Una ricostruzione (all’osso) della storia economico-politica dal neolitico in qua:
a) ciò che distingue l’animale umano dagli altri animali è l’eccedenza produttiva
b) il potere si riduce alla capacità di intercettare ed organizzare le eccedenze (tramite schiavitù, tributi, manipolazioni)
c) il tentativo radicale e marxiano – fallito – era quello di immaginare che tali eccedenze si potessero amministrare collettivamente
d) alcuni antropologi contemporanei scompigliano i giochi e ritengono che l’unico modo di stabilire una forma sostanziale di uguaglianza sia quello di eliminare alla radice la possibilità di accumulare eccedenze (praticamente impossibile per società ipercomplesse come le nostre).
Il dilemma diventa: rinunciare alle eccedenze (alla società comoda, alla guerra e alla probabile distruzione del pianeta) o all’uguaglianza?
Tag: antropologia
Epoché
Non è particolarmente originale questo trattatello antropologico-pandemico, scritto a tre mani da Aime, Favole, Remotti. Del resto il suo intento è divulgativo con una forte caratura etica, più un’esortazione che un’analisi puntuale, con molte citazioni e divagazioni – dalla letteratura etnologica a Greta Thunberg, da Latouche a Gosh, dalla Bibbia a Kopenawa.
Leggendolo un po’ di corsa mi sono chiesto se nei comitati scientifici anti-covid siano stati chiamati degli antropologi: credo che qualcosa da dire l’avrebbero anche loro.
I 3 autori si concentrano su 3 questioni essenziali:
1. La categoria di limite: tutte le culture hanno sempre avuto dei riti di “autosospensione”, siano essi autoimposti o indotti da traumi (persino Dio al settimo giorno si riposò).
2. Un’etnografia del confinamento: tutti i termini delle relazioni intraumane raggruppati sotto i concetti di esotico, frontiera, capro espiatorio, rito, prossemica, nel corso della pandemia sono slittati, quando non si sono rovesciati. “Straniero” ora sei anche tu che stai nella fortezza, non solo l’Altro che bussava alla tua porta.
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La bocca
(è questa la traccia dell’ottava passeggiata filosofica, svoltasi in ottobre)
La bocca è un tema di grande interesse per la riflessione antropologico-filosofica, un po’ come lo è stato per Lévinas quello del volto. In verità non mi pare siano state prodotte riflessioni di rilievo su questo tema, né mi risulta che qualche filosofo vi abbia dedicato un testo di peso.
Eppure la bocca, nella sua dimensione sia fisica che simbolica, nel suo essere punto d’entrata ed uscita (basti pensare alle espressioni bibliche in proposito), nella sua molteplice funzionalità, ma soprattutto nel suo essere profondamente ambivalente, non può non interessare la riflessione filosofica: un’ambivalenza che già era stata rilevata da Canetti, in alcune pagine notevoli di Massa e potere, in particolare nel capitolo intitolato “Afferrare e incorporare”: la bocca è lo strumento biologico atto ad ingoiare ciò che la mano le porge per la sua sopravvivenza. La bocca è innanzitutto strumento di morte per affermare la propria vita: i denti stritolano la preda che attraversa quella cavità-prigione che sta subito dietro, per precipitare nella gola e nell’abisso più interno al corpo. Quel che accade attraverso la bocca è che un corpo ne incorpora/assimila un altro: la bocca è lo strumento fondamentale del meccanismo dell’eterotrofia.
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Antropocene 2 – Prima l’Africa!
Il titolo di questo incontro, se da una parte vuol fare il verso a quell’infelice slogan che va ora per la maggiore (“prima gli italiani” – ma anche “first America”, prima noi, padroni a casa nostra – che è poi sotto sotto prima io e la mia tribù), dall’altra allude a una realtà storico-antropologica ormai incontestabile: è dall’Africa che veniamo tutte e tutti. L’Africa sta alle origini della storia della specie e di tutte le sue infinite migrazioni planetarie. Ed è all’Africa che tutti i nodi dell’ingiustizia globale ritornano…
1. Una specie scissa
La paleoantropologia e la biologia ci fanno sapere che homo sapiens è un’unica specie (e l’unica specie umana rimasta sul pianeta, dopo che i nostri vari cugini diversamente umani si sono estinti per cause ancora da chiarire).
