JJR 2 – L’arcano della proprietà

Qualche giorno fa una ricca ministra del governo italiano in carica, rivendicava la propria ricchezza come “non peccaminosa”, e come qualcosa di cui non ci si debba vergognare. A parte l’interessante accostamento alla sfera del sacro, la suddetta ministra rimuoveva l’ovvietà (sepolta sotto anni di pesante restaurazione) di dover rendere conto delle cause e delle radici di quella ricchezza. Non tanto della sua propria – di cui m’interessa poco (e su cui i riccastri fanno di solito leva, per argomentare con la naturale passione umana dell’invidia) – ma, più in generale, della genesi e struttura della proprietà in quanto tale. Continuare a suonare la campana a morto del pensiero marxiano, che aveva messo il dito sulla piaga, non li esime  certo dal dover rispondere alla domanda essenziale: donde viene, qual è il senso storico, sociale ed antropologico della loro ricchezza? come si è originata ed accumulata? e che cosa se ne fanno?
Sono domande che, come appare evidente, esulano dalla sfera etica o morale. Non è con i sensi di colpa che si cambiano le cose, ma con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Togliere il velo dagli occhi di chi guarda e il velo dell’oblio dai rapporti sociali (cos’altro è la ricchezza se non questo?), è semmai il compito primario del pensiero critico.
Ascendendo di causa in causa, uno degli affluenti più importanti del fiume marxiano è proprio il pensiero politico-antropologico di Jean-Jacques Rousseau, in particolare quello del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, la cui rilettura attenta consiglierei al ministro di cui sopra…

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Profanare i dispositivi

“… e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà”
(G. Gaber)

“Portare alla luce quell’Ingovernabile, che è l’inizio e, insieme, il punto di fuga di ogni politica” – con tale auspicio Giorgio Agamben conclude la sua lezione-saggio intitolata Che cos’è un dispositivo? Non posso qui dilungarmi nell’analisi (di tipo genealogico) del concetto di dispositivo, utilizzato da Foucault fin dagli anni ’70, alle cui spalle c’è il concetto hegeliano di positività e, prima ancora, la latina dispositio e l’oikonomia teologica – anzi, premetto subito che questo risulterà forse un post piuttosto denso ed ellittico, ma qualche esempio addotto qua e là potrà renderlo più comprensibile (ad ogni modo, il testo di Agamben è stato pubblicato nel 2006 da Nottetempo nella collana “I sassi“, quella serie di libretti a 2-3 euro che ricorda un po’ i vecchi e geniali Millelire di Stampalternativa).
Intanto comincio con il riassumere brevemente il significato di dispositivo – prima con le parole di Agamben: “qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”; – e poi con la mia personale sintesi: il già-dato-e-prodotto tendenzialmente automatico e meccanizzato della rete sociale (una vera e propria ontologia sociale, così come esiste un già-dato dell’elemento biologico) che non solo avviluppa gli individui, ma che soprattutto ne produce (o destruttura) le soggettività. A tal proposito Agamben ipotizza addirittura una partizione ontologica tra due vere e proprie classi: gli esseri viventi e i dispositivi. Nel mezzo i soggetti, quali prodotti del “corpo a corpo” tra le due classi.
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