Ismi

Enrico Letta parla di “emergenza democratica”, ma è un’espressione del tutto mal riposta se riferita a Giorgia Meloni (tra l’altro è specularmente lo stesso gioco utilizzato da Berlusconi a proposito del “pericolo comunista”). Niente di più falso, l’emergenza sta semmai da tutt’altra parte, e cioè nella totale impotenza della politica e dei governi che verranno nel fare o cambiare alcunché, materialmente, indipendentemente dal loro colore.
Chiunque vada al governo si troverà ingabbiato dagli -ismi nei quali ci siamo infilati da tempo: atlantismo, economicismo, produttivismo, scientismo, militarismo… E potrei continuare. Si tratta dell’ideologia-mondo alla quale abbiamo consegnato anche l’ultima cellula di psiche e di sovranità – e, direi, di costituzionalità. La Costituzione è stata svuotata dall’adesione acritica e pressoché automatica a tutte quelle gabbie e -ismi che appaiono ormai come irrinunciabili.
Ciò non vuol dire che occorra credere alla favola del “sovranismo” incondizionato: non esiste individuo, stato o comunità che sia del tutto autodeterminato e proprietario di se stesso. Ogni organismo – biologico o culturale – comparso sulla faccia della Terra dipende sempre e comunque da tutti gli altri.
Ciò non equivale però a rinunciare alla negoziazione della propria posizione nel mondo: e l’agire politico è – dovrebbe essere – proprio questa capacità di dialettizzare, confliggere, mediare e tessere relazioni e prospettare nuovi possibili intrecci. Soprattutto superare tutti quegli -ismi che perpetuano l’ingiustizia ed il privilegio. Ecco perché l’agire politico non è mai alienabile o delegabile in toto, pena la precipitazione in uno stadio subumano e superagito.
Se la politica non fa questo – se essa non è questo – diventa uno dei tanti -ismi: politicismo, tecnicismo, chiacchiericcio del tutto autoreferenziale e funzionale all’intoccabilità del sistema.
Questa è l’unica vera “emergenza democratica” che vedo.

La forza

Rialza la testa il patriarcato, avanza il lavoro servile, arretra l’autodeterminazione.
Con la parola “autodeterminazione” occorre intendere quell’insieme di “diritti” – che io preferisco chiamare affermazioni ontologiche, libera espressione delle forme di vita – che fanno sì che i soggetti plurali, nel loro essere corpi, menti, anime o quel che intendono essere, possano autorealizzarsi in maniera onnilaterale.
Da questo punto di vista non c’è alcuna distinzione tra diritti sociali, economici o civili, e nemmeno tra diritti individuali e collettivi. Tutti si tengono, tutti avanzano o arretrano insieme.
Ciò vuol dire che ogni ostacolo a questa autoaffermazione ed autorealizzazione – alla autodeterminazione di ciascuna soggettività – legittima l’uso della forza. Ciò che impedisce il libero fluire della vita deve essere tolto di mezzo.
La forza dei corpi e dei soggetti contro i loro poliziotti e controllori, contro i loro sfruttatori, contro i loro imbonitori, contro ogni disciplinamento.
La forza è inscritta in ciascun essere vivente.
La forza abbatte ogni gerarchia.
La forza che libera è il motore della storia.

Zoon politikon – 4. Sfuggente libertà

Libertas
1 libertà, condizione civile di uomo libero
2 affrancamento, emancipazione dalla schiavitù
3 autonomia, libertà politica
4 assenza di obblighi o costrizioni
5 permesso, licenza
6 franchezza, schiettezza, sincerità, libertà di parola
7 licenziosità, dissolutezza, libertà di costumi
8 indipendenza di carattere, amore per la libertà, spirito di libertà
9 immunità, esenzione da imposte
10 Libertas, la Libertà personificata e venerata a Roma come dèa

