dialoganti sullo sfondo delle borgate, il coro dei ragazzi al bar che sottolinea i passaggi del dramma del protagonista, l’invivibilità dei luoghi, ma soprattutto le riprese dei corpi, dei volti, degli occhi del sottoproletariato romano (niente attori professionisti!) – sono un vero e proprio manifesto estetico, etico ed antropologico, derivante ovviamente dalle sue precedenti prove letterarie e dai suoi “ragazzi di vita” (e meno male che Pasolini non padroneggiava la tecnica – come ebbe a dire Fellini, che infatti non gli produsse il film).
Ma è sulle figure femminili che, questa volta, ho concentrato l’attenzione: Maddalena la prostituta reietta, la moglie di Accattone e, soprattutto, l’innocente Stella. Sono le donne, per lo più, a lavorare e a dover sbarcare il lunario – mentre l’eroe sottoproletario, libero dalla fatica del lavoro, non riesce a sottrarsi al suo destino tragico: “ora sto bene”, dice morente contro il marciapiede.
Accattone è vivissimo, ma solo una dozzina di anni dopo Pasolini avrebbe detto che non sarebbe stato più possibile girarlo: il “genocidio” di un’intera cultura si era già compiuto.

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L’angelo del focolare

Domenica scorsa ho visitato la retrospettiva milanese dedicata a Max Ernst (è a Palazzo Reale fino a fine febbraio e consiglio di non perderla).
Tra le opere esposte c’è questa, importantissima, del 1937, dipinta da Ernst al termine della guerra di Spagna, con doloroso presentimento di quel che si stava scatenando in Europa:
«L’angelo del focolare è un titolo ironico per una specie di trampoliere che distrugge e annienta tutto quello che incontra. Questa era la mia impressione di ciò a cui il mondo stava andando incontro, e ho avuto ragione» – avrebbe poi dichiarato.
La NATO e la Russia si stanno mobilitando per una guerra di lungo corso (la Russia intende mobilitare un milione e mezzo di soldati, l’Europa intende aumentare la sua produzione di armi – ma non sappiamo ancora se, oltre alle armi, manderà i suoi giovani a morire per Kiev e per i “valori” sbandierati ogni giorno). La guerra ucraina potrebbe essere l’innesco, così come lo fu la guerra di Spagna: riusciremo, almeno questa volta, a smentire le visioni di Ernst e a ricacciare indietro i suoi mostri tutt’altro che surreali?
Ogni giorno che passa lo credo sempre meno.

La soglia

(traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica dell’11 aprile 2022)

Nel rapporto dialettico vita/morte, di cui a lungo abbiamo provato a parlare in questo ciclo di discussioni, un elemento caratteristico è quello della soglia. Della linea di confine tra l’una e l’altra. Una linea che non ci è dato valicare in modo cosciente – a sentire Epicuro, se la si valica non c’è più esperienza né coscienza. È vero che esistono le esperienze di coloro che si risvegliano dal coma o che si avvicinano alla soglia della morte – ma la soglia resta intatta, non valicabile. È proprio della soglia questa sua inesperibilità. Ogni volta che noi superiamo una soglia, o viene negata o si sposta più in là. La soglia è inattingibile – così come ogni limite o confine. E la soglia della morte è la soglia delle soglie.
D’altro canto anche la soglia vista dalla parte dei morti risulta inattingibile, se non inimmaginabile. Dalla morte non c’è ritorno – a meno che non si creda in una vita oltre la morte – di nuovo, al di là di una soglia. Ma è comunque un’altra vita, non la vita corrente – e in questo caso la morte risulta una sorta di cerniera tra le due forme di vita.
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Un museo di stranezze

