L’Orchestra sinfonica di Milano ha eseguito ieri la Settima sinfonia di Shostakovich, nota come Leningrado, una delle sinfonie più amate ed entusiasmanti del musicista russo (ma mi verrebbe da dire “sovietico”).
Per quanto la parola “entusiasmo” sia del tutto fuori luogo, poiché si tratta di una sinfonia diventata il simbolo della resistenza umana e culturale sotto l’assedio delle armate naziste cominciata con l’invasione del 1941.
Le vicende che riguardano l’opera hanno un carattere inevitabilmente epico, sia per quanto riguarda la sua genesi, sia per le vicissitudini: la disperata ricerca per raggiungere l’organico necessario di 100 elementi, la prima prova durata solo un quarto d’ora per eccessiva debolezza dei musicisti, il viaggio rocambolesco della partitura fino a New York, dove venne eseguita dall’antifascista Toscanini e glorificata dagli alleati americani (salvo rimuoverla nel dopoguerra a causa della guerra fredda), l’applauso di un’ora dei cittadini di Leningrado, dove la sinfonia venne eseguita solo il 9 agosto 1942, con tanto di altoparlanti diffusi in città, i soldati tedeschi frastornati…
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L’epoca della guerra giusta
(Ultime – scomode – considerazioni dell’anno, sulla guerra russo-ucraina)
Imputo la mancata empatia di una parte dell’opinione pubblica, e di non pochi “compagni”, con la cosiddetta “resistenza” ucraina – nonostante l’impegno profuso quotidianamente da stampa, media, potere politico (non ultimo il servile e militarista governo Meloni) – ad un equivoco di fondo, che peraltro caratterizza il fenomeno-guerra in Occidente da oltre 30 anni: la “moralizzazione” valoriale del conflitto, col preciso scopo di camuffarne i caratteri geopolitici.
Ci troviamo cioè del tutto immersi nell’epoca della “guerra giusta” (quella esibita dall’Occidente a guida americana): mentre la Russia neoimperiale mostra la classica faccia muscolare e brutale della guerra (quella che si conduce sempre in continuità con la politica) che dominò nell’Ottocento e in larga parte del Novecento, gli Occidentali hanno vieppiù sovrapposto ai conflitti, elementi etici e metafisici volti a nasconderne la vera natura. Lo sappiamo bene dal ciclo di guerre mediorientali, poi dalle guerre jugoslave, dall’Afghanistan, dalla Libia e dall’infinita guerra al terrorismo lanciata da Bush.
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Perché non possiamo non essere anti-americani
Una delle questioni che torna inevitabilmente alla ribalta nella guerra in corso (che ormai è del tutto fuorviante chiamare “russo-ucraina”), è la nostra posizione – degli antimilitaristi, della sinistra radicale, dell’Italia, ma anche dell’Europa – nei confronti degli USA, e della loro propaggine militare nel vecchio continente.
Dietro la facciata della Russia imperiale e aggressiva, si nasconde in realtà uno scontro a tutto campo tra potenze, con al vertice il destino del dominio globale americano.
L’America – che già nel nome è una sineddoche che si espande su tutto il continente, il caro vecchio “cortile di casa” – fin dalla fine della seconda guerra mondiale è andata consolidando un impero globale fatto di merci, finanza, basi militari (quasi 700 in oltre 70 paesi, con 270mila soldati dislocati), con una enorme capacità di diffondere e spesso imporre un certo immaginario e stile di vita, che nella sua narrazione sarebbe una sorta di compimento universale del meglio della storia umana, un vertice antropologico veicolato dall’Occidente.
Ma dietro questa colonizzazione dell’immaginario, c’è il dato duro e puro del controllo della materia (energia, mercati, denaro e – soprattutto – sistema militare: quando non basta la dissuasione morale o l’imperativo economico, si passa alla forza bruta: le guerre americane sono state innumerevoli: “Gli USA sono stati coinvolti in vari tipi di conflitto armato per 227 anni dei 245 della loro breve storia con circa 124 scontri armati”.)
