Le parole del contagio

La morte – come da un’alta vetta –
riformula i criteri di giudizio
e ciò che non credemmo
ora scorgiamo chiaro
(Emily Dickinson)

«Non ho visto, pertanto, nient’altro da fare che provare, come chiunque altro, a sequestrarmi a casa mia e nient’altro da dire che esortare chiunque altro a fare lo stesso», così scrive Alain Badiou.
E alla domanda: “Che cosa possiamo imparare dal virus?”, Massimo Cacciari risponde seccamente: Nulla. A stare fermi un po’. Cosa volete imparare? Basta con questa retorica che dalle difficoltà si esce migliori. Il nostro cervello è lo stesso di 100.000 anni fa…

Qualcuno si sarà senz’altro chiesto che cosa può dire o fare la filosofia di fronte ad un evento come quello che stiamo vivendo, così violento e inaspettato (uno dei problemi è anche quello della sua definizione e qualificazione). Hanno ragione Badiou e Cacciari: la filosofia non può nulla. La filosofia non può modificare il corso degli eventi, la filosofia non può prevenirli, la filosofia non può nemmeno consolare gli animi. Ciò che forse può fare la riflessione filosofica è aiutare le menti ottenebrate degli umani a vedere con maggior chiarezza quel che hanno davanti (o sotto i loro piedi o alle loro spalle o dentro di loro), anche se in un senso radicalmente diverso da quello della scienza. Ecco, la scienza può provare a prevenire, modificare, curare, salvare (anche se non è detto che ci riesca), la filosofia no. La religione può provare a consolare, confortare, rasserenare, ma non la filosofia. Compito della filosofia è solo quello di dire il vero, o di provarci. La verità, una parola che può anche svelare cose che non vorremmo né vedere né sapere.
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Una morte secca

CathedralOfTrier_SkeletonLa giornata comincia a letto con la quantificazione dell’urina fatta durante la notte, l’apposizione di Epinitril (un cerotto alla nitroglicerina, che ho scoperto essere un vasodilatatore) e il gioco dell’emissione e dell’immissione di aria dai polmoni catarrosi attraverso un puff dotato di una graziosa rotella rossa da far girare due volte fino a sentire un clic. Poi continua in cucina, dopo una breve passeggiata in corridoio con l’ausilio di un bastone, eseguendo nell’ordine: misurazione della pressione arteriosa e dei battiti cardiaci, rilevazione della glicemia, iniezione di insulina, assunzione di Lansoprazolo a scopo di protezione gastrica, colazione leggera, assunzione di 125 mg di furosemide (molecola che favorisce la diuresi) e Pritor (antiipertensivo).
Si tratta ora di attendere l’ora di pranzo, quando si ripeterà il rito dell’insulina e si provvederà, subito dopo il pasto, all’assunzione della cardiospirina atta a fluidificare il sangue – ma il cardiochirurgo dice che è pessima per le funzioni renali. Sonnellino pomeridiano di un paio d’ore e poi, alle 16 in punto, è l’ora di Norvasc, una pastiglia dal duplice effetto: agisce sulla pressione e ossigena il cuore.
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Un giorno questo straniamento ti sarà utile

“Anna avrebbe voluto morire
Marco voleva andarsene lontano
qualcuno li ha visti tornare tenendosi per mano”
(Lucio Dalla)

Gli adolescenti mi danno da pensare. Forse perché cerco di ricordarmi com’ero io all’epoca e provo un certo disagio nel figurarmi goffo, inadeguato, inadatto – sempre in conflitto con un mondo pronto indifferentemente ad assorbirmi o a stritolarmi. “Quante balle si ha in testa a quell’età […] a vent’anni si è stupidi davvero“, cantava Francesco Guccini – anche se i suoi 20 anni corrispondono ben poco a quelli di oggi, e tantomeno a quella fascia del tutto aliena che va dai 14 ai 18.
Mi vien però da dire che se i bambini sono naturalmente disposti alla filosofia – dato che si fanno tante domande e chiedono in maniera petulante ed asfissiante “perché?”, allora lo sono anche gli adolescenti, magari per ragioni diametralmente opposte, dato che non si chiedono un bel niente (o sono indotti a non farlo), e quando per avventura si fermano a chiedersi qualcosa, lo fanno da una posizione di radicale straniamento. Lo esemplifico con tre scene – due di vita vissuta, una di vita fittizia e rappresentata. Continua a leggere “Un giorno questo straniamento ti sarà utile”

Trilogia filosofico-letteraria – 1. Delitto (senza) castigo

Ho letto tutti i grandi romanzi di Dostoevskij tra i 16 e i 18 anni. L’ho fatto con la passione e il furore adolescenziali che, nel caso dello scrittore russo, vengono favoriti da una scrittura febbrile, visionaria, estrema e totalizzante. Li leggevo ovunque: a casa, per strada, in biblioteca, nei giardini – pure a scuola, di nascosto sotto il banco, tanto che un mio professore aveva preso a chiamarmi “Karamazòv”.

