Com’è giusto che sia, The Whale (la balena, come l’inafferrabile Moby Dick!), è un film ostico, in parte irritante, claustrofobico, che non può non far discutere.
Sull’interpretazione di Brendan Fraser non si discute, è semplicemente clamorosa; sulla storia registica di Aronofsky anche, i suoi film sono fatti per inquietare.
C’è un primo elemento problematico, ovvero il passaggio dalla scena teatrale a quella cinematografica: camera immobile, formato 4:3, tutto pensato per mettere al centro Charlie e il suo corpo strabordante. Ogni tanto, però, qualcosa si inceppa, nella trasposizione, nei dialoghi, nella sceneggiatura, e qualcosa risulta sopra le righe. Ma alla fine anche queste sbavature sono forse funzionali allo scopo della messa in scena: come rappresentare una storia di tentata redenzione di un corpo fuori controllo e di un’anima spezzata?
Devo dire che la parte “anima spezzata” mi ha preso meno, mentre è la rappresentazione dell’obesità, il corpo che esce dai propri limiti, e le conseguenze che ciò comporta nei gesti quotidiani anche minimi, che ho seguito con più interesse. Non so se con partecipazione, ma certo con sofferente curiosità.
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Categoria: SUONI E VISIONI
La forza di Leningrado
L’Orchestra sinfonica di Milano ha eseguito ieri la Settima sinfonia di Shostakovich, nota come Leningrado, una delle sinfonie più amate ed entusiasmanti del musicista russo (ma mi verrebbe da dire “sovietico”).
Per quanto la parola “entusiasmo” sia del tutto fuori luogo, poiché si tratta di una sinfonia diventata il simbolo della resistenza umana e culturale sotto l’assedio delle armate naziste cominciata con l’invasione del 1941.
Le vicende che riguardano l’opera hanno un carattere inevitabilmente epico, sia per quanto riguarda la sua genesi, sia per le vicissitudini: la disperata ricerca per raggiungere l’organico necessario di 100 elementi, la prima prova durata solo un quarto d’ora per eccessiva debolezza dei musicisti, il viaggio rocambolesco della partitura fino a New York, dove venne eseguita dall’antifascista Toscanini e glorificata dagli alleati americani (salvo rimuoverla nel dopoguerra a causa della guerra fredda), l’applauso di un’ora dei cittadini di Leningrado, dove la sinfonia venne eseguita solo il 9 agosto 1942, con tanto di altoparlanti diffusi in città, i soldati tedeschi frastornati…
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Retrospettiva pasoliniana

[Ho rivisto tutti i film di Pasolini, in ordine cronologico. Man mano ho scritto degli appunti, che ho raccolto qui]
Accattone (1961) è ancora vivissimo: le camminate dialoganti sullo sfondo delle borgate, il coro dei ragazzi al bar che sottolinea i passaggi del dramma del protagonista, l’invivibilità dei luoghi, ma soprattutto le riprese dei corpi, dei volti, degli occhi del sottoproletariato romano (niente attori professionisti!) – sono un vero e proprio manifesto estetico, etico ed antropologico, derivante ovviamente dalle sue precedenti prove letterarie e dai suoi “ragazzi di vita” (e meno male che Pasolini non padroneggiava la tecnica – come ebbe a dire Fellini, che infatti non gli produsse il film).
Ma è sulle figure femminili che, questa volta, ho concentrato l’attenzione: Maddalena la prostituta reietta, la moglie di Accattone e, soprattutto, l’innocente Stella. Sono le donne, per lo più, a lavorare e a dover sbarcare il lunario – mentre l’eroe sottoproletario, libero dalla fatica del lavoro, non riesce a sottrarsi al suo destino tragico: “ora sto bene”, dice morente contro il marciapiede.
Accattone è vivissimo, ma solo una dozzina di anni dopo Pasolini avrebbe detto che non sarebbe stato più possibile girarlo: il “genocidio” di un’intera cultura si era già compiuto.
Tenero Mahler
(Ieri pomeriggio, passeggiando nel bosco riarso, ascoltando Mahler)
La Nona Sinfonia di Mahler – l’ultima compiuta – è stata spesso indicata come la sinfonia della dissoluzione. Specie nell’Adagio finale il compositore austriaco sembra voler prendere congedo dal mondo attraverso la disgregazione del suono, fino a spingersi alle soglie del silenzio.