Vi sono già nella radice latina del termine le connotazioni variamente articolate, talvolta contraddittorie, con cui noi intendiamo questo concetto. Sono senz’altro presenti le due caratteristiche essenziali: la libertà (negativa) DA costrizioni e la libertà (positiva) DI agire (quello che viene comunemente denominato libero arbitrio). Ma vi è anche l’allusione al piacere (libido, che secondo alcuni condivide con libertas la medesima radice linguistica). Così come il riferimento alla sfera economica o giuridica (immunità, esenzione).
In sostanza possiamo dire che da questo ceppo comune derivano teorie molto diverse, talvolta incompatibili: le figure sociali di libertario, liberista, libertino, libero pensatore, liberale… – sono già tutte lì dentro.

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Biodeterminazione

Questo blog era nato sotto gli auspici del più anarchico e provocatore dei filosofi – quel Diogene di Sinope che sopportava così poco di essere pre-determinato (soprattutto dal potere e dalla pressione dei costumi correnti) da voler decidere di morire mordendo il respiro: nemmeno la natura, che pure i cinici prediligono contro il nòmos della polis, deve poter decidere di me! Può suonare tracotante e smisurata questa affermazione di autodeterminazione – ma certo lo sono molto di più le pretese o le vocazioni di altri: dio, la religione, lo stato, la casta dei medici e degli scienziati, le macchine: perché mai costoro dovrebbero sostituirsi a me (e alla natura), per plasmare e riplasmare la forma di vita che sono, decidendone modi e confini?
Era dunque sacrosanto – e atteso da troppo tempo – che anche questo paese bigotto e retrivo si dotasse di una legge minima a tutela di questa irrinunciabile autonomia e libertà dei singoli. Già nessuno ha richiesto di nascere – per lo meno che si possa decidere di morire se si ritiene che la vita (medicalizzata e allungata oltre ogni senso e misura) sia diventata intollerabile.
Non c’è in questo nessuna ideologia di morte, nessun nichilismo, nessun cupio dissolvi – molto più mortifere e distruttive, semmai, le pulsioni umane ad occupare e ammorbare il pianeta e a spadroneggiare sulla natura in un crescente delirio di onnipotenza. Una morte pietosa e ragionevole – sazi di giorni e di affetti, non di cose – dà forma a una vita ragionevole, e viceversa. Me lo ha insegnato silenziosamente mio padre, che desiderava morire non certo perché odiasse la vita, ma perché era esausto di una vita determinata da potenze estranee, biochemiomedicalizzata, che non sentiva più essere la sua forma di vita.

(Onni)potenza medica

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Abbiamo un problema con la medicina. Che è poi il medesimo problema che abbiamo con la tecnica, ovvero un crescente delirio di onnipotenza (ed una corrispettiva sensazione di impotenza)
Non è qui in discussione che la medicina di tipo organicistico-positivistico abbia conseguito enormi successi. Per lo meno sul piano quantitativo (l’ambito qualitativo è un’altra faccenda): antibiotici e vaccini hanno condotto un’immensa guerra batteriologica dell’umanità contro il resto del mondo, mai vinta del tutto ma sicuramente efficace (non saremmo altrimenti sette miliardi, quasi otto). La chirurgia ha plasmato e riplasmato i corpi. Siamo ormai sulla soglia del corpo ibrido, biomeccanico.
Tuttavia, proprio questo indiscutibile successo ha finito per far montare la testa al potere medico (e farmaceutico): ospedalizzazione, medicalizzazione e farmacologizzazione integrale degli umani non bastano più, ora si entra anche nel territorio liminale di vita e morte.
Già in passato ho discusso di eutanasia, su questo stesso blog, a partire dalle riflessioni di Hans Jonas – che proprio del rapporto tra etica e medicina si è molto occupato. È un argomento su cui occorre essere molto cauti, ma avevo concluso (cosa di cui sono ancora convinto) che è di esclusiva pertinenza del soggetto vivente/morente decidere sui limiti della propria vita/morte: la sfera della sua autodeterminazione non può mai essere violata, e soprattutto non deve esserlo in nessun caso dal potere medico. I medici indagano, diagnosticano, curano – ma è il “malato” a dover decidere su di sé, e deve poterlo fare quando è in grado di intendere e di volere (espressione di volontà che, ovviamente, può presentare problemi, motivo per cui è necessaria più che mai una legge che regolamenti tali volontà, in forma di “testamento biologico” o altro).
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Quinta parola: libertà

