L’agonia della pace

«La mia più intima missione, quella cui per quarant’anni
avevo dedicato tutte le mie energie,
tutte le mie convinzioni – un’Europa unita e in pace –
era fallita

L’ultimo capitolo de Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo – l’autobiografia, di un’epoca ben più che individuale, che Stefan Zweig consegna ai posteri il giorno prima del suicidio – si intitola L’agonia della pace. Garzanti ne ha recentemente pubblicata una versione nella collana i piccoli grandi libri, immagino non a caso in questi tempi in cui la guerra torna a fare capolino in Europa – e che a non pochi osservatori rievoca un nuovo 1914: la fine, cioè, di un’epoca di relativa stabilità, e l’affacciarsi di un ignoto che annuncia possibili immani disastri.
Zweig vede nell’epoca da lui vissuta in prima persona (dagli inizi del secolo agli anni ‘30), tutti i chiari segni e sintomi della tragedia che sta per compiersi.
Vede il venir meno dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’umanitarismo; la crisi dell’idea di progresso; l’ipocrisia sociale, la crescita delle disuguaglianze, l’avvento del totalitarismo.
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La schizofrenia ontologica – Oltrepassare Severino 2

Leggendo il libro di ricordi di Emanuele Severino – che com’è giusto che sia mescola esistenza e filosofia, affetti e ragionamenti, biografia e ontologia – si ha tuttavia l’impressione di una schizofrenia di fondo. Uso il termine nel suo significato originario (“divisione della mente”), senza dunque alcuna connotazione psichiatrica, per sottolineare una vera e propria Trennung filosofica, una scissione che non è soltanto quella convenzionale tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, la finitezza della mia mente e l’intero universo nel quale quella mente si sente sperduta, ma che attiene al discorso filosofico essenziale di Severino. Lo esemplifico con due metafore da lui utilizzate nel testo:
la prima allude all’altalenante condizione del sogno e della veglia nella quale ci troviamo immersi, un tema che da Eraclito a Calderon de la Barca ha una lunga tradizione, ma che in Severino pare caricarsi di una inaudita radicalità: il sogno (“la terra isolata dal destino”) essendo la nostra condizione fondamentale, da cui emerge la via della veglia (e dunque della verità), che solo in quanto porta alla luce il sapere che l’apparire di quell’apparire non è un sogno, può indicare il “destino”, cioè lo stare assolutamente incondizionato;
la seconda metafora, di ascendenza evangelica, è quella del campo dove crescono il loglio e il grano: lo spazio dell’uno o dell’altro delimita rispettivamente quel che è proprio dell'”esser uomo” (quell’uomo errante che è Emanuele Severino), e quel che invece è “testimonianza del destino”, un Io-destino infinitamente altro dall’io-Severino. Il merito che Severino pare attribuirsi è quello che nel “suo” campo (ma è “suo”? e che cos’è il campo? – è lui stesso a chiederselo) è via via andato crescendo il grano, confinando il loglio in spazi sempre più ristretti.

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