Ciò non vuol dire che al suo interno non vi siano “varietà” e diversificazioni, sia sul piano biologico (genetico) che sul piano culturale – ma è ormai assodato che le prime sono minime ed inessenziali, del tutto marginali, mentre sono le costruzioni culturali ad essere ben più consistenti.
Antropocene – 1. Che cos’è la coscienza?
1. Possiamo introdurre il percorso di quest’anno partendo dalla celebre espressione di Kant che ho scelto come titolo generale – “il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me” – contenuta nella conclusione della Critica della ragion pratica: le due direzioni dello sguardo cui qui si allude – fuori di me (il cielo stellato) e dentro di me (la legge morale, ma, più in generale l’intera sfera mentale, sia emotiva che razionale) – riguardano proprio la duplicità costitutiva della coscienza.
La coscienza è esattamente questo duplice modo di sentire e di considerare l’esistenza, uno rivolto all’interno e uno all’esterno. Che è come dire che la duplicità di corpo e mente (o anima o coscienza) è già contenuta nella coscienza stessa, che sembra quasi sdoppiarsi e fondare questa dicotomia.
L’esame di questa duplicità – che è anche un’opposizione – costituirà il nostro percorso di quest’anno, che avrà così un carattere insieme filosofico ed antropologico: natura e cultura – insieme a corpo e mente, materia e spirito – saranno i due poli principali di questa oscillazione originaria della coscienza.
Ho detto “originaria”, ma occorrerà verificare esattamente che cosa qui si intende per origine.
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Smartossici
Sempre più lo smartphone sta diventando l’oggetto principale – il dispositivo universale – che scandisce il tempo di milioni, anzi di miliardi di umani. Si è diffusa una vera e propria smartdipendenza, che ha creato schiere di smartossici e nuove forme di alienazione metropolitana. Da tempo osservo questi processi, che paiono ineluttabili, con un misto di incredulità e di stupore. Naturalmente ci sarà qualcuno che nel frattempo starà specularmente osservando me, mentre a mia volta ne faccio uso. Nessun’altra dipendenza come quella da smartphone è mai stata così rapida, virale, invasiva e… speculare-speculativa, quasi che ci si trovi ormai in presenza di un sostituto evolutivo dei neuroni-specchio.
Il paradosso maggiore che si genera in questa grande smartbolla nella quale siamo immersi – un paradosso ormai ampiamente digerito nonostante la sua evidenza – è l’illusione di essere in contatto col vasto mondo, proprio mentre si perde il contatto col mondo – con quel che fisicamente e socialmente era il mondo, ritenuto a torto o a ragione troppo piccolo, fino a qualche decennio fa. Si obietterà che questo accade (o accadeva) anche con la lettura dei libri, con la radio e la tv, con l’ascolto della musica in cuffia, e con la dislocazione in un altrove da essi favorita. Ma lo smartphone è infinitamente più potente di un libro o di qualsiasi altro contenitore di suoni e immagini: esso è un borgesiano libro dei libri, e molto, molto di più. È immagine, parola, suono, voce, medium, desiderio, astrazione, specchio delle mie brame – ma soprattutto rappresenta l’apertura potenziale ad ogni cosa, un vero e proprio oggetto metafisico universale, allusivo e simbolico come pochi altri oggetti. Ogni app, da questo punto di vista, è come una formula o una bacchetta magica.
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Il volto e il corpo dell’altro – 2. Stranieri, xenìa e homo migrans
“Straniero” è parola che viene dal latino extraneus, che sta per esterno, esteriore, di altri. Medesima origine ha l’aggettivo “strano” (che invece in latino era reso dalla parola novus, nel significato di insolito) – convergenza ed assonanza che dovrebbe far riflettere.
Lo straniero è così ciò che sta fuori dei confini (familiari, nazionali, etnici, culturali, linguistici, ecc.) e che è affetto da stranezza, diversità, non familiarità. È l’estraneo che provoca turbamento.
I greci avevano invece coniato una parola – “barbaro” – che definiva lo straniero come colui che non parla la lingua greca, che letteralmente “balbetta” (bàrbaros è parola onomatopeica).