Li ho poi riletti, con una cadenza grosso modo decennale, ogni volta scoprendovi nuovi tesori – e nonostante la maggiore consapevolezza, quel marchio originario del furore si è sempre ripresentato. Forse perché l’alto tasso di filosoficità di Dostoevskij non è mai disgiunto dal furore passionale ed esistenziale dei suoi personaggi: dio, la vita, la morte, il senso dell’esistenza, l’angoscia sono sempre intrecciati alla tonalità emotiva e ai sentimenti (spesso forsennati) degli individui in carne ed ossa che popolano quelle pagine fitte di umanità.
La recente rilettura (per la terza volta) di Delitto e castigo me ne ha dato ulteriore conferma.

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Filosofia della contingenza – 3

Il tempo è un bambino che gioca coi dadi:
di un bimbo è il regno.
(Eraclito)

[Sommario: 1. La freccia del tempo – 2. Sassi vaganti – 3. Di nuovo: natura e cultura – 4. Parentesi ontologica: la crisi del fondamento – 5. Etica della contingenza – 6. Ancora una filosofia della storia? – 7. Due dilemmi a chiudere – La stoffa delle stelle]

1. Dalla teoria – corroborata da una serie di fatti – che la vita non ci avrebbe previsti (a rigore non avrebbe previsto nessuna delle sue creature o evoluzioni – ma, conseguentemente, essa stessa sarebbe del tutto contingente, cioè poteva benissimo non esserci), Telmo Pievani inclina verso una radicale filosofia della contingenza, ed ecco il motivo del titolo di questa serie di post.
La storia naturale è essenzialmente contingente poiché priva di alcun progetto a priori, ogni specie ed ogni storia di ciascuna specie essendo unica e contraddistinta da serie causali indipendenti la cui congiunzione ha prodotto, a posteriori, quel determinato risultato storico. Il nastro di ciascuna storia non è riavvolgibile, e la freccia del tempo evolutivo corre in una determinata direzione mossa da molteplici serie causali che si congiungono in modo improbabile, inaspettato ed univoco, e non c’è alcuna ragione perché debbano farlo sistematicamente o necessariamente. Questi sarebbero, tra l’altro, gli ingredienti non ancora metabolizzati della rivoluzione darwiniana, che finiscono per storicizzare quel che di solito si pensa sia immutabile: la natura e le sue leggi. Non solo la natura scorre, scorrono anche le sue leggi – e questo scorrimento, come abbiamo già annotato nel post precedente, non è uno svolgimento necessario e predeterminato,  ma un fluire radicalmente contingente.
Questo, tra l’altro, sembrerebbe non valere solo per la vita (tutto sommato un fenomeno minuscolo nell’economia del tutto) ma addirittura per il cosmo o i cosmi, l’universo o i poliversi. La domanda metafisica essenziale fa qui capolino – pure nel bel mezzo di un diluvio bioscientista – e fa risuonare la sua flebile (ma inflessibile) voce: perché, allora, l’essere e non il nulla?

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Quel dito puntato sulla fronte di mio padre

“Canto chi mi ha preceduto […]
L’amore non cantarlo, è un canto di per sé
più lo si invoca meno ce n’è”
(Montesole, PGR)

(quando ho cominciato a scrivere queste note, non avrei mai pensato che sarebbero diventate una sorta di diario… come chiamarlo?… bioaffettivo? bioemotivo? una cronaca a metà tra la riflessione e la passione-pietà, schizzi disordinati sulla vita, la malattia, la fragilità dell’esistenza – e la paura della morte – con un unico filo: il volto smarrito di un padre, la sua indecifrabile agitazione interna; e gli occhi ondivaghi di un figlio, che talvolta fissano quel volto e talvolta deviano lo sguardo; forse ci sarebbe anche da riflettere sulla relazione insieme biologica e affettiva tra genitore e figlio, sul detto e non detto che comporta, su sangue, istinto e cultura – ma forse è meglio, per questa volta, lasciare tutto ciò tra parentesi)

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Amletismi – 1

E se il fatto di filosofare  – cioè di allargare la sfera critica della mente – altro non fosse che uno dei tanti stratagemmi bioevolutivi, che dunque non fanno uscire la specie nemmeno di un millimetro dalla sua angusta sfera? E se questo filosofare critico, oltretutto, non fosse altro che un sovrappiù di carburante, una sorta di stimolatore ormonale del folle sistema tecno-capitalistico – quello stesso sistema che ha deciso di fagocitare ogni cosa pur di trionfare? Non sarebbe allora meglio desistere?

