Benedetto Haruf

(questa è l’ultima foto che ho fatto con mio padre, lo scorso febbraio, tre mesi prima che ci lasciasse; è stata una benedizione vederlo sorridere ancora, anche se sarebbe stata una delle ultime volte; leggendo questo romanzo di Kent Haruf, inevitabilmente fin dalle prime righe ho pensato a lui; l’autore, qui, parla anche di lui, di me, di noi, e di mia madre e dei quasi sessant’anni accanto all’uomo della sua vita; parla a me, alla mia anima affranta e a tutte le anime: anche per questo, siano benedette per sempre le sue parole)

Una benedizione è questa Trilogia della pianura che ci è stata donata in sorte – con quest’ultimo romanzo in particolare, che tratta fondamentalmente del tema della morte, e che è stato pubblicato da Kent Haruf poco prima della sua, di morte.
Per chi non lo avesse mai letto, c’è solo da premettere che nelle sue storie non succede nulla di eclatante, tutto si svolge in maniera piana, semplice, quasi sussurrata, intima, con l’asciuttezza tipica di un McCarthy, in quella scena-mondo che è Holt, il paese immaginario (ma specchio di luoghi in cui l’autore ha vissuto) che sta dalle parti di Denver, in Colorado. Dicevo: non succede nulla, per dire che invece succede tutto.
Lo schema narrativo si ripete identico in tutti i romanzi di Haruf: due, tre storie che si intrecciano o alternano, e che ci narrano vite semplici – o meglio, apparentemente semplici – in un contesto sociale e antropologico che è l’eterna provincia americana, l’America profonda e rurale, e in un contesto naturale che ci dovrebbe ricordare quanto può essere dura la terra, e quanto ostili gli elementi.
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La vita (dis)continua

Se c’è un’espressione che detesto è la vita continua.
Ti è successo questo, ti è successo quest’altro – ma la vita continua.
Ti è morto un genitore, un figlio/a, un amico/a, un compagno/a (valgono anche gli animali) – eppure la vita continua. Ci sarà sempre qualcuno che userà questa espressione trita, banale e stupidamente tautologica – volta forse a nascondere da una parte l’imbarazzo e l’incapacità di dire cose sensate di fronte ai lutti o alle tragedie, e dall’altra il sospetto che sempre alligna nella mente di chi la dice che quella vita che si vuole così continua e lineare sia in realtà un abisso di orrori.
Una vita come tanteA Little Life nell’edizione americana originale – romanzo della scrittrice di origini hawaiane Hanya Yanagihara, sembra quasi voler rispondere, e ci mette oltre mille pagine per farlo, alla banalità di quell’espressione – perché la vita non continua.
A dispetto della sua mole fluviale, potremmo ridurre l’intreccio narrativo a due semplici e però essenziali domande: la prima – che cos’è il male? – è inscritta nel destino toccato in sorte a Jude, l’infelice protagonista (ma chi è felice?), ovvero il male come indebolimento dell’altro, diminuzione sistematica della sua potenza vitale – quasi a dimostrare che nella vita di ogni umano c’è sempre un genio maligno che ha la funzione di inoculargli sottopelle un siero, con la precisa funzione anti-spinoziana di indurgli passioni tristi e inibirgli passioni liete. Progettare l’infelicità dell’altro – come ebbe a suggerire il filosofo amico dei lupi Mark Rowlands.
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Sesto fuoco: utopia dell’armonia

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discorde si accorda
stupenda armonia
da contrasti
(Eraclito)

Ci interrogheremo stasera sulla natura e funzione delle passioni, e sul conflitto tra narcisismo ed empatia – ovvero tra pulsioni egoistiche e altruistiche.
Possiamo dire che si tratta di forze compresenti, sia negli individui che nelle società, anche se la spinta naturale all’autoconservazione è quasi sempre prevalente. Vi sono anche manifestazioni sociali evidenti di tali spinte contrastanti: società più aperte e accoglienti rispetto a società più chiuse e arroccate. Noi però andremo a scavare più a fondo, alle radici di tali pulsioni, lasciando in secondo piano (e magari ad oggetto della discussione) le manifestazioni sociali o comportamentali più evidenti.
Lo faremo mettendo in scena il colloquio immaginario tra un neuroscienziato e un filosofo – Antonio Damasio e Baruch Spinoza – che a distanza di secoli si ritrovano sorprendentemente a condividere molte idee a proposito di mente, corpo ed emozioni.
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Trogloditi etici