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Dopo due mesi
Guerra-matrioska, mobilitazione emotiva, ipocrisia neoliberale, “naturalità” della guerra, antimilitarismo unica opzione.
La guerra sta rapidamente cambiando natura, obiettivi, strategie, persino attori (o meglio: sta emergendo ciò che in origine era poco chiaro o in seconda linea). Questa sua rapida trasformazione da apparente guerra locale a guerra potenzialmente globale, se non smonta il mantra aggressore/aggredito della prima ora, lo complica, anche perché la moltiplicazione dei fronti (e delle linee gotiche) rende ormai pressoché impossibile – salvo per gli amici guerrafondai degli imperialisti dei due fronti – schierarsi da una parte o dall’altra. Ma, ancor di più aumenta il rischio che chi non vuole la guerra, ne venga stritolato. Gli antimilitaristi devono perciò elaborare una teoria e una prassi all’altezza di una situazione cangiante e in continua evoluzione.
Ma proviamo a fare un minimo di analisi e a fissare alcuni punti.
Fenomeno e noumeno guerra
Una breve riflessione sul fenomeno (e sul noumeno) guerra, sui limiti della geopolitica e sul pensiero antimilitarista.
Repetita iuvant
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Franco Crespi. Appunti per l’antimilitarismo (1985)
Sommario
Parte prima
A1 – Antimilitarismo
A2 – Il pacifismo buddista
A3 – Il pacifismo taoista
A4 – Il pacifismo cristiano delle origini
B1 – La violenza ed il sacro nei primitivi
B2 – Nomadismo, religione, guerra
B3 – Grecità e guerra
B4 – Aridità della legge, corposità della guerra
B5 – Da Agostino a Tommaso
C1 – Continuità e discontinuità dell’età moderna
C2 – Guerra e rivoluzione
C3 – Guerra e conflitto sociale
Le faglie della guerra
La guerra irrompe e, come sempre, rovescia i tavoli, spariglia le carte, sconvolge gli equilibri. Lascia attoniti e crea sconcerto – soprattutto in chi non ne sa riconoscere i segni e la fenomenologia: la guerra è l’intelaiatura profonda della vita e delle società umane, esattamente come la morte lo è per la vita. In tal senso, la guerra incombe perennemente su di noi. Ma ora si è mostrata di nuovo col suo vero volto, in fatti, carne e sangue.
Quando la guerra irrompe crea immediatamente due epifenomeni che le sono congeniti: una cortina fumogena diffusa, che confonde ancor di più il contorno delle cose; una radicale semplificazione delle cose, un’ontologia del bianco e nero, dell’amico/nemico, del di qua o di là. Nonostante essa sia il portato della complessità (e tragicità) del mondo, al contempo si presenta come la grande negatrice della sua complessità.
Fatte queste premesse generali, occorre però provare a dissolvere quella cortina e, senza lasciarsi condizionare dalla retorica bellica della semplificazione, accingersi ad un minimo di analisi che tenga fuori ogni emotività.
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Ciò che deve accadere
Ritorna la guerra – ma in realtà non se n’era mai andata dalla scena. Scoppia apparentemente all’improvviso, ma è dalla struttura profonda, dall’intelaiatura delle nostre società e relazioni, dai nostri sistemi produttivi e di consumo, dal nostro rapporto con la natura, dal sistema violento e ingiusto della proprietà, dalla disuguaglianza crescente, dalla mancanza di conflitto sociale, dall’acquiescenza, dalla docilità e dall’autoaddomesticamento – che la realtà della guerra, con tutta la sua potenza distruttiva, riemerge in superficie. Ma il sottosuolo è sempre stato quello, la mentalità e il linguaggio non sono mai cambiati – come anche questi due anni di metafore pandemico-belliche ci hanno ricordato. Negli ultimi 20 anni la spesa militare nel mondo è raddoppiata: bastava guardare sotto la superficie, e le strutture profonde del militarismo si sarebbero rivelate, del tutto intoccate nonostante la retorica del nuovo millennio. Che invece si annuncia come il protrarsi di un antico ciclo storico: epidemie, guerre, carestie, migrazioni.