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[Sommario: Libertà e filosofia – L’uomo-misura di Protagora – Socrate eroe classico della libertà – Diogene hippy e cosmopolita – Il giardino di Epicuro – La catena degli stoici – Il libero arbitrio di Agostino – L’uomo proteiforme di Pico della Mirandola – Necessità e libertà in Spinoza – Stato e individuo: il liberalismo – Libertà, natura e spirito – L’oltreuomo nietzscheano – Sartre e l’esistenzialismo: libertà come possibilità – Libertà moltitudinaria – Responsabilità, alterità e libertà]

Il concetto di libertà è piuttosto sfuggente e, soprattutto, cangiante: epoche e culture diverse intendono questo termine in maniere inevitabilmente diverse. Ma senza voler entrare nella molteplicità dei significati e delle sfumature, evocare la libertà nel campo filosofico significa evocare nello stesso tempo una delle condizioni essenziali del pensiero: di libertà i filosofi hanno bisogno come l’aria, senza libertà di pensiero non ci può essere filosofia.
Ma di che cosa realmente parliamo quando parliamo di libertà? Da che cosa (o di che cosa) siamo (o dobbiamo) essere liberi? E poi: possiamo davvero esserlo, o si tratta di una pura illusione?
Ci faremo queste domande scorrendo velocemente il pensiero di alcuni filosofi o correnti filosofiche, dalla grecità all’epoca contemporanea.

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Terzo lunedì: la “madre” di tutte le decolonizzazioni

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Premessa biografica.
La scoperta, peraltro tardiva, di uno scritto femminista dei primi anni ’70 che si intitolava Sputiamo su Hegel, ebbe su di me un duplice effetto. Da una parte fui turbato (e al contempo divertito per la singolarità del titolo), poiché si sputava proprio nel piatto nel quale stavo mangiando da tempo, oltretutto con gusto: Hegel era il filosofo che più avevo studiato (e amato) e che maggiormente aveva condizionato la mia formazione filosofica nonché la mia concezione del mondo, della storia, della politica. Dall’altra, quella scoperta non era certo casuale, dato che si innestava su una parallela frequentazione di ambiti di pensiero radicalmente critici (tra cui, ovviamente, quello femminista), non solo nei confronti della tradizione filosofica, ma soprattutto della società e delle sue strutture categoriali.
Una mia cara amica e compagna di studi, con la quale condividevo l’assunto marxista della stretta connessione tra teoria e prassi, mi disse un giorno che non capiva perché mai dovesse studiare tutti quei filosofi uomini, che avevano elaborato teorie di dubbio valore universale (al più potevano essere semiuniversali), e nei quali, soprattutto, finiva per non riconoscersi. Ecco allora che “sputare su Hegel” non era solo un gesto simbolico o provocatorio, quanto piuttosto un chiedersi radicale e straniato – che non valeva solo per le assoggettate di sempre, ben poco contemplate in quel “Soggetto” cui il filosofo tedesco dava una suprema importanza – se il discorso filosofico che andavo studiando sui libri riguardasse o meno la mia esistenza e l’esistenza collettiva nella quale ero immerso.
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Zingari del cosmo

Qualche tempo fa mi ponevo alcune domande circa la possibilità di una razionalizzazione di quel fenomeno sfuggente e talvolta insondabile che è il suicidio. E scrivevo:

“Chi si suicida che cosa effettivamente fa, che cosa revoca in dubbio, da che cosa si distacca davvero?
Il suicidio non è una morte come un’altra (naturale o spirituale che sia), cioè il succedersi biologico o culturale di un ordine, la sua incessante riaffermazione, l’andarsene ordinatamente di una cellula o di una tessera del mosaico per lasciare il posto alla seguente. Vuole essere semmai la rottura di quell’ordine, la ridiscesa nel caos o, specularmente, la denuncia dell’illusione dell’esistenza di un cosmo, di un ordine, di un senso”.