Ma non è proprio così. O non è solo così.
È vero, il mondo sembra disgregarsi dinnanzi ai nostri occhi. L’arsura del bosco, la terra così polverosa sotto i passi leggeri, fanno impressione. I ghiacciai che si liquefanno. Gli umani che si frantumano le ossa, che distruggono i territori, che spezzano i fili che li legano. E su ogni cosa, l’angoscioso avanzare di un sentimento della fine, di una catastrofe imminente.
Mahler non vide quel che sarebbe poi successo nel Novecento, ma forse ne aveva sentore. Ciò nonostante questa ultima sinfonia è soprattutto una carezza a quel mondo in bilico – a tutte le sue creature. Pur con dissonanze, suoni lugubri e danze macabre, quel che resta alla fine è il filo di un canto delicato fino alla trasparenza. Un guardare al mondo con infinita tenerezza.
Mahler ci sta parlando ancora, più di ieri.
Il granello di senape
Ho finalmente visto l’ultimo film di Terrence Malick, La vita nascosta (A Hidden Life). Non esito a definirlo, insieme a La sottile linea rossa e a The Tree of Life, tra i capolavori della cinematografia del XXI secolo.
Sono due le parole che utilizzerei come filo conduttore: turbamento (ciò che provoca in noi spettatori), forza (il motore segreto che muove i protagonisti).
Il film si ispira alla vicenda di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che dopo l’Anschluss (per la quale fu l’unico del suo villaggio a votare no), decide di obiettare al servizio militare e di opporsi al regime nazista, fino ad essere ghigliottinato a Berlino il 9 agosto 1943.
La sua scelta è radicale, ispirata dalla fede (che condivide fortemente con la moglie Franziska), e che non cede alle pressioni sociali, né all’ostracismo della comunità e nemmeno alle mediazioni ecclesiastiche. Di fronte a quello che riconosce come il male assoluto, Franz è intransigente e sceglie il martirio (verrà poi beatificato nel 2007).
Ora, di fronte ad una vicenda così drammatica e complessa, Malick non si sottrae e investe tutte le sue energie, il suo inconfondibile stile cinematografico, lo scavo interiore espresso dalla voce fuori campo, il linguaggio dei volti e dei corpi, l’estetica dell’immersione naturalistica, il suo profondo antimilitarismo e amore per la vita – al fine di costruire un’intensa rappresentazione insieme visiva e filosofica, per parlarci della responsabilità di fronte a cui ogni umano sempre si trova quando deve scegliere tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso.
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Felliniana
[approfittando di cinema chiusi e coprifuoco, ho deciso di organizzare un cineforum solitario – un ossimoro come il tempo che stiamo vivendo – e di vedermi tutta la produzione cinematografica di Fellini, in ordine più o meno cronologico, dagli anni ’50 in poi; dopo ogni visione annotavo cose, e ne è venuto fuori un piccolo spaccato antropologico del paese, una sorta di coscienza critica per simboli ed immagini, che fa del regista riminese non solo uno dei cineasti più importanti e visionari del mondo, ma anche un antropologo, un intellettuale, un fustigatore – e un sognatore – dell’Italia del Novecento]
La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957) entrambi con Giulietta Masina, si richiamano a vicenda.
La protagonista è l’ingenua, la pura, un po’ sauvage e idiota, la perdente costretta dalle circostanze a “fare la vita” – nel primo caso a fare la serva a un giramondo, nel secondo a prostituirsi.
Ma se La strada di Gelsomina è più una fiaba universale – già “felliniana” ante litteram, con tutto l’immaginario circense, da sarabanda, musicale e strabordante stranezze e grottesco, luci e ombre della festosità-vitalità – Le notti di Cabiria è invece totalmente calato nella Roma degli anni ‘50 – la Roma di via Veneto, dei Parioli e delle stelle del cinema da una parte (magnifica la parte di Amedeo Nazzari), e la Roma delle grotte, dei tuguri, delle periferie dall’altro (i dialoghi sono opera di Pasolini).
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Straniata liberazione
La bocca di Joker
Premessa: non ho ancora letto nessuna recensione, nessun articolo o post, nessun commento – tranne qualche lamentela social, le solite (abbastanza inutili) sull’effetto-saturazione, che non fanno altro che moltiplicare quell’effetto.