Molto diverso – e altrettanto interessante – il significato della parola greca xénos, che sta sì a designare l’altro-straniero (addirittura il nemico, come in Omero), ma con sfumature molto ampie che ricomprendono anche la figura dell’ospite: xenìa indica infatti il vincolo di reciproca ospitalità. Quasi che in questa parola si accenni alla condizione universale di estraneità che può colpire in qualsiasi momento gli umani costretti a lasciare, per qualsiasi ragione, la loro casa, la loro terra, il loro paese, e che trovano confortante l’idea che da qualche parte ci sia uno straniero-ospite pronto ad accoglierlo (molto interessante a tal proposito l’ambivalenza della parola “ospite”, che indica sia il soggetto che ospita che quello ospitato).
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Quinto fuoco: toccati dall’ignoto
Massa e potere di Elias Canetti è un testo unico nel panorama culturale, letterario e scientifico del ‘900, così com’è unico il suo autore (che scrive tra l’altro un unico romanzo, Auto da fé, considerato uno dei più rilevanti del secolo). Non è un saggio di sociologia, né di psicologia o di antropologia, e nemmeno può essere considerato un testo storico o filosofico (di filosofi non ne vengono praticamente citati): pur tuttavia si fa ampio riferimento a racconti etnografici così come a referti clinici, a casi storici (spesso poco noti), alla zoologia, all’etologia – anche se non vi è nessuna di queste discipline a prevalere. Massa e potere non ha in sostanza un taglio specialistico, e rimane un testo inclassificabile – cosa che ne fa senza dubbio aumentare il fascino e l’interesse.
Leggerlo è un’esperienza quantomai “straniante”: al termine ogni nostro più piccolo gesto ci apparirà sotto tutt’altra luce (da questo punto di vista lo ritengo filosofico nel senso più alto: massima gioia conoscitiva e disagio e angoscia crescenti nel progredire spiazzante della conoscenza di sé).
Potremmo dire che quella di Canetti è una ricerca di tipo “genealogico”, che va alle origini, alle spalle, alla base delle nostre pulsioni più profonde: massa e potere non sono solo concetti o “astrazioni”, ma il modo in cui i nostri corpi agiscono e interagiscono.
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La muta (ovvero dell’invarianza biologica)
Esperienza antropologica primaria – e primitiva – stamane nel bosco. Concentrato sulla corsa, sui movimenti di gambe e braccia, sul ritmo del respiro, uno due uno due – d’improvviso uno sparo seguito da urla umane e ululati di cani.
Rottura del ritmo. Angoscia. La mente prima svuotata torna a riempirsi di pensieri. Elias Canetti. Massa e potere, che sto leggendo in questi giorni. In cui si parla di mute di caccia, di fughe, di sopravvissuti, di spine del comando. E penso. All’invarianza biologica. All’animale che è in noi – che è noi. Cui ci riduciamo per lo più. La torta sotto la glassa. Non riti, non simboli – o non solo.
Poco fa, qui nei boschi del mio paese, nell’anno 2016, una muta umano-animale eccitata e urlante, andava a caccia di prede, con la bava alla bocca e il sangue in tumulto.
Terzo fuoco: homo homini deus
Il nostro terzo incontro avrà come oggetto di discussione la religione. Naturalmente è un argomento vastissimo, noi ci limiteremo a domandarci se ha ragione Marx nel definirla oppio del popolo, e quale possa essere il senso di questa definizione in un periodo così tormentato (anche in termini religiosi) come il nostro. A guidarci sarà L’essenza del cristianesimo, un saggio del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, pubblicato nel 1841 e cruciale (anche per Marx) sul significato della religione nella vita umana – con un approccio che antropologizza la teologia e umanizza il divino, invertendo così i termini del rapporto che lega l’uomo a Dio (il predicato e il soggetto), svelando il “trucco religioso” e smascherandone il vero senso: non Dio crea l’uomo, quanto piuttosto è l’uomo a creare Dio, riponendo in esso le cose essenziali, i tesori della propria umanità. Se tradizionalmente si pensava che il soggetto-creatore fosse Dio, e l’uomo il predicato che ne deriva, occorre invece rovesciare questo rapporto, e rimettere le cose al loro posto.