Ho imparato molte cose dalla mostra dedicata a Giorgio De Chirico allestita al Palazzo Reale di Milano. Avevo una qualche vaga idea della pittura “metafisica”, ma non avevo ben inquadrato il rapporto di De Chirico con Nietzsche (al punto da autoritrarsi nella posa della celebre fotografia del filosofo tedesco), né conoscevo il rapporto strettissimo con la terra greca, che spiega meglio anche tutto il retroterra mitologico e il rapporto con la classicità dell’opera dechirichiana; mi sfuggivano certi simboli ricorrenti (la locomotiva, la torre, la ciminiera, la nave, le bandiere); sono rimasto meravigliato dalla serie dei cavalli e da quella dei bagnanti incastrati nell’acqua-parqué; ed ancora, nulla sapevo dell’autoironia del De Chirico che si dipinge nudo (anche se gli è stata imposta la copertura delle pudenda), in veste di torero o di cicisbeo barocco; ed infine, non sapevo nemmeno che Andy Warhol avesse ricavato l’idea della serialità proprio a partire dalle diverse copie delle Muse inquietanti.
Credo che oltre all’effetto-straniamento (che condivide con Magritte) De Chirico abbia ottenuto risultati notevolissimi lavorando sulla spazialità, a partire da quelle immense piazze spiazzanti, dalle ombre misteriose che le attraversano, e che la sua pittura altro non sia che una “messa in scena”, la riduzione – ed esibizione – del mondo (e della sua stranezza e/o assurdità) dentro a una stanza-scatola. Un mondo che si depotenzia e che depone persino la sua carica violenta  – basti pensare a come De Chirico rappresenta i lottatori, gli eroi, i gladiatori, irridendoli e trasformando le loro corazze e la loro durezza in giocosità molliccia e friabile.
Infine: che cosa ci dicono le figure inquietanti e silenziose dei manichini, quei corpi svuotati, automatizzati, anonimi, alienati – non siamo forse anche noi, come gli oggetti, pezzi di “un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli”?

Il volto e il corpo dell’altro – 8. Freaks!

Il tema di stasera rappresenta una vera e propria summa delle tematiche sull’alterità/diversità, quasi una sintesi ideale del percorso fatto quest’anno: il freak – lo “scherzo di natura”, il mostro – rappresenta per antonomasia il più altro tra gli altri, l’alieno che raccoglie in sé le paure più ancestrali. Come vedremo, il vero freak abita nelle zone dell’interiorità, prima che nell’esteriorità del corpo mostruoso (e mostrato/esibito/rappresentato).

Partiamo da tre termini e dalla loro definizione:
Monstrum (dal latino moneo, monere – avvertimento, segno divino)
portento, prodigio, miracolo, cosa incredibile, meravigliosa
ma anche atto mostruoso (nefandezza), essere mostruoso
– ambivalenza del significato, con una successiva caratterizzazione di tipo morale che tende a sovrapporre se non a identificare la stranezza/mostruosità/deformità al male: dal kalòs kagathòs greco (ciò che è bello è anche buono) al rovesciamento cristiano: il brutto e il deforme che puzzano di zolfo, di diabolico, di maligno.

Freak – termine inglese traducibile con capriccio, bizzarria, anomalia, scherzo (di natura), mostruosità, fenomeno,  associato prima ai freak show (gli spettacoli in voga nell’800-900 nei quali venivano esibite creature straordinarie, deformi, bizzarre, mostruose – non solo umane: i cosiddetti “fenomeni da baraccone”), e a partire dagli anni ’60 al movimento contestatario e anticonformista americano (da cui “frichettone”).

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Il volto e il corpo dell’altro – 5. Il mondo vegetale, tra forme e giardini

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Il romanzo post-apocalittico La strada di Cormac McCarthy, ci fornisce l’immagine di una terra senza colori, grigia, morta, desolata, umbratile, in dissolvenza; non c’è nulla di vivente, tranne umani raminghi alla ricerca di una improbabile sopravvivenza. C’è una cosa che colpisce nella desolazione del contesto: non c’è vegetazione, non una foglia, un virgulto, un filo d’erba, un fiore, niente di niente. Solo rami secchi e tronchi morti e torti. Ma, soprattutto, nessun colore, nessun profumo – solo tonalità grigie e marroni che denotano l’assenza della vita cui siamo abituati. Ecco, probabilmente la natura era similmente grigia, monotona e incolore prima dell’avvento delle angiosperme – ovvero quel tipo di piante più complesse i cui semi vengono avvolti dal frutto (angiosperme vuol proprio dire “seme protetto”) e che riempiono il mondo di fiori – e che sono attualmente le più diffuse sul pianeta.

Il mondo vegetale è lo snodo essenziale del sistema vivente: è nota la sua funzione produttiva di energia tramite la luce solare e la fotosintesi (ne avevamo parlato lo scorso anno a proposito di Tiezzi), caratterizzata dal meccanismo nutritivo dell’autotrofia, in contrapposizione all’eterotrofia tipica degli animali (ovvero la necessità di ricorrere ad altri – etero – viventi per nutrirsi: le piante donano carboidrati e cibo ai non-vegetali, che altrimenti non potrebbero sussistere).
Il mondo dei vegetali, oltre ad avere un enorme fascino, è ricco di implicazioni simboliche, tanto che potremmo definire il vegetale come una sorta di metafora integrale del vivente. Basti pensare alla figura dell’albero, con la sua conformazione (radici, rizomi, foglie, ecc.), al seme, alla luce, alla morfologia (come vedremo in Goethe); per non parlare della figura del giardino, che riveste un significato essenziale per tutta la storia umana, e in tutte le culture.