Però ho visto il film due volte, la prima in modo immediato, facendomene soprattutto attraversare ed impressionare, la seconda con un occhio laterale, un po’ più riflessivo e attento.
Dunque, partiamo da un’ovvietà: Joker non è un saggio di antropologia filosofica o di psicologia o di sociologia – Joker è un film, e la prima valutazione non può che essere di tipo estetico.
Non so se si tratti di un “capolavoro” (etichetta inutile, anche perché i capolavori, di qualunque genere o tipologia artistica, richiedono processi lunghi di gestazione, metabolizzazione e sedimentazione nell’immaginario collettivo), però è senz’altro un ottimo film che si regge essenzialmente su due colonne: la prima, l’attore-protagonista, perennemente presente in scena, col suo corpo, il suo volto, la sua bocca, la sua maschera, che si contraggono, si contorcono, si deformano in un flusso continuo di esposizione fisico-emotiva; la seconda, una colonna sonora potentissima, che ricorda l’intensità di alcune scelte estetiche di Nolan.
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Sulla mia pelle
Il film sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi è importante, non solo per la ricostruzione verosimile di quella che è stata una tragedia (evitabile) frutto di un’ingiustizia assurda, di un’anomalia o del malfunzionamento della macchina statale e giudiziaria, che anziché proteggere un suo cittadino fragile lo stritola e lo getta via come un oggetto inutile – ma perché ci dice qualcosa di essenziale, ben oltre la pelle o la superficie, sia del potere sia della china pericolosa che il clima sociale va prendendo in questo paese.
Il dramma di Cucchi preannuncia, cioè, con alcuni anni di anticipo la precipitazione cui la paranoia securitaria può portare un’intera società in assenza di conflitto e di diffuse istanze libertarie e di emancipazione (del resto lo si era già visto a Napoli e a Genova nel 2001, e che qui si sia trattato di un fatto “privato” e non politico non cambia di una virgola la sostanza dei processi in corso).
Stefano Cucchi appare cioè come una figura sociale scomoda e marginale, del tutto sacrificabile sull’altare dell’ordine borghese da ristabilire – insieme a tutta la consimile feccia sociale, siano essi drogati, vagabondi, rom, poveri, immigrati, profughi e sbandati vari. Chi è al governo oggi, e non parlo solo della Lega ma anche dell’anima più forcaiola dei suoi alleati pentastellati, si è nutrito di questo risentimento sociale, del livore e del fastidio per i diversi.
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Il giovane Karl Marx
Ho molto apprezzato il film del regista Raoul Peck sul giovane Marx, uscito in questi giorni nelle sale cinematografiche, proprio alla vigilia del bicentenario della nascita. Certo, sarebbe stato meglio omaggiare il barbuto di Treviri con una bella rivoluzione – cosa di cui ci sarebbe un gran bisogno – ma per ora dobbiamo accontentarci delle rievocazioni. Che peraltro appaiono molto meno spettrali di qualche decennio fa, quando, dopo il crollo del mondo sovietico, i sicofanti delle magnifiche sorti e progressive del liberismo si erano affrettati a suonare la campana a morto del comunismo e del suo più importante pensatore. Dimenticandosi che si possono anche nascondere sotto il tappeto gli effetti collaterali ingiusti del loro mondo a senso unico – ma se la merda, l’alienazione e l’infelicità mortifera prodotti dal capitale continuano a crescere insieme al valore e alla ricchezza, prima o poi qualche crepa si aprirà.
Ed è esattamente questo il momento in cui si cominciano a fare i conti con trasformazioni che, come ai tempi di Marx, potrebbero essere foriere sia di immani disastri che di future rivoluzioni. Tempi quantomai ancipiti, dunque, che, al netto di una certa misantropia e di un crescente fastidio per la cancrena antropomorfica, possono persino risultare belli da vivere. Giusto per vedere cosa potrà succedere. E, tornando al film, è proprio ciò che lo rende più interessante: concentrarsi sul pensiero sorgivo di Marx, una potente anticipazione (purtroppo talvolta scambiata per fede o profezia) dei tempi a venire.
Al di là di questa atmosfera generale che vi si respira, il film ha altri meriti (anche teorici, cosa non semplice per una pellicola) che è bene porre in evidenza:
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