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Raggelanti destini

Ho radunato intorno al suono raggelante di una chiusura sinfonica di Ciaikovskij, alcune sollecitazioni estetiche relative a quello strano fenomeno, cosa o sensazione che definiamo destino. Tre per la precisione, due tratte dalla letteratura (Roth e Dagerman), una dalla biografia di un artista (Schiele). Ne parlo brevemente, per poi concludere con le note agghiaccianti del musicista russo ed alcune sommarie considerazioni circa l’ambiguità di quel concetto.

***

Uccidere un bambino. Stig Dagerman, grande promessa letteraria della Svezia degli anni ’50, morì suicida a 31 anni. C’è un suo racconto terribile che ci consegna una visione angosciosa e quasi intollerabile della vita e del destino dei viventi – le parole da lui usate parlano di “vita spietatamente congegnata”.
“Uccidere un bambino”, racconto di poche pagine scritto nel 1948, si apre con una scena felice, un mattino di sole di una domenica mite e rilassata, durante la quale adulti e bambini si preparano al giorno di festa, ad uscire in barca o a passeggiare beatamente. Ma l’ombra cala subito sulla scena Continua a leggere “Raggelanti destini”

Piccola razionalizzazione del suicidio al fine di…

Già: al fine di che? Per allontanarne lo spettro? Renderlo più comprensibile, o accettabile? Onde prosciugare l’acqua in cui nuota? Per normalizzarlo oppure per esorcizzarlo?

Edouard Manet suicidio

(Sono, quelli che seguono, “ragionamenti a voce alta”, riflessioni e note sparse senza alcun valore di sistematicità).

Al di là del continuo oscillare emotivo a causa dei boli di angoscia che ci soffocano da un lato o delle esplosioni di gioia e di vitalità che ci invadono dall’altro, con tutte le più o meno percettibili tonalità intermedie – un oscillare ontologico, costitutivo dell’umano, come ci testimoniano i più acuti osservatori, siano essi poeti (uno a caso, come Trakl, per il quale ogni giorno ha in serbo un bene e un male), scrittori (come Dostoevskij) o filosofi (come Spinoza) – al di là di tutto questo, si pone l’esigenza razionale di comprendere fenomeni così estremi quali il suicidio, volti a recidere tutti i fili del “destino” o a sottrarsi proprio a quell’intemperanza emotiva di base, che ad un certo punto diventa insostenibile.
Non intendo parlare qui del suicidio in termini psicologici, sociologici o antropologici, e tutto sommato nemmeno storico-filosofici; vorrei solo provare a schizzare qualche riflessione da cui partire per costruire le basi per una (eventuale ma non garantita) comprensione essenziale del fenomeno. Sgombro quindi il campo dalla pretesa di una comprensione integrale, totalizzante: rimane, io credo, un atto con una sua dose di insondabilità, e pertanto di irrazionalità, irriducibilità alla ragione, anche se i filosofi spesso si illudono che non ci siano lati oscuri che non siano prima o poi illuminabili. (Un’illusione che personalmente mi trova piuttosto partecipe anziché no).

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Trinacriablog – 1. Ipocondriache vigilie

zombie

“Se noiosa ipocondria t’opprime…”
(G. Parini)

Se non ho commesso errori nella programmazione del buon vecchio WP, questo post dovrebbe comparire mentre sarò in volo per l’isola. Nelle prossime settimane, fino al mio ritorno alla base, avrei intenzione di pubblicare pensieri ed impressioni legati ai miei periodici ritorni “a casa”. Vecchi pensieri – se riemergeranno – e nuovi – se ce ne saranno. A metà, inevitabilmente, tra l’intimità biografica e la generalità filosofica. Chi quindi non gradisce lo stile diaristico (genesi del mezzo stesso sul quale sto scrivendo) salti pure a piè pari tutta questa parte e attenda, se vuole attendere, la metà di settembre.
Devo però preventivamente registrare un disagio che m’assale ormai ogniqualvolta torno laggiù. Sarà per l’acuirsi della sensibilità e della “tonalità emotiva” (rieccola!), sarà per una maggiore eccitabilità dovuta al sovraccarico di aspettative, o perché la “vacanza” è innanzitutto una disposizione (e una voragine che si va aprendo) dell’anima – fatto sta che la “scheggia nelle carni” dell’angosciatissimo danese s’infiamma sempre più spesso quando sono in procinto di partire. E così quest’anno si è presentata in forma di ipocondria. Già il “mio” omeopata di una stagione di molti anni fa mi disse senza peli sulla lingua che ero affetto da ipocondria. Chissà, magari aveva ragione. E allora una piccola ferita diventa un purulento anfratto che si fa incunabolo del tetano (so che il termine giusto è “incubazione”, ma l’assonanza è evidente, e cunabula sta per culla); ogni passo può essere foriero di una brutta caduta; e persino una pedalata nei boschi può diventare un incubo (di nuovo: da cubare, giacere, che quindi pesa sul dormiente).
E però quest’ultimo episodio ansiogeno ha ben poco a che fare con l’ipocondria…

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