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Poesia non poesia

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«I vari scrittori, italiani e non, i quali hanno strillato che Dylan non fa parte della letteratura, dovrebbero chiedersi prima di tutto se ne fanno parte loro, perché pubblicare un libro, o anche molti libri, significa essere dei lavoranti della scrittura, il che va bene, ma non significa per forza far parte di ciò che la letteratura decide di essere giorno per giorno. Vale ancora di più per la poesia. Che per ammontare a qualcosa deve uscire dalla pagina, deve acquisire una voce» (Alessandro Carrera)

«Nel mondo della merce, dello spettacolo e del pensiero unico… chi perde più tempo a leggere, e a leggere versi? … C’era proprio bisogno di correre in soccorso delle star? Sarebbe bastato aprire altre sezioni del Nobel, e  nel frattempo lasciare sopravvivere quella parola fragile, “diversamente musicale”, che vive unicamente sulla pagina» (Valerio Magrelli)

Al di là delle polemiche sterili, della faciloneria delle sparate social e di qualche mal di pancia “di categoria”, il Nobel a Bob Dylan, e la straordinaria contingenza della sua assegnazione nel medesimo giorno della morte di un altro premiato controverso quale fu a suo tempo Dario Fo – è interessantissimo proprio per quanto concerne lo statuto della poesia e della letteratura, che cosa esse siano (o siano diventate, vista la loro ovvia cangiante storicità), quale funzione sociale rivestono, quale il loro significato.
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Ottavo fuoco: la bellezza

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Avevamo parlato due anni fa dell’arte. Ora è il turno della bellezza, cui inevitabilmente questa rinvia. Ma se l’arte è il fronte oggettivo, visibile, espressivo del mondo estetico, la bellezza ne è lo sfuggente lato soggettivo, legato al gusto e al piacere individuali.
Arte (e natura) si stagliano – sterminati e muti – di fronte a noi, laddove è il sentimento della bellezza in noi a scuoterci. Ma donde viene questo sentimento? Come si è formato? Cos’è?
È questa la domanda – che possiamo volgere anche nella forma classica, e un po’ abusata, del bello in sé o bello per noi: è bello perché ci piace o è bello perché lo è in se stesso?
Già la formulazione di questa domanda richiede un chiarimento terminologico tra piacere e bellezza, ma ci torneremo tra poco.
Cominciamo col dire che i filosofi hanno risposto in modi diversi al quesito, e che solo da un paio di secoli e mezzo è nata quella disciplina filosofica denominata Estetica, che si occupa di bellezza, di gusto, di arte in maniera sistematica, cercando di fare ordine e chiarezza in questo campo, sia a livello percettivo che formale.
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Tutto è forma, la forma è tutto

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(inevitabilmente, dedico questo piccolo post
a quel grande creatore di forme che è stato David Bowie
– fino a fare di se stesso una perenne metamorfosi)

Vorrei saper scrivere un libro – una sorta di fenomenologia delle forme – che abbia la medesima mole, vastità di sguardo e profondità di Massa e potere di Canetti.
Credo di avere sempre avuto una grande predilezione per le forme. Si dirà che è ovvio, che non c’è umano che non ami le forme, che è grazie all’attrazione per le forme che ci si innamora, che si fanno esperienze estetiche, che si producono oggetti, che si costruiscono case, e così via.
Non vi è dubbio, ma l’amore intellettuale e sistematico per le forme – che pure possiedo solo in potenza e che invece vorrei saper esercitare in dettaglio, profondità e grande stile – richiede un salto di qualità ulteriore. Richiede una concentrazione intellettuale, una potenza dello sguardo e della capacità di osservazione che solo i grandi artisti e i grandi naturalisti possiedono.
[Tra l’altro, en passant: forme biologiche e forme estetiche, natura e arte, i due organismi essenziali della produzione idealistica secondo la filosofia di Schelling, un pensatore piuttosto dimenticato, e messo in ombra dall’hegelismo, che forse sarebbe il caso di riesumare].
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