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Mentre intervengono pure i parrucconi-professoroni pediatri a dire cose infondate oppure banalità, appare sempre più evidente come la strategia reazionaria dei trogloditi etici della “famiglia naturale” sia non solo povera di argomenti, ma anche di spirito: ché essi riducono appunto lo spirito ad animalità, e l’amorosa educazione dei bambini ad una faccenda biologica – e i genitori alla nudità di un ovulo e dello sperma che lo feconda.
Ora, non è nel mio stile essere troppo assertivo, ma viste le idiozie provenienti dal campo dell’infamilyday è bene chiarire alcuni punti fermi:
a) non esiste alcuna “famiglia naturale” – esistono solo forme storiche e sociali di famiglia, e dunque famiglie diverse e in perenne trasformazione
b) non esiste nemmeno una forma unica, naturale ed assoluta di nascita e procreazione: la tecnoscienza ha mutato e muterà sempre di più la biologia, che non è, come qualcuno ha detto, un destino
c) è infondato pensare che un bambino necessiti di un papà e di una mamma, altrimenti sarebbe infelice: un bambino necessita di cure in senso lato, e le figure che lo accudiscono sono ruoli del tutto convenzionali
d) mi par legittimo che in una società in cui tutti i cittadini abbiano pari diritti, ciascun* possa decidere liberamente ed autonomamente quale forma di unione e/o forma familiare scegliere – matrimonio compreso
e) l’adozione e/o la procreazione di bambini da parte di persone glbt ha pari dignità e pari possibilità di successo delle forme di adozione/procreazione tradizionali
f) infine: esiste un “diritto d’amore” (rivendicato ad esempio da Stefano Rodotà) che può e deve far convergere regole e sfera affettiva. È l’amore ad avere un alto significato sociale, non “i valori”.
Fine degli umani non è forse la felicità, nonostante la valle di lacrime? Perché moltiplicarle laddove non ce n’è alcun bisogno?

Altrove

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È stato un azzardo, lo so.
Far vedere un film come The Giver (dunque senza la mediazione consentita dalla lenta penetrazione della parola scritta).
A dei bambini di 10-11 anni.
Un film che tratta temi come: eugenetica, eutanasia, deprivazione emotiva, distopia, controllo ed ingegneria sociale, memoria ed oblio, tecnocrazia, apatia ed empatia, omologazione, dissimulazione, potenza del linguaggio…
È stato un azzardo, ma i bambini hanno accettato la sfida.
E l’hanno vinta, almeno credo. Discutendone apertamente, senza paura. Comprendendone l’essenziale. Mente ed emozioni acuminate.
Un po’, però, mi sento in colpa. E assalito da malinconia.
Perché la loro infanzia è davvero finita. Ragazzi, non più bambini. “Grazie per la vostra infanzia” – parafrasando il film.
Temo e spero per loro. Fortemente, nello stesso tempo.
Ed è – come nella bellissima storia e visione di Jonas – una estrema, disperante ma necessaria apologia dell’amore.
Dov’è l’altrove? – è stata la domanda, rimasta aperta, con cui ci siamo lasciati. Già, dov’è?

Non si poteva dir meglio del concetto di amore

Gustave_Klimt_KLG006Leibniz passa per un filosofo algido e calcolatore, oltre che cortigiano. Insomma, pur essendo stato un grande pensatore, di solito non ispira molta simpatia.
Eppure capita di leggere nei suoi scritti perle come le seguenti: «Amare… ossia aver caro è provar piacere della felicità di un altro, ovvero, che è lo stesso, accogliere nella propria la felicità altrui»; «Il bene altrui potrà infatti essere il nostro, ma come mezzo, non come fine. Io rispondo però: anche come fine, anche come ricercato di per sé, quando è portatore di gioia. Infatti tutto ciò che dà gioia viene cercato di per sé e tutto ciò che viene cercato di per sé dà gioia».

Leopardi progressivo

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Era il titolo di un saggio del filosofo e militante del Pci Cesare Luporini, scritto nell’immediato secondo dopoguerra e che ebbi la fortuna di leggere una trentina di anni fa, nel contesto di un esame universitario – contesto obbligato che non mi impedì di apprezzarlo, anzi di trovarla una delle letture più esaltanti dei miei vent’anni. Ovviamente, insieme alla lettura degli idilli, dei canti, delle operette morali e di qualche passo sparso dello Zibaldone. Oggi ripartirei da quest’ultimo e me lo leggerei integralmente – se solo potessi, qualche pagina ogni giorno.
Il saggio di Luporini mi è tornato alla mente qualche sera fa, nel corso della visione del film di Martone Il giovane favoloso. Non sto a dare giudizi articolati su di esso: indiscutibilmente bravo l’interprete, con qualche sbavatura ed eccesso la sceneggiatura – rimane il fatto che occorre avere parecchio fegato per cimentarsi in un film su Leopardi. Quel che però è assolutamente apprezzabile del lavoro di Martone è da una parte l’immagine vitale e proiettata nel futuro del poeta di Recanati che ne vien fuori, e dall’altra l’essere riuscito ad articolare in poco più di due ore la summa, gli snodi essenziali, il filo del progresso mentale, psicologico ed intellettuale di Leopardi – che non è certo cosa facile. Ed è forse questo il motivo per cui mi è tornato in mente quello scritto.
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Amore nettunico (con oblio)

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«Esiste una sola specie di amore, al di là dello spazio e del tempo; tutti gli incontri sulla terra sono immagini, sono colori dell’unica e indivisibile luce. L’amore inteso in senso generale, l’amore nel turbine della temporalità è terreno, e nettunico; l’oceano è la culla dalla quale si erge Afrodite. Dai suoi abissi sgorga ciò che nell’amore è onda e ritmo, tensione e mescolanza, ciò che è meraviglioso e terribile. Sulla riva del mare e sugli scogli noi percepiamo la sua anonima canzone fatale, le profonde voci delle sirene che, emergendo e tuffandosi, ci attirano per perderci nel loro mare. L’attrazione è irresistibile».