Ciò che, ad esempio, si è creduto per una vita – la possibilità di trasformare il mondo conferendogli un ordine più giusto, facendolo in vitale compagnia d’altri, magari con un forte senso degli affetti, dell’amicizia e della comunità – tutto ciò si infrange ai confini di un territorio che non avevamo previsto. Ci si ritrova non soltanto soli, ma esseri vaganti in un cosmo di cui non comprendiamo più il significato.
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Bioepoca – seconda parte

Diamo ora uno sguardo alla scienza e alla tecnoscienza.
La rivoluzione scientifica in epoca moderna – attraverso la riappropriazione della natura da parte della sfera umana, sottratta alla precedente ipoteca teologica – costituisce l’avvio di un processo di teorie e di conoscenze che oggi possiamo definire apparato tecnoscientifico, e che si sostanzia in una precisa mentalità nei confronti del mondo naturale.
La scienza si presenta apparentemente in forma di sapere neutrale ed oggettivo, lontano da ogni connotazione valoriale (fatti, non giudizi): in una formula matematica o in una reazione chimica, oppure nella conoscenza relativa alle tecniche riproduttive dei coleotteri non c’è, né può esservi, nulla di rilevante sul piano etico. Questo non vuol dire che il sapere scientifico è l’unica forma di conoscenza data. Anche un quadro o una sinfonia ci dicono qualcosa della realtà; basti poi pensare alla poesia, e a quanto essa sia in grado di descrivere con precisione i sentimenti umani, magari meglio di quanto non facciano le neuroscienze (che si limitano spesso a tradurli in reazioni chimiche o in “luci” che si accendono nelle varie parti del cervello).
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Piccola razionalizzazione del suicidio al fine di…

Già: al fine di che? Per allontanarne lo spettro? Renderlo più comprensibile, o accettabile? Onde prosciugare l’acqua in cui nuota? Per normalizzarlo oppure per esorcizzarlo?

Edouard Manet suicidio

(Sono, quelli che seguono, “ragionamenti a voce alta”, riflessioni e note sparse senza alcun valore di sistematicità).

Al di là del continuo oscillare emotivo a causa dei boli di angoscia che ci soffocano da un lato o delle esplosioni di gioia e di vitalità che ci invadono dall’altro, con tutte le più o meno percettibili tonalità intermedie – un oscillare ontologico, costitutivo dell’umano, come ci testimoniano i più acuti osservatori, siano essi poeti (uno a caso, come Trakl, per il quale ogni giorno ha in serbo un bene e un male), scrittori (come Dostoevskij) o filosofi (come Spinoza) – al di là di tutto questo, si pone l’esigenza razionale di comprendere fenomeni così estremi quali il suicidio, volti a recidere tutti i fili del “destino” o a sottrarsi proprio a quell’intemperanza emotiva di base, che ad un certo punto diventa insostenibile.
Non intendo parlare qui del suicidio in termini psicologici, sociologici o antropologici, e tutto sommato nemmeno storico-filosofici; vorrei solo provare a schizzare qualche riflessione da cui partire per costruire le basi per una (eventuale ma non garantita) comprensione essenziale del fenomeno. Sgombro quindi il campo dalla pretesa di una comprensione integrale, totalizzante: rimane, io credo, un atto con una sua dose di insondabilità, e pertanto di irrazionalità, irriducibilità alla ragione, anche se i filosofi spesso si illudono che non ci siano lati oscuri che non siano prima o poi illuminabili. (Un’illusione che personalmente mi trova piuttosto partecipe anziché no).

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