A tutto questo il pacifismo moralista non ha mai saputo opporre alcuna forma di critica radicale o di resistenza. Se non viene messo in discussione alla radice l’assetto ingiusto e avido e distruttivo delle società contemporanee (tutte dominate dal demone capitalista, poco importa se diretto dallo stato o dal mercato), la guerra e la violenza avranno sempre l’ultima parola. E all’inerme di Goya non resterà che continuare ad allargare le braccia, limitarsi a sentire tutt’attorno e sulla pelle i tristi presentimenti di ciò che deve accadere e sperare che le bombe cadano un po’ più in là.
Il granello di senape
Ho finalmente visto l’ultimo film di Terrence Malick, La vita nascosta (A Hidden Life). Non esito a definirlo, insieme a La sottile linea rossa e a The Tree of Life, tra i capolavori della cinematografia del XXI secolo.
Sono due le parole che utilizzerei come filo conduttore: turbamento (ciò che provoca in noi spettatori), forza (il motore segreto che muove i protagonisti).
Il film si ispira alla vicenda di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che dopo l’Anschluss (per la quale fu l’unico del suo villaggio a votare no), decide di obiettare al servizio militare e di opporsi al regime nazista, fino ad essere ghigliottinato a Berlino il 9 agosto 1943.
La sua scelta è radicale, ispirata dalla fede (che condivide fortemente con la moglie Franziska), e che non cede alle pressioni sociali, né all’ostracismo della comunità e nemmeno alle mediazioni ecclesiastiche. Di fronte a quello che riconosce come il male assoluto, Franz è intransigente e sceglie il martirio (verrà poi beatificato nel 2007).
Ora, di fronte ad una vicenda così drammatica e complessa, Malick non si sottrae e investe tutte le sue energie, il suo inconfondibile stile cinematografico, lo scavo interiore espresso dalla voce fuori campo, il linguaggio dei volti e dei corpi, l’estetica dell’immersione naturalistica, il suo profondo antimilitarismo e amore per la vita – al fine di costruire un’intensa rappresentazione insieme visiva e filosofica, per parlarci della responsabilità di fronte a cui ogni umano sempre si trova quando deve scegliere tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso.
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Lettera aperta ai compagni di koinè
Care compagne, cari compagni,
la prima domanda che mi viene è dove siamo finiti? La seconda: com’è che siamo arrivati a questo?
Mi pare evidente che il processo in corso – un governo che, secondo le categorie tradizionali, si colloca all’estrema destra, sostenuto da un’ampia maggioranza non più silenziosa, anzi piuttosto scompostamente loquace – sia un’onda che al momento appare inarrestabile.
Come ogni onda passerà, ma nel passare non sappiamo che cosa travolgerà, né quali macerie o detriti lascerà sul terreno.
L’impressione generale è che vi fosse una diga, già da lungo tempo crepata, e che ora il livore trattenuto nell’inconscio, e dalle ultime vestigia dell’antico pudore sociale, stia dilagando senza più freno alcuno.
Come sempre succede nelle vicende storiche si tratta anche in questo caso di contingenza: l’accumulo, cioè, di una serie spesso diversa e talvolta contraddittoria di evenienze e spinte sociali che ad un certo punto convergono verso una direzione unitaria.
Il primo governo Salvini de facto – perché di questo si tratta, e non sarà certo l’ultimo – ha fatto da catalizzatore e dato la stura a questo coacervo di tensioni, di malesseri, di disagi che covavano da anni, che già si erano mostrati unificati nell’esito del Referendum del 4 dicembre 2016, e che ora hanno trovato una sintesi. Provvisoria? Fragile? Di cartapesta? Non saprei. L’impressione, però, è che non sia così transeunte e passeggera. La mia impressione è anzi che stia emergendo una vera e propria ideologia comunitaria, sorretta da un crescente senso identitario – la nazione, l’italianità, la sovranità, il popolo – tutte categorie che richiamano un ordine politico di stampo organicistico, che definirei un vero e proprio parabiologismo.
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