[Ho ritrovato tra le bozze del blog questo passo, senz’altra indicazione, e rileggendolo non ho potuto capire né cosa fosse né come mai lo avessi trascritto – ovviamente ho subito capito che non era di mio pugno. Mi sarebbe piaciuto pubblicarlo così, in maniera anonima, ma la potenza di google me lo ha impedito, visto che nel tempo di un clic ne ho potuto individuare la fonte – ovvero Ernst Jünger, Nel palazzo. È un brano molto bello, ma la mia memoria rimane comunque avvolta dalle nebbie a proposito del luogo e delle circostanze di lettura. Mi fornisce però la ghiotta occasione di accompagnarlo al quadro di Botticelli, che forse mai più mi si ripresenterà…]

Quinto lunedì: la fiducia, cura delle passioni tristi

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[Utilizzerò come traccia il saggio di Michela Marzano Avere fiducia, che ha un taglio divulgativo, anche se talvolta disomogeneo e dispersivo – un testo che comunque offre molti spunti di riflessione interessanti, che credo saranno utili alla nostra discussione].

Farò due esempi per cominciare, uno personale l’altro tratto dalla Marzano:
-l’esercizio della caduta
-il dilemma del prigioniero
Il primo esempio ci offre un taglio emotivo ed istintivo della fiducia, mentre il secondo ce ne offre un profilo squisitamente razionale.
Anni fa, ad un laboratorio teatrale cui partecipavo, i conduttori ci fecero fare un esercizio in cui ciascuno avrebbe dovuto lasciarsi cadere all’indietro, di schiena, confidando nel fatto che qualcun altro del gruppo lo avrebbe preso. Non tutti riuscirono ad eseguire l’esercizio: tanto il gettarsi, quanto il bloccarsi avevano probabilmente a che fare con dei gesti istintivi, di cieca fiducia (per quanto simulata) nel primo caso, di paura nell’altro.
Michela Marzano ci parla ad un certo punto del “dilemma del prigioniero”, un celebre problema matematico-probabilistico della teoria dei giochi: due criminali vengono arrestati, separati e fatta loro una proposta di confessione così concepita: se uno confessa e l’altro no, il primo viene liberato e l’altro condannato a dieci anni; se entrambi confessano verranno condannati tutti e due a 5 anni; se nessuno dei due confessa, dovranno scontare 1 anno di prigione. In questo caso (tralasciando la casistica e la discussione sulla probabilità delle scelte, che oscilla dall’egoismo della prima opzione al solidarismo della terza), ciò che emerge è piuttosto l’aspetto razionale e di calcolo della fiducia (per chi volesse approfondire il dilemma, è consultabile la voce su wikipedia, anche se con una formulazione diversa, mentre la Marzano ne parla alle pagine 39-40).
Entrambi gli esempi si reggono sulla fiducia, che pare però oscillare tra l’istinto e la decisione razionale, non essendo riducibile a nessuna delle due dimensioni.

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Secondo lunedì: éros e agàpe

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[Quella che segue è la traccia del mio intervento al Gruppo di discussione filosofica tenutosi lo scorso lunedì 18 novembre, cui è seguito il contributo dell’amico e teologo Marco Paleari. Che ci ha consegnato una visione tutt’altro che eterea dell’amore cristiano – éros come un uscire da sé e andare verso l’altro – che affonda le proprie radici in una complessa tradizione religiosa e spirituale non riducibile a quella occidentale o al cattolicesimo, con interessanti riferimenti all’arte, all’iconografia, al misticismo e ad un pensiero teologico più propenso ad indicare che a prescrivere, decisamente più comprensivo che moraleggiante. È stata una serata ricca di spunti, con una partecipazione davvero straordinaria – fin nel numero di presenze, che ha superato le 30 persone, ma che ha scontato l’ovvio limite dell’ampiezza del tema e della pochezza del tempo a disposizione: troppa carne al fuoco, insomma, anche se preferirei un’altra metafora, visto il mio vegetarianesimo…]

***

Cominciamo dalle parole e dai loro significati originari. Ne metto in gioco tre, tutte della lingua greca:

érosphilìaagàpe

(in verità quest’ultima è pochissimo usata, ed entrerà nel vocabolario religioso quando si tratterà di tradurre in lingua greca il concetto dell’amore di Dio nei confronti degli uomini).
Questo il significato delle due parole più utilizzate:
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